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Tutela delle coppie, reati d’odio, matrimonio e costituzione

Relazione tenuta dal Dott. Marco Gattuso, magistrato del tribunale di Reggio Emilia, in occasione del convegno organizzato dal Siulp a Roma il 17 luglio 2012 su sessualità e corpo nelle forze dell’ordine.

Devo ringraziare innanzitutto per l’invito a questo convegno che mi pare della massima importanza per i temi che vengono affrontati forse per la prima volta in un ambito come questo. Ho sempre ritenuto che la collaborazione tra la magistratura e le forze dell’ordine sia essenziale per lo svolgimento del nostro compito comune, cioè assicurare giustizia e sicurezza al cittadino. Entrambi, magistrati ed appartenenti alle forze dell’ordine, abbiamo giurato sulla Costituzione che è la nostra prima guida, il canovaccio del nostro lavoro quotidiano e che contiene, come suo asse portante, il principio di uguaglianza: il nostro ordinamento si regge sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Per oltre 11 anni ho svolto le funzioni di giudice di sorveglianza ed il mio rapporto con le forze dell’ordine è stato sempre molto intenso. Adesso sono giudice civile presso il tribunale ordinario, e mi occupo tra l’altro anche della materia dell’immigrazione, ed ho cercato di stabilire sempre un rapporto di grande collaborazione con le forze dell’ordine, ma, soprattutto, devo dire che ho sempre imparato molto, davvero, dal contatto diretto e dallo scambio di vedute sia con la polizia penitenziaria che con chi si occupa della sicurezza sul territorio ed è a diretto contatto con le persone. Dunque con grande piacere ho accolto l’invito a partecipare a questo convegno.
Di recente il nostro tribunale ha potuto sperimentare l’importanza di questa proficua collaborazione proprio in relazione al tema di cui ci occupiamo oggi. Un cittadino italiano, di Reggio Emilia, avendo sposato una persona del suo stesso sesso in Spagna dove, come sapete, è stato aperto il matrimonio anche le persone dello stesso sesso, ha chiesto una volta tornato in Italia la carta di soggiorno per il proprio coniuge. Poiché la questura di Reggio Emilia aveva rigettato l’istanza, il cittadino italiano si è rivolto al nostro tribunale chiedendo il riconoscimento del diritto del proprio coniuge a soggiornare in Italia. La mia collega, il giudice Tanasi, ha studiato per molti mesi la questione, studiando la disciplina italiana ma anche l’assai complessa disciplina europea, ed alla fine di questo studio ha disposto che venisse concessa la carta di soggiorno. È chiaro che in questo modo non intendeva smentire il lavoro della questura poiché è evidente che uno studio giuridico così approfondito poteva essere svolto soltanto in questa fase avanti ad un giudice di tribunale e non certo da parte degli uffici della questura. E l’esito di questa vicenda è davvero molto importante, in quanto non solo l’avvocatura dello Stato letto il provvedimento del tribunale ha ritenuto di non impugnarlo, e la questura di Reggio Emilia ha rilasciato la carta di soggiorno, ma, soprattutto, qualche settimana fa abbiamo saputo che anche la questura di Milano in un caso del tutto analogo ha riconosciuto il diritto di soggiorno proprio in seguito al provvedimento di Reggio Emilia. Si tratta dunque di un esempio evidente di fattiva collaborazione tra magistratura e pubblica amministrazione nella tutela dei diritti fondamentali del cittadino.
Il tema che mi è stato assegnato oggi, quello della legislazione e della giurisprudenza in materia di diritti LGBT (utilizziamo questo acronimo, ormai molto diffuso, per indicare le persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali), è estremamente vasto e per tale ragione mi limiterò a dare soltanto qualche indicazione in relazione ad alcune nozioni fondamentali.
Bisogna dire, innanzitutto, che nonostante la mancanza di una legge ordinaria in materia di tutela dei diritti delle persone omosessuali e transessuali, non viviamo in un vuoto normativo. I diritti fondamentali delle persone sono infatti riconosciuti dalla Costituzione, dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo, dai Trattati europei. Ognuno di noi è titolare di diritti fondamentali, anche se il Parlamento non li regola in concreto. I cittadini ebrei, per fare un esempio, sono pienamente titolari dei diritti fondamentali dell’uomo anche in assenza di una normativa specifica. La mancanza di una specifica normativa a tutela, ad esempio, degli ebrei non rende legittimi comportamenti discriminatori nei loro confronti, poiché gli ebrei sono come tutti noi titolari dei diritti fondamentali previsti dalla Carta costituzionale e dalle Carte europee. Dunque, non viviamo in un vuoto normativo. La Costituzione italiana conferisce ad ogni cittadino il diritto fondamentale all’identità personale, alla dignità personale, il diritto a costituire una famiglia. Anche le persone gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (in una parola, lgbt) sono titolari dei diritti fondamentali all’identità personale, alla dignità personale ed anche a costituire una famiglia come riconosciuto di recente dalla Corte di Strasburgo e dalla nostra Corte di Cassazione.
Due nozioni fondamentali su cui dobbiamo soffermarci sono quelle di “orientamento sessuale” e di “identità di genere”, che sono state ben delineate e definite dalla Corte costituzionale in due sentenze, nel 1985 e nel 2010. Per orientamento sessuale si intende il genere verso il quale ci sentiamo attratti. Ognuno di noi si sente attratto affettivamente, sentimentalmente, sessualmente da persone appartenenti ad uno dei due generi. Ogni persona può essere attratta da persone del sesso opposto, del proprio stesso sesso o di entrambi i sessi. Si parla dunque di orientamento eterosessuale, omosessuale, bisessuale. In verità, invece che di orientamento sessuale sarebbe più opportuno parlare di orientamento affettivo perché ognuno di noi sa che quando parliamo, ad esempio, di matrimonio non intendiamo soltanto regolamentare la nostra vita sessuale, ma intendiamo costruire un rapporto affettivo e sentimentale che ha base più ampia, intendiamo ufficializzare solennemente un profondo legame affettivo e costruire un comune progetto di vita. L’orientamento affettivo di una persona interroga dunque non soltanto la sua sessualità, ma in modo più complesso la sua vita, i suoi progetti di vita, la sua stessa identità.
Diversa dalla nozione di orientamento sessuale è la nozione di identità di genere. Ognuno di noi alla nascita viene identificato con uno dei due sessi biologici: mediante un esame degli organi genitali esterni il medico attribuisce ad ognuno di noi l’appartenenza ad uno dei due sessi biologici. Tale appartenenza viene trascritta nei registri dello stato civile dall’ufficiale di stato civile. Vi è peraltro una parte marginale di persone che non può essere ascritta con precisione ad uno dei due sessi biologici in quanto presenta caratteri di entrambi i sessi: si parla in questi casi di “intersessualità”. Si tratta di casi molto rari, seppure ricerche recenti abbiano rilevato che caratteri sessuali secondari dell’altro sesso biologico sono presenti in un numero piuttosto ampio di persone. A prescindere da questo fenomeno della intersessualità, si deve pure dire che ognuno di noi nel corso della propria esistenza è portato a identificarsi psicologicamente con il proprio sesso biologico di appartenenza oppure con l’altro sesso biologico o, ancora, mantiene livelli di identificazione verso entrambi i sessi. Chi si identifica col sesso opposto è definito transessuale o, se mantiene un’identificazione meno netta con i due sessi, transgender. Com’è stato spiegato molto bene dalla Corte costituzionale nella sentenza del 1985, ciò che conta per il nostro ordinamento non è tanto il sesso biologico riscontrato alla nascita, quanto il genere al quale una persona sente di appartenere, con il quale la persona si identifica. È questa l’identità di genere che viene riconosciuta dall’ordinamento giuridico e sulla cui base viene autorizzato il mutamento di sesso anagrafico. È discusso se per mutare l’iscrizione anagrafica sia necessario sottoporsi ad un intervento chirurgico, alcune sentenze del tribunale di Roma lo hanno escluso ritenendo che in ogni caso si debba dare preferenza all’identificazione psicologica della persona.
Le nozioni di orientamento sessuale e di identità di genere sono concetti distinti e che non si sovrappongono. Le persone omosessuali si identificano generalmente con il proprio sesso biologico: si identificano col proprio stesso sesso e contemporaneamente amano le persone del proprio stesso sesso. Vi sono inoltre molti casi di persone transessuali che sono attratte dall’opposto sesso biologico: mi spiego, vi sono molte persone, ad esempio, che mutano sesso da uomo a donna eppure continuano ad amare le donne. La Corte costituzionale tedesca ha riconosciuto che in questi casi vi è un diritto fondamentale a mantenere la propria relazione affettiva ed il proprio matrimonio celebrato prima di mutare sesso (e una decisione simile è stata assunta anche dalla Corte austriaca). Proprio in questo momento la nostra giurisprudenza è interessata da un caso specifico essendo stato richiesto da una transessuale di poter continuare ad essere sposata con la donna con cui aveva contratto matrimonio prima di mutare sesso: siamo in attesa della sentenza della Corte di cassazione mentre le corti di merito hanno avuto due orientamenti contrapposti (con alcune distinzioni sulle quali non è possibile dilungarci in questa sede).
La netta distinzione tra le due nozioni è stata sottolineata dalla Corte costituzionale nel 2010 che ha negato ogni superficiale trasposizione da un campo all’altro. Questi due diversi concetti giuridici, ma ancor prima scientifici e sociali, hanno avuto difatti nel nostro ordinamento un trattamento completamente diverso. L’Italia è stata una delle prime nazioni al mondo ad avere regolamentato la questione dell’identità di genere. L’Italia difatti ha riconosciuto il diritto a mutare sesso già con una legge del 1982, preceduta soltanto dalla Germania, nel 1980, e dalla Svezia. Eravamo dunque pionieri. Al contrario, con riguardo all’orientamento sessuale l’Italia è ultima nell’Europa occidentale, insieme alla Grecia. Mentre tutti gli altri paesi europei hanno già previsto una disciplina che tuteli le persone e le coppie omosessuali, l’Italia e la Grecia sono rimaste le uniche due nazioni a non avere ancora una normativa. La nostra situazione giuridica è analoga a quella della Romania, della Bulgaria, della Turchia, di paesi cioè che per avere subito in passato regimi comunisti o per avere una forte influenza islamica, sono molto diversi da noi come storia, costumi, sistema giuridico. Nessuno dei paesi con civiltà giuridica affine alla nostra si trova nella nostra stessa condizione di assoluta mancanza di regolamentazione.
Come mai, allora, mentre l’identità di genere ha avuto già una disciplina nel 1982, a distanza addirittura di 30 anni, nel 2012, manca ancora del tutto una normativa sull’orientamento sessuale? Credo che la risposta debba essere rinvenuta nel diverso percorso che queste due nozioni hanno avuto già in ambito scientifico. Nel 1982 la condizione dei transessuali era identificata con una patologia, una disfunzione del genere. Appariva dunque naturale e legittimo che il legislatore apprestasse una tutela a chi era affetto da una malattia. Si trattata solo di regolamentare una condizione patologica che, tutto sommato, non metteva in discussione le nostre certezze. In verità, le concezioni in ordine alla transessualità in questi trent’anni sono mutate ed oggi è messo in dubbio che si possa parlare di una malattia, ma è una questione che ci porterebbe lontano e non può essere affrontata in questa sede. Per quanto riguarda, invece, l’omosessualità, già negli anni 60 e 70 si era prodotto un vero e proprio mutamento di paradigma scientifico. La principale associazione degli psichiatri americani (APA) già negli anni 60 aveva messo in discussione l’idea dell’omosessualità come malattia e l’aveva infatti depennata dall’elenco delle patologie nel 1973. Questo processo si è concluso definitivamente nel 1990 quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità, cioè a dire la scienza ufficiale con la S e la U maiuscole, ha deliberato che l’omosessualità non è una patologia ma una naturale variante del comportamento umano. Si tratta dunque di un tratto della personalità come qualsiasi tratto del carattere o come, per esempio, avere gli occhi azzurri. Una condizione scevra da alcuna implicazione dal punto di vista medico, etico, morale, eccetera. Se l’omosessualità non è una malattia, regolamentarla implica allora che nell’ambiente sociale i pregressi pregiudizi che la relegavano appunto nell’ambito delle patologie e dei comportamenti immorali debbano essere messi in discussione in profondità.
Cionondimeno, possiamo dire che oggi la nuova concezione scientifica dell’omosessualità è stata recepita dalla nostra giurisprudenza. Mentre sino agli anni 70 la Corte di cassazione continuava a ripetere che l’omosessualità è una patologia, una devianza sessuale, un comportamento deplorevole, ad esempio in questi termini si era espressa nella sentenza sul processo per la morte di Pier Paolo Pasolini, ormai da molti anni tutta la giurisprudenza sia della Cassazione che dei singoli giudici comuni è assolutamente unanime nell’affermare che l’omosessualità non è una malattia e non è un comportamento moralmente deplorevole. È inutile citare adesso le singole sentenze, della Cassazione, dei tribunali di Napoli, Bologna, Milano eccetera poiché si tratta comunque di un indirizzo ormai univoco e indiscusso. Se questa è la nuova concezione dell’omosessualità, se cioè essere omosessuali è come avere gli occhi azzurri, è allora evidente a tutti che vi è un problema: se da qualche parte vi è una legge che vieta alle persone con gli occhi azzurri di sposarsi, abbiamo un problema, ha un problema il giudice – che deve applicare la Costituzione – rispetto al principio di uguaglianza.
La giurisprudenza italiana è ormai costante nell’affermare che le coppie omosessuali e le coppie di eterosessuali conviventi devono avere pari trattamento. Anche questo è un principio ormai costante nella nostra giurisprudenza. Tutti i diritti che vengono riconosciuti alle convivenze eterosessuali vengono costantemente estesi dalla giurisprudenza alle convivenze omosessuali: una disparità di trattamento sarebbe incostituzionale. Come sappiamo, però, nel nostro ordinamento i diritti che vengono riconosciuti alle convivenze omosessuali sono molto pochi, in quanto non vi è una legislazione neppure riguardo alla famiglia di fatto in genere. La giurisprudenza afferma dunque il principio di uguaglianza in questa materia ma gli effetti sono limitati, poiché in generale pochi sono i diritti della famiglia di fatto.
La questione che si pone oggi è dunque quella dell’accesso al matrimonio civile, l’istituto giuridico che nel nostro ordinamento assicura diritti alle coppie (anche dove non ci sono figli, come accade, ad esempio, nel matrimonio tra anziani). Com’è possibile giustificare che, per seguire il nostro esempio, le persone con gli occhi azzurri non possano sposarsi? Anche chi non avrebbe intenzione di sposarsi ha il diritto di esercitare in piena autonomia il diritto di non sposarsi, non apparendo congruo che a decidere per lui sia lo Stato: è evidente che il mancato accesso di una categoria di cittadini ad un istituto giuridico, se ingiustificato, lede dunque la stessa dignità della persona, in quanto la priva senza ragione di un diritto assicurato agli altri. Qualcuno ha affermato che il diritto al matrimonio sarebbe vietato dalla Costituzione. Sulla questione dell’apertura del matrimonio si è espressa nel 2010 la Corte costituzionale che ha affermato che non vi è un obbligo costituzionale ad aprire il matrimonio ai gay, mentre non ha affermato che vi sia un divieto; mi spiego, la Corte costituzionale, pur avendo utilizzato in verità espressioni non sempre univoche che si sono prestate a letture differenti, non ha mai affermato espressamente che vi sia un divieto per il Parlamento a riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Peraltro poco dopo la sentenza della Corte costituzionale vi è stata, nel giugno 2010, una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e nel 2012 una sentenza della Corte di cassazione che hanno affermato – questa volta espressamente – che il diritto al matrimonio di per sé include anche il matrimonio tra persone dello stesso sesso. La Cassazione, in particolare, ha detto esplicitamente che in questa materia il Parlamento “è libero di scegliere”: dunque il Parlamento non è obbligato ad aprire il matrimonio, ma è libero di farlo.
In effetti la Costituzione si occupa del matrimonio soltanto in un articolo, l’articolo 29, nel quale non fa alcun riferimento all’“uomo e alla donna” o a “marito e moglie”. Ciò differenzia la nostra Costituzione proprio dalla Costituzione spagnola e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che dicono espressamente che “gli uomini e le donne hanno diritto di sposarsi”: queste espressioni non hanno impedito tuttavia né al Parlamento spagnolo né alla corte di Strasburgo di estendere la nozione il matrimonio alle coppie gay in quanto si è ritenuto che “gli uomini” e “le donne” abbiano diritto di sposarsi non solo “tra loro” ma con chi vogliono, con chi veramente amano. L’articolo 29 della nostra Costituzione, invece, non fa alcun riferimento ai sessi disponendo soltanto che: “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Chi afferma che la Costituzione vieta il matrimonio gay, dovrebbe indicare quale di queste parole dovrebbe essere oggetto di revisione costituzionale: la parola Famiglia? la parola Matrimonio? la parola Società? La parola Naturale? .. Le parole “famiglia” e “matrimonio” non sono dirimenti poiché la Corte di Strasburgo e la Corte di cassazione hanno chiarito che la parola “famiglia” e la parola “matrimonio” di per sé includono anche le coppie gay. Nessuno ha il coraggio di citare apertamente la parola “naturale” perché dire nel 2012 che le famiglie omosessuali sono “innaturali” o “contro natura” è un abominio scientifico e giuridico. La Corte costituzionale, peraltro, nella sentenza del 2010 ha chiarito il significato delle parole “società naturale” rilevando che le stesse implicano che la famiglia, frutto secondo la Corte costituzionale della «evoluzione della società e dei costumi», deve essere riconosciuta dallo Stato così com’è: quindi si dà per scontata la naturale evoluzione della società in questa sfera così intima dei rapporti umani e si sottolinea che la stessa non debba subire limitazioni per ragioni politiche. L’articolo 29 non vieta l’evoluzione del costume ma anzi, preserva la libertà matrimoniale da interventi limitativi dettati dalla cosiddetta “ragione politica”.
Un’altra questione di cui si è già parlato nel corso di questo convegno è quello dei cosiddetti hate crimes, già previsti in molti altri ordinamenti, e della proposta di introdurre anche da noi un’aggravante per i cosiddetti delitti d’odio omofobico. La proposta è stata già presentata in Parlamento ed è stata bloccata sulla base di due considerazioni che appaiono però piuttosto inconsistenti. Si è detto infatti che aggravando la pena a tutela dell’orientamento sessuale si finirebbe per proteggere la pedofilia, la zoofilia, la necrofilia e quant’altro… Si tratta in realtà di un’obiezione giuridicamente sgrammaticata, in quanto la locuzione “orientamento sessuale” nel nostro ordinamento e nei trattati europei ha un significato preciso: come ho detto all’inizio di questa relazione, il riferimento è al genere verso il quale ci sentiamo attratti sessualmente e sentimentalmente, non dunque a qualsiasi indefinita inclinazione o impulso sessuale. Il linguaggio giuridico necessita di precisione e dunque non è ammissibile che in Parlamento si distorca un termine giuridico ormai da tempo consolidato, anche nei trattati europei. L’altra obiezione che ha motivato anche una pregiudiziale di incostituzionalità attiene alla presunta lesione del principio di uguaglianza in quanto non sarebbe giusto punire più severamente solo perché la vittima è omosessuale. Anche questo è un argomento del tutto erroneo in quanto nessuno ha mai proposto di punire più severamente il reato se la vittima è omosessuale, né così accade nei tanti Paesi che contemplano gli hate crimes. L’estensione anche al caso dell’orientamento sessuale della legge Mancino (che già prevede aggravanti per delitti d’odio razziale, antigiudaico, eccetera) implica soltanto che debba essere punito più severamente chi commette un reato con il movente d’odio. Per intenderci, un conto è dare uno schiaffo ad una persona nell’ambito di una questione personale, altra cosa è schiaffeggiare, ad esempio, una persona disabile o un ebreo in quanto mossi dalla volontà di colpire le persone disabili o gli ebrei, sottolineando la propria presunta superiorità e con l’obiettivo di incutere paura ad una minoranza: ognuno di noi in questa sala intende che in questo caso il disvalore sociale e morale è molto maggiore e che il reato è più ripugnante. Paradossalmente, la vittima può essere anche eterosessuale ma chi commette il delitto va punito più severamente se è stato mosso dal movente di braccare e terrorizzare chi è diverso.
Per concludere, oggi come sapete a livello legislativo siamo in attesa che il Parlamento torni a considerare varie proposte di legge già presentate, che riguardano sia l’apertura del matrimonio alle persone dello stesso sesso, sia diverse possibili regolamentazioni delle coppie omosessuali. La Corte costituzionale ha detto che comunque è necessaria una legge organica. Si tratta di materia che compete al legislatore ed il giudice dunque non può che attendere, fermo restando che, come abbiamo detto, siamo già tutti titolari dei diritti fondamentali alla dignità personale, all’identità personale, alla parità di trattamento, all’uguaglianza, alla famiglia. Rispetto alle diverse proposte di legge possiamo soltanto rilevare quanto segue: se diamo un’occhiata alle proposte di tutti gli altri partiti politici negli altri quattro Parlamenti nazionali a noi vicini e più importanti possiamo osservare che tutti i partiti politici del Regno Unito, della Germania, della Francia e della Spagna, sia di destra che di sinistra, concordano oggi sulla necessità di aprire il matrimonio alle persone omosessuali o di introdurre un istituto giuridico che dia riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali, utilizzando magari un altro nome. Vi è un solo partito presente in uno di questi quattro Parlamenti che si dichiara contrario al riconoscimento delle unioni omosessuali e si tratta del Front National di Le Pen che, come forse sapete, è entrato un paio di mesi fa nel Parlamento francese con qualche deputato. Prima d’allora nessuna forza parlamentare francese aveva questa posizione. In Germania, Gran Bretagna e Spagna una posizione analoga è sostenuta soltanto da alcune forze dell’estrema destra extraparlamentare. In Italia, salvo – a quanto mi risulta – l’IDV che pare avere cambiato recentemente posizione, nessun partito presente in Parlamento ha al momento nel proprio programma ufficiale il matrimonio o il riconoscimento giuridico dell’unione omosessuale. Possiamo dire che le posizioni dei nostri partiti sarebbero extraparlamentari nel resto d’Europa, mentre le posizioni che sono normali per le forze parlamentari europee sono sostenute in Italia soltanto da forze extraparlamentari. Un vero paradosso. Molti dei relatori che mi hanno preceduto oggi hanno citato vari sondaggi ed hanno parlato della distanza su questi temi tra paese reale e paese legale: se il Paese reale è più avanti, tocca allora ai nostri politici affrontare questo paradosso.

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