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Il “sì” austriaco

fotoIl pubblico ufficiale austriaco non può rifiutare di utilizzare per le unioni civili le procedure cerimoniali previste per il matrimonio.

Con la sentenza del 12 dicembre 2012, pubblicata ieri, la Corte costituzionale austriaca ha stabilito che, nonostante il diverso tenore letterale della legge, l’ufficiale di stato civile nel corso della pubblica cerimonia con cui viene celebrato un partenariato di vita (istituito con legge del 2009) debba invitare formalmente le parti, se richiesto dalle stesse, ad assumere il reciproco impegno ad unirsi scambiandosi il classico “sì lo voglio“. Inoltre, la Corte, pur non ritenendo che la mancata previsione della presenza di due testimoni sia di per sé discriminatoria, ha ritenuto che il pubblico ufficiale, se richiesto dalle parti, non possa impedire la presenza di due accompagnatori nel corso della cerimonia. Su richiesta delle parti, infine, l’ufficiale di stato civile alla fine della cerimonia deve dichiarare, con forma confacente, che i medesimi “sono uniti come partner di vita”.

A tali conclusioni la Corte costituzionale giunge non per il tramite d’una dichiarazione di illegittimità delle norme, ma dandone un’“interpretazione costituzionalmente orientata”, osservando come un’interpretazione letterale sarebbe illegittima.

Non è stato ritenuto illegittimo, invece, che il partenariato di vita possa essere celebrato solo nelle sale comunali e non anche in altro luogo privato, come accade nel matrimonio (per il quale la cerimonia che abbia tutti gli elementi del matrimonio è valida in Austria anche se celebrata in luogo privato).

Con questa importante pronuncia della corte austriaca prosegue dunque il percorso di convergenza del partenariato di vita verso l’istituto matrimoniale. Come noto, l’affine istituto tedesco ha mutato radicalmente regolamentazione per quanto concerne le tutele previdenziali e fiscali sotto i colpi della Corte europea di giustizia e della Corte costituzionale tedesca (mentre ulteriori modifiche sono intervenute per successive riforme legislative).

Da sottolineare come la Corte austriaca non rilevi tanto la necessità di equiparare la tutela al matrimonio per singoli effetti patrimoniali o personali, ma sottolinei, per la prima volta nella giurisprudenza europea, la necessità di equiparare l’unione civile al matrimonio proprio per il suo significato simbolico. Si apre così la porta all’idea che l’esclusione dal matrimonio sia discriminatoria non solo per il mancato accesso delle coppie gay e lesbiche a specifiche tutele, ma propriamente in quanto le esclude dalla cerimonia nuziale con tutto il suo portato simbolico. Pare venire meno, dunque, l’ultimo diaframma della teoria del cd. separate but equal: la discriminazione sta difatti proprio nell’essere esclusi dal matrimonio come cerimonia pubblica. Seguendo questa strada, allora, atteso il significato e l’importanza culturale e sociale del matrimonio, il percorso antidiscriminatorio non si concluderebbe concedendo diritti e doveri, ma imporrebbe che le parti possano unirsi simbolicamente innanzi ad un pubblico ufficiale ed a due testimoni, pronunciando, in pubblica cerimonia, il celebre “si’”.

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