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La Corte di Strasburgo e la eteronormatività: una indagine comparativa delle sentenze Schalk and Kopf e X and Others contro Austria

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In questo intervento Silvia Falcetta, dottoranda in sociologia del diritto, analizza in una prospettiva sociologico-giuridica due sentenze cardine della più recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in tema di matrimonio fra persone dello stesso sesso e omogenitorialità, leggendo le motivazioni dei giudici alla luce del concetto sociologico di eteronormatività, analizzato nella prima parte dell’intervento, allo scopo di mostrarne l’influenza nell’operato della Cedu.

di Silvia Falcetta *

1. Introduzione

Le sentenze Schalk and Kopf v. Austria e X and Others v. Austria hanno acquisito rilevanza primaria nell’indicare il grado di apertura e di attivismo giudiziale della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di matrimonio egalitario e second-parent adoption, rivendicazioni centrali nella piattaforma programmatica dei movimenti omosessuali europei.

In questa nota adotto una prospettiva sociologico-giuridica, analizzando l’operato delle Corti alla luce del concetto di “eteronormatività”, nozione centrale per il femminismo radicale e i gay and lesbian studies, e proponendo alcune riflessioni sulla cultura giuridica interna1 espressa dai giudici della Cedu e sulle modalità con cui la Corte, nelle sentenze succitate, ha rafforzato o incrinato il carattere eteronormativo della Convenzione.

2. Il concetto di eteronormatività

Il termine eteronormatività compare per la prima volta nel 1991 nel saggio di Michael Warner “Fear of a Queer Planet” ed indica un “carattere pervasivo ed invisibile” delle società attuali, connesso con “l’abilità della cultura eterosessuale di auto-interpretarsi come la società”, marginalizzando e definendo in senso antitetico qualunque sessualità non iscrivibile alla tradizionale cultura eterosessuale.

I concetti e le problematiche che tale termine racchiude rimandano a questioni centrali ed essenziali del femminismo radicale – penso al concetto di patriarcato e all’idea che il femminile sia definito e caratterizzato per differenza negativa rispetto al maschile- ma, al tempo stesso, si discostano da quel pensiero femminista che, pur criticando la subordinazione femminile, non aveva messo in discussione né l’organizzazione binaria del genere né la normalità dell’eterosessualità .

Molte sono le analogie con i concetti elaborati dal femminismo lesbico statunitense e francese degli anni ‘80, in particolare con la nozione di eterosessualità obbligatoria di Adrienne Rich e di contratto eterosessuale di Monique Wittig; il legame più forte e diretto si ritrova nella riflessione di Judith Butler e nella definizione di matrice eterosessuale che la filosofa propone: “a social and cultural system of order, thinking and perception, forcing humans into the form of physically and socially binary and clearly distinct genders (bipolar gender system) which are hierarchically and complementarily positioned, the desire of which is targeted at the oppositional gender and is thus forming gender and sexual identity” (Butler, 1991).

L’eteronormatività si presenta come una struttura di potere che insiste sugli ambiti più disparati della società, che impone il dualismo di genere, tendenzialmente asimmetrico, e l’eterosessualità monogamica, descrivendoli quali modelli connaturati all’essere umano2. Si tratta di un fenomeno particolarmente pervasivo e complesso, che non rimane nella sfera del rapporto tra genere e sessualità, ma produce effetti negli ambiti più disparati della vita sociale e politica, nell’elaborazione e interpretazione delle norme giuridiche e nella formazione dell’identità soggettiva individuale.

L’importanza dello strumento giuridico è centrale e, storicamente, ha contribuito in modo decisivo a rafforzare e normalizzare pratiche sociali eteronormative sia nella sfera pubblica sia in quella privata.

Attraverso il processo di giuridificazione, il diritto non plasma semplicemente le norme giuridiche secondo assunti morali eteronormativi ma ammanta questi assunti di naturalità, proponendoli come normali e dando per scontato che la visione della società che essi propongono sia la sola possibile e reale (Wilkinson e Kizinger, 1993). Il legislatore e i giuristi assumono cioè, più o meno consapevolmente, un punto di osservazione e valutazione della società che ritengono imparziale ma che, in realtà, porta a identificare il soggetto titolare di diritto con una persona eterosessuale, a riconoscere solo quelle formazioni sociali che rientrano nell’ideale eteronormativo di coppia monogamica e a ignorare, o respingere sistematicamente, le rivendicazioni avanzate in nome di una diversa concezione del genere e della sessualità (Ingraham 1996, Johnson 2012).

Alcuni effetti storicamente rintracciabili nella maggior parte degli ordinamenti occidentali, riconducibili al processo descritto sono: la persecuzione legale degli atti omosessuali, la negazione del diritto alla riservatezza per le persone omosessuali, l’impossibilità legale di manifestare apertamente e pubblicamente la propria identità, le difficoltà a introdurre aggravanti penali per reati omofobi adducendo il presunto carattere illiberale di tali pretese, l’esclusivo riconoscimento del diritto al matrimonio tra persone di sesso diverso e le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale nell’accesso all’adozione e alle tecniche di fecondazione assistita.

Se in Europa le norme penali che perseguivano gli atti omosessuali sono state abrogate, il diritto di famiglia è il campo in cui attualmente l’eteronormatività sembra essere più diffusa, e su cui le sentenze dei giudici della Corte hanno sollevato maggiori commenti.

L’interpretazione giudiziale assume in materia un ruolo centrale (Johnson, 2011): innanzitutto il testo della Convenzione non contiene alcun riferimento esplicito ai diritti delle persone omosessuali, per cui la giurisprudenza della Corte in materia si è dovuta necessariamente discostare dal dettato; in secondo luogo le cause intentate da persone non eterosessuali, in merito all’applicabilità della Convenzione alle persone e famiglie omosessuali impongono ai giudici di ragionare e riflettere, anche in modo critico, sul fondamento e sui significati – giuridici e morali- delle norme in questione, confrontandosi con il quesito se le nozioni di matrimonio, vita famigliare, diritto alla riservatezza e discriminazioni – per citare alcuni esempi- possano essere estese e riformulate alla luce delle rivendicazioni del mondo GLBT.

3. Schalk e Kopf v.Austria e X and Others v. Austria

Il caso Schalk e Kopf v. Austria, ricorso n. 30141/04, originò dal ricorso di due cittadini austriaci stabilmente conviventi che, tra il 2002 e il 2004, si videro rifiutare dalle autorità nazionali la possibilità di avviare le procedure amministrative necessarie per contrarre matrimonio. Dato che il riconoscimento civile delle convivenze omosessuali risale al 2010, la decisione dei tribunali domestici di non modificare il codice civile, che faceva esplicitamente riferimento alla natura eterosessuale del matrimonio, comportava in precedenza l’assenza totale del riconoscimento per le coppie gay e lesbiche del paese.

Con riferimento alla Convenzione, i ricorrenti lamentarono due violazioni, rispettivamente dell’art.12 e dell’art.14 in combinato con l’art.8, e si dichiararono vittime di un trattamento ingiusto e discriminatorio, che in ragione della loro omosessualità li avrebbe esclusi dall’accesso all’istituto coniugale.

La Corte non rinvenne però, né nella legislazione austriaca né nel comportamento nei tribunali interni, alcuna violazione degli artt.8,12 e 14 della Convenzione e respinse tutte le richieste di Schalk e Kopf.

Nel giudizio mi sembra che la Corte non abbia incrinato ma, anzi, adottato un punto di vista eteronormativo (Johnson, 2011) soprattutto in riferimento all’applicabilità dell’art.12 al caso di specie, visto che il giudizio contrario ai ricorrenti è stato unanime. In merito alla lettura congiunta degli artt. 8 e 14, i giudici si sono mostrati più divisi, con una maggioranza di quattro a tre, ma anche in questo frangente è prevalsa l’opinione che l’assenza del riconoscimento giuridico non costituisse, di per sé, una violazione della Convenzione.

Effettivamente le fonti di rango costituzionale del diritto europeo inerenti al diritto al matrimonio non menzionano esplicitamente le coppie formate da persone dello stesso sesso: l’art.12 afferma che “uomini e donne” sono i soggetti titolari del suddetto diritto mentre l’art.9 della Carta di Nizza subordina il diritto di sposarsi e costituire una famiglia alla disciplina dettata dalle leggi nazionali. Il Commento alla Carta, inoltre, sul punto chiarisce che “non sussiste alcun requisito esplicito per cui le leggi nazionali dovrebbero facilitare tali matrimoni” (Schalk e Kopf, par.25). La Corte, nella sentenza Schalk e Kopf, non nega che il dettato dell’art.12, se isolato dal contesto storico in cui venne approvato, potrebbe trovare applicazione nei confronti delle coppie omosessuali, ma richiama l’assenza di un quadro omogeneo europeo in tema di unioni civili per giustificare la decisione di non estendere il disposto al caso specifico. Le argomentazioni dei giudici non mettono in discussione né che le coppie gay e lesbiche possano realizzare il concetto di vita famigliare definito dall’art.8 (Schalk e Kopf, par.94), né che l’estensione del matrimonio omosessuale sia un fattore positivo; tuttavia ribadiscono che “il matrimonio ha connotati sociali e culturali profondamente radicati, che potrebbero variare enormemente da una società ad un’altra. La Corte ribadisce inoltre che “non bisogna spingere affinché i suoi pronunciamenti sostituiscano le autorità nazionali, che sono meglio posizionate per comprendere e rispondere ai bisogni della società” (Schalk e Kopf, par. 62).

La lettura dell’art.12 operata dalla Corte riveste comunque un ruolo di estremo rilievo, soprattutto sotto un profilo semantico. Più precisamente, la separazione tra il riconoscimentodei diritti, affidato agli strumenti normativi e interpretativi comunitari, e la garanziadegli stessi3, di competenza nazionale, ha permesso alla Corte di bilanciare la propria interpretazione creativa con l’autonomia degli Stati, aprendo comunque ad effetti giuridici rilevanti negli ordinamenti nazionali4. L’interpretazione dei giudici di Strasburgo, per quanto cauta, ha, dunque, ampliato le possibili definizioni del diritto al matrimonio, non considerando la differenza sessuale come requisito essenziale e necessario per accedere all’istituto.

In sostanza la Corte assume un atteggiamento molto prudente, non volendo imporre una concezione del matrimonio che potrebbe risultare contraria al comune sentire di alcuni Stati e alle modalità di interpretazione dei trattati stabiliti dalla Convenzione di Vienna del 19693.

In merito alla seconda fattispecie discriminatoria lamentata dai ricorrenti, desunta dagli artt.8 e 14, ritengo importante prendere le mosse dall’opinione dissenziente dei giudici Spielmann, Rozakis e Jebens, proprio per mostrare come la sentenza della Corte risulti contraddittoria e non esaustiva. La Corte riconobbe la comparabilità tra coppie eterosessuali e omosessuali, in base alla nozione di vita famigliare fornita dall’art.8, ma negò che l’assenza di un quadro giuridico a cui ricondurre tali unioni potesse apparire discriminatorio. A rendere ancora più complicata la vicenda è da ricordare che nel 2010 l’Austria aveva introdotto il Civil Partnership Act (PA) per formalizzare le convivenze gay e lesbiche, prevedendo però un trattamento diverso rispetto a quello derivante dal matrimonio e impedendo alle coppie formate da persone dello stesso sesso di accedere alle pratiche di adozione e fecondazione assistita a cui invece avevano acceso le coppie eterosessuali non coniugate. Inizialmente i ricorrenti avevano lamentato di aver subito discriminazione a causa “dell’impossibilità di contrarre matrimonio o di vedere riconosciuta la propria unione in altro modo dalla legge” (Schalk e Kopf, par. 2) e solo in una fase successiva avevano denunciato il carattere discriminatorio del PA. La Corte ritenne di non essere chiamata ad esprimere un giudizio sul nuovo quadro giuridico vigente, affermando che la valutazione del PA “andrebbe oltre lo scopo del ricorso attuale” e che “la Corte non rileva alcuna indicazione che lo Stato in questione abbia abusato del margine di apprezzamento nella scelta dei diritti e doveri correlati alla partnership registrata” (Schalk e Kopf, par.109). I giudici si concentrarono esclusivamente sull’eventuale sussistenza di discriminazioni nel periodo precedente al 2010, per cui, anche se favorevole ai ricorrenti, il giudizio della Corte non avrebbe intaccato il nuovo assetto istituzionale.

Nell’opinione dissenziente i giudici non esprimono un giudizio sul nuovo quadro di stato civile vigente in Austria, ma ravvisano per il periodo precedente al 2010 una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale che avrebbe impedito a Schalk e Kopf di godere liberamente della propria vita famigliare. Secondo Spielmann, Rozakis e Jebens, infatti, la Corte, avendo riconosciuto che “la relazione dei ricorrenti è da includersi nella nozione di vita famigliare” (Schalk e Kopf, par.99), “avrebbe dovuto trarre delle conseguenze da tale affermazione. Al contrario, decidendo per l’assenza di violazioni, la Corte incoraggia il vuoto legislativo in gioco, senza imporre allo Stato citato nessun obbligo positivo di predisporre un quadro legale soddisfacente, offrendo ai ricorrenti, in una certa misura, la protezione di cui ogni famiglia dovrebbe godere” (Joint dissenting opinion in Schalk e Kopf, par.4). Una simile interpretazione, a mio avviso, si sarebbe dimostrata in grado di aggirare gli ostacoli posti dal dettato dell’art.12 e di imporre agli Stati membri il riconoscimento delle coppie omosessuali, lasciando al margine di apprezzamento nazionale la definizione e l’assetto della disciplina. Se accolta, la sussistenza di discriminazioni in base agli artt.8 e 14 avrebbe aperto la via ad una lettura meno eteronormativa della Convenzione, che verosimilmente sarebbe assurta a testo a cui agganciare le richieste di riconoscimento da parte delle coppie omosessuali in quei Paesi, tra cui l’Italia, che ancora non hanno normato la materia.

Nel caso X and Others v. Austria, ricorso n. 19010/07, due donne stabilmente conviventi denunciarono il carattere discriminatorio dell’art. 182 (2) del Codice civile austriaco4 che, seppur in modo indiretto, impediva la second-parent adoption per coppie formate da persone dello stesso sesso, ammessa invece, sempre ai sensi dell’art. 182 (2) del Codice civile, nel caso di coppie eterosessuali non coniugate. Il figlio naturale di una ricorrente si era dichiarato favorevole all’ipotesi di essere adottato anche dall’altra, mentre il padre del bambino, da sempre ostile alla coppia lesbica ma comunque vicino ed affezionato al proprio figlio, si era dichiarato contrario (joint partly dissenting opinion of judges Casadevall, Ziemele, Kovler, Jociene, Sikuta, De Gaetano e Sicilianos, par.2); nel caso di second parent adoption infatti il suo vincolo genitoriale sarebbe venuto meno.

La Corte accolse le richieste della coppia e dichiarò discriminatorio e in violazione dell’art.14 della Convenzione, l’art.182(2) del Codice Civile austriaco, affermando che l’orientamento sessuale non poteva costituire una pregiudiziale nell’accedere alla second parent adoption. L’unico criterio che doveva rilevare nella valutazione della domanda di adozione ineriva all’interesse del minore, e in materia la Corte esplicitamente escluse che vi siano “argomentazioni specifiche, studi scientifici o qualunque altro elemento di evidenza che dimostrino che una famiglia con due genitori dello stesso sesso non potrebbe provvedere ai bisogni di un minore in nessun caso” (X and Others, par.142).

A differenza che in Schalk e Kopf la Corte si mostra molto più propensa a criticare e superare diversi assunti eteronormativi in tema di famiglia. In primo luogo dalla sentenza emerge un quadro familiare e parentale non necessariamente eterosessuale, che ritrova piena tutela nel dettato della Convenzione. In secondo luogo, la Corte rileva nel comportamento delle autorità austriache un abuso del margine di apprezzamento e ribadisce l’orientamento giurisprudenziale, emerso in Karner e consolidatosi nei casi in cui vengano in rilievo gli artt. 8 e 14 Cedu, secondo cui “laddove una differenza sia basata esclusivamente sull’orientamento sessuale, il margine di apprezzamento dello Stato si restringe” (Karner, par.41, X and Others, par.99). Nel caso di specie, ciò significa che le autorità domestiche sono libere di escludere dalle procedure d’adozione le coppie non coniugate, ma qualora, invece, non considerino la sussistenza del vincolo coniugale essenziale per poter adottare, non possono operare trattamenti differenziati tra coppie eterosessuali ed omosessuali senza violare l’art.14 della Convenzione.

Un ulteriore plauso merita la scelta dei giudici di non respingere le richieste delle ricorrenti in base al principio di precauzione, in virtù del quale pur in assenza di prove scientifiche sul rischio derivante per il minore nel crescere con due genitori dello stesso sesso, la Corte avrebbe comunque dovuto apporre un onere aggiuntivo di prudenza e astenersi da modificare l’assetto famigliare tradizionalmente riconosciuto dal diritto.

Sicuramente tale sentenza segna un precedente importante, ma la sua portata mi sembra alquanto ridotta, specialmente verso quei Paesi in cui il matrimonio è un requisito essenziale per accedere all’adozione di minori, e dove le coppie omosessuali possono vantare solo i diritti riconosciuti alle coppie eterosessuali non coniugate. In questo senso, riaffermando la discrezionalità nazionale nel riconoscere il same sex marriage, mi sembra che la Corte si dimostri in grado di superare singoli e specifici assunti eteronormativi, senza però riuscire ad incrinarne gli aspetti più pervasivi.

La Corte rafforza, infatti, i diritti dei cittadini omosessuali solo laddove le leggi nazionali già prevedano il riconoscimento delle convivenze more uxorio – eterosessuali e omosessuali- o nei casi in cui la legislazione riconosca diritti specifici alle coppie eterosessuali non coniugate, come nella legislazione austriaca succitata.

Il rischio è di creare un’Europa dei diritti a due velocità, dove le coppie omosessuali di quei Paesi in cui la maggioranza politica ha incrinato il dogma eteronormativo del matrimonio vedono effettivamente rafforzati e ampliati i propri diritti grazie all’operato della Corte, mentre per le coppie dei Paesi dove i diritti familiari e parentali sono ancora completamente ancorati al vincolo coniugale le sentenze della Corte ricoprono un mero valore simbolico e programmatico.

Un’ultima considerazione sul caso riguarda il carattere delle disposizioni legali austriache in materia di legami familiari e le modalità attraverso cui la Corte si è rapportata con esse. La legislazione in tema di adozione è chiaramente rivolta a “ricreare un relazione modellata su quella esistente tra i genitori biologici e i propri figli” ( Regional Court citata in X and Others, par.18) e assume come orizzonte normativo l’ideale della famiglia eterosessuale nucleare rispetto a cui i legami con gli altri familiari svaniscono. Attraverso previsioni di legge ad hoc il diritto crea il modello di famiglia che più ritiene adeguato sotto un profilo oggettivo, senza considerare le reali esigenze soggettive della parti coinvolte e la complessità dei vincoli affettivi che costituiscono la rete familiare di un minore. Nel caso di specie, per esempio, il minore voleva essere adottato dalla compagna di sua madre, ma al tempo stesso confermava di avere un rapporto abbastanza positivo con il padre, a dimostrazione di come entrambe queste due figure fossero presenti, seppur in misura diversa, nella sua vita affettiva. Nel pronunciamento la Corte non ha dedicato ampio spazio all’eventuale diritto del padre di non perdere il proprio status genitoriale, andando ad avallare l’ipotesi di una second parent adoption che configura un modello di famiglia omosessuale nucleare. Insomma, anche se dello stesso sesso, i genitori non possono essere più di due, ad imitazione dei genitori biologici . Sebbene in X and Others la Corte fosse chiamata a valutare la sussistenza di una discriminazione in comparazione ad una coppia eterosessuale, nelle opinioni dissenzienti cinque giudici richiamano il conflitto tra le rivendicazioni delle ricorrenti e la volontà del padre di non rinunciare al proprio ruolo genitoriale, sottolineando le questioni aperte che la second parent adoption comporta (Joint dissenting opinion in X and Others, par.2). Si tratta di nodi problematici connessi con la struttura stessa dell’istituto giuridico, non necessariamente inerenti a coppie omosessuali, ma estesi a tutte le situazioni in cui, da un lato, il genitore che andrebbe a perdere la potestà genitoriale non si sia reso colpevole di gravi inadempienze e, dall’altro, il minore abbia stabilito un rapporto affettivo fondamentale anche con il potenziale genitore adottivo. In merito a tale tipologia giuridica d’adozione, ritengo sarebbe auspicabile una discussione, soprattutto a livello politico, che incrini la concezione eteronormativa e nucleare di famiglia, finalizzata a ridiscutere quali legami affettivi e parentali lo Stato è chiamato a riconoscere, non escludendo la compresenza giuridica di un padre biologico e di un genitore adottivo, laddove entrambe le figure siano importanti per il minore.

4. Conclusioni

Dato il numero estremamente ridotto di sentenze analizzate posso solo tracciare delle riflessioni conclusive circoscritte e provvisorie. A differenza dei decenni passati i giudici si sono mostrati in entrambi i casi più sensibili alle rivendicazioni avanzate dalle coppie omosessuali; in sede di giudizio hanno sentito esperti, tra cui spicca Robert Wintemute, e commissioni specifiche sulle questioni GLBT –ILGA- Europe, BAAF, NELFA e ECSOL- proprio per poter avere una conoscenza più ampia e dettagliata dell’argomento. L’omosessualità, in sé, non raccoglie più la condanna morale della Corte, che, anzi, in più passaggi, ha ricordato come tra coppie eterosessuali e omosessuali non sussista alcuna differenza di valore o di capacità affettiva. La Corte ha anche ristretto la discrezionalità nell’applicazione del margine di apprezzamento in tema di diritti genitoriali, e ha negato che l’orientamento sessuale possa essere una caratteristica tale da escludere, a priori, la possibilità di essere un buon genitore. Si tratta di affermazioni simboliche e programmatiche di estremo rilievo, che inducono a ritenere che la cultura giuridica della Corte non sia improntata ad un’ottica eteronormativa, volta a sminuire il valore delle persone e delle coppie omosessuali. Pur non dimostrando particolari pregiudizi, la Corte, soprattutto in Schalk e Kopf, ha però avallato una concezione eteronormativa del matrimonio, delegando il riconoscimento dell’istituto coniugale tra persone dello stesso sesso alla completa discrezionalità degli Stati membri.

Nel complesso la Corte non è stata in grado di superare gli elementi eteronormativi presenti nella Convenzione né è riuscita a impedire che gli Stati possano usufruire del margine di apprezzamento per rafforzare l’eteronormatività di alcuni istituti giuridici. L’ipotesi che avanzo è che la prudenza, talvolta eccessiva, dimostrata dai giudici nella loro opera interpretativa sia da legare a convinzioni eteronormative non interne alla Corte, ma diffuse nella politica nazionale dei Paesi membri, che impediscono di raggiungere quel consenso europeo indicato dalla Corte come requisito essenziale per giustificare una compressione del margine d’apprezzamento nazionale (Schalk e Kopf, par.46). Il rischio che potrebbe derivare dall’affermazione per via giudiziale di una nozione di matrimonio e di famiglia diverse da quelle tradizionalmente accettate sarebbe di esporre l’operato dei giudici a critiche di politicizzazione, eccessiva erosione della sovranità nazionale e, soprattutto, di mancata imparzialità, con serie conseguenze sulla legittimità del loro operato. In quanto istituzione dotata di legittimità secondaria, la Corte deve giustificare i propri pronunciamenti con riferimento alle fonti primarie di legittimità, in questo caso alla Convenzione, e limitarsi ai compiti definiti dalle norme comunitarie5. Il principio di sussidiarietà, riconosciuto come un elemento cardine su cui si basa l’intera Convenzione, delimita fortemente l’azione della Corte: nell’applicare le norme della Convenzione i giudici devono infatti tenere in considerazione i caratteri del sistema legale e sociale del singolo contesto nazionale, sebbene ciò possa portare ad una difformità nell’applicazione della Convenzione sul territorio comunitario6. Fin dagli anni ‘60 la giurisprudenza di Strasburgo ha chiarito, inoltre, che non rientra nei compiti della Corte pronunciarsi su tematiche di competenza nazionale che non siano già state disciplinate dalle istituzioni competenti del Paese membro.

In quest’ottica, il continuo richiamo della Corte alla necessità di un “consenso europeo sul matrimonio omosessuale” (Schalk e Kopf parr 58, 105) a fondamento di una possibile applicazione dell’art.12 alle coppie omosessuali sarebbe giustificato prevalentemente non da una cultura giuridica eteronormativa della Corte ma dalla volontà di non svolgere un ruolo di definizione delle politiche pubbliche e di mantenere, agli occhi dell’opinione pubblica europea, caratteri di imparzialità e neutralità9(Schalk e Kopf, par.62 e X and Others, par.106).

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* Dottoranda in Sociologia del diritto, presso il Dipartimento di Scienze giuridiche “Cesare Beccaria”, Università degli studi di Milano.

Ho presentato questa relazione, che qui propongo rivista e ampliata, in occasione del IX Seminario nazionale di Sociologia del diritto. Desidero ringraziare tutti/e i/le partecipanti, in particolare Francesco Belvisi, Daniela Casula, Roberta Dameno Luigi Pannarale, Valerio Pocar e Massimiliano Verga per gli utili suggerimenti.Ringrazio Alessandra Facchi e Nicola Riva, per aver letto e commentato una precedente versione di questo paper, e i referees, da cui sono giunti importanti spunti di riflessione. Ringrazio, inoltre, Marco Gattuso, per l’entusiasmo con cui ha accolto il mio lavoro e per i consigli bibliografici e normativi, e Carmelo Danisi, con cui ho potuto confrontarmi nell’ambito della Winter School “Echr: The Principle of Non-discrimination” organizzata dalla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna.

1 Nella letteratura socio-giuridica il concetto di cultura giuridica interna indica una pluralità di fenomeni e azioni sociali, ricollegabili alla “cultura giuridica propria di quei membri della società che compiono attività giuridiche specializzate” (Friedman, 1978 p.370) e al “complesso delle ideologie, dei modelli di giustizia e dei modi di pensare intorno al diritto propri degli operatori giuridici di professione, siano essi legislatori o giudici o amministratori” (Ferrajoli, 1999, p. 5). Per un introduzione sul concetto di cultura giuridica cfr., tra gli altri, Friedman (1978, 1994,1997), Ferrari (1987, 2004) Nelknen (1995, 1997), Pennisi (1991, 1997), Tarello (1974, 1980).

2 Un contributo molto interessante in merito alla relazione tra eteronormatività, genere e eterosessualità è “Gender, sexuality and heterosexuality” di Stevi Jackson (2006).

3 L’art.31, primo comma, della Convenzione di Vienna, richiamata nell’opinione concorrente dei giudici Malinverni e Kovler, statuisce “Un trattato deve essere interpretato in buona fede seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo”.

4 L’art. 182 (2) del Codice civile austriaco recita “If the child is adopted by a married couple, the legal relationship under family law- above and beyond the legal kinship itself- between the biological parents and their relatives on one hand, and the adopted child and his or her offspring who are minors at the time of the adoption takes effect on the other hand, shall cease at that time, apart from the exceptions referred to in Article 182°. If the child is adopted just by an adoptive father (an adoptive mother), the relationship shall cease only in respect of the biological father (the biological mother) and his (her) relatives; in so far as the legal relationship with the other parent remains intact after the adoption, the court shall declare it to have been severed, subject to the consent of the parent concerned. The relationship ceases to exist as of the date on which the statement of consent is given, but no earlier than the date on which the adoption takes effect”.

5 Friedman definisce la legittimità primaria come “la legittimità dell’autorità ultima o suprema”, che può risiedere “in una qualche persona, in un’istituzione o qualche procedimento”. La legittimità secondaria è propria di tutti gli operatori giuridici che “hanno un potere derivato ed una legittimità derivata. Essi possono avere il dovere di giustificare i propri atti o di mostrare di collegarsi in qualche modo con l’autorità e con la legittimità superiore”. Cfr Friedman, 1975, pp. 391-392.

6 “The Commission and the Court interpret the Convention in the light of present-day conditions. The Court has however emphasized that if a State finds himself in an isolated position as regards one aspect of his legislation in terms of social and moral evolution, this does not necessarily mean that that aspect offends against the Convention” Petzold, 1993, p.61.

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Di Bari Considerazioni a margine della sentenza 4184/2012 della Corte di Cassazione: la cassazione prende atto di un trend europeo consolidato nel contesto delle coppie same-sex anche alla luce della sentenza n.138/2010 della corte costituzionale, 2012. <
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