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Per il P.M. non è punibile chi reagisce ad offese omofobe

2012-10-08 23.38.34Uno studente dell’università Bocconi reagisce all’affermazione di un politico, sindaco di una nota città, per cui «l’omosessualità sarebbe una patologia di carattere genetico, come la sindrome di Down» e che gli omosessuali sarebbero «aberrazioni genetiche», contenuta in un video su Youtube. Querelato dal politico per l’insulto (ma brutta testa di c..)pubblicato fra i commenti sul sito, il Pubblico Ministero di Busto Arsizio ravvisa tuttavia la causa di non punibilità di cui all’art. 599 c.p., affermando che la reazione dell’imputato è letteralmente «anche sin troppo contenuta rispetto alla gravità delle affermazioni di chiaro stampo omofobo rese dalla p.o..

di Luca Morassutto

Il Fatto:

Nel 2006, il sig.  F. F., ex An poi Pdl, Sindaco di Sulmona (l’Aquila) fino al 2013, partecipa ad una trasmissione di una tv locale dove rilascia delle dichiarazioni che saranno giudicate in un secondo tempo di contenuto omofobo. Giova in tal senso riferirne il tenore: “non vorrei che mio figlio fosse gay … ho solo figlie femmine, purtroppo anche tra le donne esiste l’omosessualità, preferirei moltissimo che le mie figlie crescessero in maniera normale, facessero una vita normale, si formassero una vita normale. Se poi dovessi vedere che le cose non vanno tanto bene le farei curare. Perché chi è omosessuale fa una scelta che è contraria a quella – ma questa è una opinione mia ovviamente- fa una scelta contraria a quella che la natura gli ha indicato. Se hai degli ormoni maschili, se hai un genoma di tipo maschile, se hai i cromosomi xy invece che avere xx fai il maschietto se hai xx fai la femminuccia. Il contrario è un po’ fuori natura insomma, probabilmente c’è qualche problema di tipo…ci sono composizioni intermedie di questi assetti genetici … ci sono delle aberrazioni genetiche che determinano il fatto che non si sia né perfettamente uomo né perfettamente donna…nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di scelte fatte per un gusto personale. Non posso pensare che una coppia gay …che queste famiglie possano regolarmente adottare i bambini perché il condizionamento psicologico sarebbe tale e così forte che questi bambini avrebbero sicuramente dei problemi.”[1]
Ben presto il video raccoglie un importante numero di visite, con annessi commenti per lo più sarcastici per il contenuto paradossale di tali affermazioni. Tra i commenti ve ne sono taluni però che, per i toni, spingono il sig. F. a sporgere querela per il reato di diffamazione aggravata. Il procedimento vede quindi interessati 36 indagati con trasmissione degli atti agli uffici competenti per territorio.
In particolare, con riferimento al caso in esame, viene in considerazione quanto dichiarato da uno studente dell’università Bocconi, il sig. P. C., il quale aveva così commentato il video: “Fai la femminuccia fai il maschietto come se fosse una scelta! Ma brutta testa di cazzo … ti meriti di essere su youtube perché questo è come sei per davvero dentro … il problema della società è la tua ignoranza e il fatto che tu sia sindaco”.

Il reato contestato: [whohit]MORASSUTTO pM busto arsizio DOPO tre settimane[/whohit]
Il sig. F., nella querela depositata, chiede la penale punizione degli autori delle offese riportate in calce al video. Si tratta quindi di una ipotesi sub art. 595 comma terzo che, come è noto, prevede che: “Se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. Tale reato si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono le espressioni ingiuriose[2].
Il pubblico ministero di Busto Arsizio, con provvedimento ora al vaglio del GIP, nella valutazione degli elementi di prova raccolti, evidenzia come “detti commenti sarebbero stati generati dalle stesse affermazioni del F., sindaco di Sulmona, il quale, commentando la proposta dei c.d. “pacs”, affermava che l’omosessualità sarebbe una patologia di carattere genetico, come la sindrome di Down, che gli omosessuali sarebbero “aberrazioni genetiche” e quindi persone da curare in quanto avrebbero fatto una scelta contraria rispetto alle determinazioni della natura”.
Le frasi del P. quindi altro non sono, a detta dell’organo inquirente, che l’immediata reazione rispetto a quanto sostenuto dal sig. F.. Una reazione che il pubblico ministero definisce “anche sin troppo contenuta rispetto alla gravità delle affermazioni di chiaro stampo omofobo rese dalla p.o.”.
Ebbene appare pertanto evidente come la naturale evoluzione della linea di pensiero del Dominus delle indagini non possa che essere il riconoscere come sussistente la causa di non punibilità espressa dall’art. 599 c.p. ed erroneamente configurata nel provvedimento de quo come “attenuante della provocazione”.
La provocazione, già contemplata nel codice penale quale circostanza attenuante di carattere generale sub art. 62 c.p., assurge infatti, nei delitti contro l’onore al rango di causa di non punibilità[3]. La ragione giustificatrice si può individuare “in considerazioni di ordine squisitamente psicologico, e cioè nella valutazione normativa di quel particolare stato di tensione emotiva che insorge nella persona che subisce una ingiustizia”[4]. La previsione sub art. 599 c.p. non attenua quindi la pena, come nel caso di cui all’art. 62 c.p. n. 2 “l’aver reagito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”, ma la esclude[5]. Per l’applicabilità di tale esimente è però necessaria la convergenza di tre elementi costitutivi: il fatto ingiusto altrui; lo stato d’ira; l’immediatezza della reazione. Pur trattandosi di argomento noto appare comunque il caso di soffermarsi su queste tre componenti partendo proprio da quest’ultima in quanto ci permette di effettuare un primo necessario distinguo. Tra la provocazione sub 62 n. 2 c.p. e la provocazione di cui all’art. 599 comma 2  infatti occorre evidenziare come la giurisprudenza abbia chiarito che per l’applicabilità della esimente di cui al 599 c.p. comma 2, sia necessaria una reazione che si configuri quale conseguenza di un fatto ingiusto altrui che, pertanto, per la sua intrinseca illegittimità o per la sua contrarietà alle norme della convivenza civile abbia in sé la potenzialità di suscitare un giustificato turbamento nell’animo del soggetto agente. Si tratta di una nozione di per sé non sostanzialmente diversa da quella sub. art. 62 c.p. n. 2. Il requisito che di contro permette di passare dalla sfera di operatività della circostanza attenuante a quello della esimente è proprio il rapporto di immediatezza[6]. Pacificamente viene inteso in dottrina e giurisprudenza non in termini assoluti, di contemporaneità o simultaneità, bensì in senso relativo. Il tempo trascorso dal fatto non esclude quindi l’immediatezza ma deve essere valutato dal punto di vista della riferibilità della reazione alla provocazione.

Valga a tal proposito una osservazione. Nella diffamazione a mezzo internet questo elemento andrebbe necessariamente ripensato. L’immissione di un messaggio online non necessariamente infatti arriva all’attenzione del soggetto attivo in termini contestuali alla registrazione. Spesso anzi è solo attraverso condivisioni successive del filmato che questo balza all’attenzione dell’utente informatico. Può così accadere che un messaggio registrato in epoca risalente generi reazioni successive anche di molto nel tempo. La forza endemica del veicolo informatico, di gran lunga superiore a quella cartacea, rende facilmente comprensibile come si possano avere reazioni anche accese – ed assolutamente legittime – a fronte di affermazioni risalenti. Risulta quindi non immediatamente condivisibile l’approccio, seppur datato, del Supremo Collegio quando afferma che “il decorso di un considerevole lasso di tempo assume rilevanza al fine di escludere tale rapporto causale e di riferire la reazione ad un sentimento differente, quale l’odio o il rancore a lungo covato”.[7] Lo stato d’ira che si viene quindi a determinare nel soggetto agente è dato da un fatto ingiusto altrui. Si tratta di un requisito da intendersi in senso ampio, da valutarsi non secondo criteri restrittivi ma con parametri più ampi che comprendono anche fatti che la coscienza etica della collettività riprova in un certo momento storico[8]. Una ingiustizia che quindi tiene conto non solo dei fatti antigiuridici ma anche antisociali. Questo in quanto “ingiusto è il fatto intrinsecamente illegittimo, ossia contrario alle norme del vivere civile, in antitesi con i principi dell’ordinamento o del diritto naturale”[9].
Appare quindi il caso di notare che il pubblico ministero ben inquadra la fattispecie penale de quo in quanto identifica la reazione del Pagani come fin troppo contenuta rispetto la gravità delle affermazioni di chiaro stampo omofobo. L’inquirente ravvisa cioè in quelle dichiarazioni di Federico, parte offesa nel procedimento penale in oggetto, delle frasi dal contenuto o intrinsecamente illegittimo o contrario alla norma del vivere civile. A detta di chi scrive si tratta di una affermazione importante, quella contenuta nel provvedimento ora al vaglio del GIP, in quanto equipara le dichiarazioni omofobe per l’appunto a dei fatti antisociali o antigiuridici su cui di conseguenza non può stendersi quel mantello protettivo dato dall’art. 21 Cost.

[1] L’intervista può essere visionata su https://www.youtube.com/watch?v=WjfUlvhWs_k
[2] Cass. Pen. Sez. V, 27 dicembre 2000, n. 4741; Cass. Pen. Sez. II, 25 settembre 2008. Non da ultimo si veda quanto in Cass. Pen., Sez. I, 26 gennaio 2011 n. 2739 e Cass. Pen. Sez. I, 15 marzo 2011 che conformemente a quanto stabilito da Cass. civ. S.U., 13.10.2009 n 21661, si è pronunciata nel senso dell’inapplicabilità in detta materia del criterio di cui agli artt. 8 e 9 c.p.p, 1° co., in quanto in tema di diffamazione a mezzo Internet pare estremamente arduo, se non impossibile, individuare criteri oggettivi quali quello della prima pubblicazione, dell’immissione della notizia on-line o dell’accesso del primo visitatore: per tale motivo, ritiene la Corte, si potrà far ricorso al criterio suppletivo di cui all’art. 9 c.p.p., 2° co., ossia quello del luogo del domicilio dell’imputato.
[3] V. Pezzella, La diffamazione, Utet, 2009, pag. 122.
[4] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale parte speciale, II, tomo primo, I delitti contro la persona, Zanichelli, 2006, pag. 96.
[5] Come ricordato da F. M. Iacoviello, in Codice Penale, rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. XI, tomo I, Giuffrè 2010, pag. 834 la natura giuridica dell’istituto in oggetto è molto discussa. Secondo un primo orientamento espresso da Manzini, siamo di fronte ad una causa soggettiva di non punibilità che vale ad escludere la responsabilità penale pur presupponendo la sussistenza di tutti i requisiti del reato. Approccio seguito anche dalla giurisprudenza (vds Cass. Pen. 17 maggio 1982 Laterza; Cass. Pen. 1984 n. 67) e che si differenzia dall’interpretare la provocazione come causa speciale di non colpevolezza.
[6] Cfr. in tal senso Cass. Pen. 19 febbraio 1981 Faggiano.
[7] Cass pen. Sez. V, 13 maggio 1996, n. 6116.
[8] In tal senso Cass. Pen. Sez. V,  2017/1975.[9] Cass. Pen. Sez. V 3 maggio 1990, n. 6398.