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La prima condanna in Italia per discriminazione fondata sull’orientamento sessuale: un caso esemplare

2012-10-09 00.28.11Il Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 6 agosto 2014 ha condannato un notissimo avvocato italiano per discriminazione diretta fondata sull’orientamento sessuale. Si tratta della prima decisione del genere nel nostro Paese.

(Marco Gattuso) Il Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 6 agosto 2014, ha accertato il carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese da un noto avvocato italiano, consistenti nell’avere affermato, nel corso di un programma radiofonico, di non voler assumere nel proprio studio avvocati, altri collaboratori e/o lavoratori omosessuali, condannandolo a risarcire i danni non patrimoniali subiti dalla ricorrente Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford ed a pubblicare l’ordinanza a proprie spese su uno dei principali quotidiani del Paese (il Corriere della Sera). Per quanto la disciplina antidiscriminatoria a protezione delle persone omosessuali sul luogo di lavoro sia stata introdotta in Europa, e dunque anche in Italia, da ben quattordici anni, si tratta del primo caso in assoluto di sua applicazione.

Ospite nell’ottobre 2013 della trasmissione “La zanzara”, l’avvocato aveva fatto diverse affermazioni palesemente ostili nei confronti delle persone gay e lesbiche, affermando, in particolare, che gli omosessuali “mi danno fastidio” e che “intanto io ad esempio nel mio studio faccio una cernita adeguata”; all’ulteriore domanda del conduttore “cioè, non ho capito, lei, se uno è omosessuale, non lo assume nel suo studio?” l’avvocato ribatteva “ah sicuramente no, sicuramente no” e reiterava più volte il concetto (“beh, vabbè sarà discriminazione, a me non me ne frega niente”; sollecitato ancora sul punto dal conduttore della trasmissione, “ognuno stia a casa sua, d’accordo, ma uno che vuole lavorare da lei, lei non può mettere il paletto <<non deve essere frocio>>”; “no, no, io metto questo paletto sì”; “arriva nell’ufficio del prof. Xxxxxxx un signore, chi è ? sono Francesco, prego avanti, salve sono laureato a Yale, sono il miglior avvocato su piazza però sono omosessuale, che dice Xxxxxxxx, non lo prende, il miglior avvocato del mondo?” l’avvocato rispondeva: “perché lo devo prendere, faccia l’avvocato se è così bravo e così, diciamo, così capace di fare l’avvocato si apra un bello studio per conto suo e si fa la professione dove meglio crede. Da me non… mi dispiace turberebbe l’ambiente, sarebbe una situazione di grande difficoltà”).

La vicenda appare come un evidente caso di scuola di discriminazione, non potendosi negare in alcun modo il carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese da un datore di lavoro di non voler assumere nel proprio studio collaboratori o lavoratori in quanto omosessuali. Come noto,  la direttiva 2000/78/CE del 27.11.2000 (una delle due direttive antidiscriminatorie emanate nel 2000 dall’Unione europea, la quale si applica al solo campo lavorativo vietando ogni forma di discriminazione, per razza, sesso, handicap, religione, età, orientamento sessuale, mentre la Racial Equality Directive 2000/43/EC si applica in ogni settore della vita, dunque non solo in ambito lavorativo, ma limitatamente alle sole discriminazioni razziali) ha stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, vietando espressamente, fra l’altro, la discriminazione per orientamento sessuale. Alla stessa è stata data applicazione in Italia con il d.lgs. 216/03 che fra le diverse possibili ipotesi di discriminazione richiama la limitazione delle stesse condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro (art. 3, comma 1, lett. A). Nel definire la discriminazione diretta, il d.lgs. 216/03, precisa che la stessa si rinviene ogniqualvolta “una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”, introducendo, in conformità con la direttiva europea, sia una comparazione attuale, che una comparazione meramente ipotetica.

Nell’applicare, per la prima volta, tali disposizioni, il Tribunale di Bergamo ha richiamato il noto, recente, precedente del 25 aprile 2013 della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Asociaţia Accept contro Consiliul Naţional pentru Combaterea Discriminării (pubblicata su ARTICOLO29 con commento di Carmelo Danisi Lavoro, assunzioni e omofobia alla Corte di Giustizia) che a sua volta rappresenta la prima applicazione della direttiva in una ipotesi discriminazione di una persona omosessuale in materia di assunzione. In quel caso era stata intrapresa un’azione risarcitoria nei confronti del “patron” di una squadra di calcio da parte di un’associazione per la difesa dei diritti delle persone LGBT, in riferimento ad affermazioni palesemente discriminatorie (“neppure se dovesse chiudere la FC Steaua, prenderei in squadra un omosessuale”, “non c’è posto per un gay nella mia famiglia e la [FC] Steaua è la mia famiglia”). Tra i vari principi evidenziati nella decisione, la Corte europea aveva sottolineato come non appaia indispensabile che vi sia una vittima accertata ai fini della verifica del carattere discriminatorio delle politiche di assunzione di un datore di lavoro, atteso che dichiarazioni pubbliche volte ad escludere l’assunzione di un soggetto in ragione del suo orientamento sessuale appaiono già di per sé sufficienti per presumere che il datore non abbia assunto e non assumerebbe in futuro dipendenti in ragione della loro omosessualità.

Il Tribunale di Bergamo rileva per conseguenza come risulti punibile a norma della direttiva “anche una condotta che, solo sul piano astratto, impedisce o rende maggiormente difficoltoso l’accesso all’occupazione, come nei casi analoghi sottoposti all’esame della Corte di Giustizia (causa C-81/12 Associatia Accept, nonché causa C-54/07)”, chiarendo peraltro come sul piano concreto le dichiarazioni possano avere verosimilmente ostacolato o potranno verosimilmente ostacolare in futuro la stessa presentazione di curricula all’avvocato resistente da parte di aspiranti avvocati, collaboratori o dipendenti omosessuali, mentre “come chiarito dalla Corte di Giustizia, «l’esistenza di una discriminazione diretta, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 non presuppone che sia identificabile un denunciante che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione» (così, par. 36 causa C-81/12 Associatia Accept, nonché par. 23 causa C-54/07)”.

Com’è noto, l’applicazione del principio di non discriminazione in ambito civile impone una parziale inversione dell’onere della prova: per la Corte di giustizia dell’Unione europea, essendo palese il carattere discriminatorio delle dichiarazioni rese dai datori rumeni (nella specie, da parte di un soggetto terzo comunque riconducibile alla società convenuta), questi ultimi sono tenuti a dimostrare “con qualsiasi mezzo giuridico […] che la loro politica delle assunzioni si basa su fattori estranei a qualsiasi discriminazione fondata sulle tendenze sessuali”. Sotto tale profilo anche il Tribunale lombardo rileva come il convenuto nelle proprie difese si sia limitato ad affermare che tali espressioni sarebbero state proferite come privato cittadino (?) e non abbia “offerto di dimostrare che la prassi effettiva di assunzioni presso il suo studio non corrisponde al contenuto delle sue dichiarazioni”.

Il caso dimostra, dunque, la particolare efficacia della Direttiva europea volta a contrastare la discriminazione nei confronti delle persone omosessuali, in quanto capace di fornire una difesa avanzata ed un contrasto efficace ad ogni politica discriminatoria in ambito lavorativo. Il ricorso allo strumento civile, oltre che estremamente celere (difficilmente in un caso del genere si sarebbe avuta una condanna penale in pochi mesi) e favorevole sotto il profilo probatorio (in ambito penale mai sarebbe ipotizzabile un rovesciamento sull’accusato dell’onere di provare la propria innocenza), appare particolarmente efficace anche sotto il profilo sanzionatorio, essendo pienamente satisfattivo delle esigenze di difesa delle persone discriminate, poichè ha idonea efficacia stigmatizzante della condotta. Il tribunale di Bergamo condanna difatti il resistente a versare all’Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI, Rete Lenford (che ha il merito d’avere promosso il giudizio e raccoglie e festeggia adesso un’indubbia vittoria) la somma di € 10.000, definita dal giudice “non simbolica” e, soprattutto, ordina al convenuto “la pubblicazione, a sue spese, di un estratto del presente provvedimento, in formato idoneo a garantirne adeguata pubblicità, su «Il Corriere della Sera». Il Tribunale rileva infatti come “l’unica concreta modalità attraverso la quale è possibile la rimozione della condotta discriminatoria è quella di dare adeguata pubblicità al presente provvedimento, anche in considerazione dell’eco che le dichiarazioni hanno avuto, sia per il fatto di provenire da un professionista pubblicamente molto noto, sia per la diffusione nazionale della trasmissione nel corso della quale sono state rese”.

E data la risonanza mediatica già avuta dal provvedimento non è da dubitarsi del suo effetto non solo di sanzione nei confronti del resistente ma anche general-preventivo, diretto, cioè, a prevenire anche da parte di ulteriori datori di lavoro l’assunzione di illegittime condotte discriminatorie nei confronti delle persone omosessuali.

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