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Lezioni americane: dalla libertà d’opinione alla rilevanza penale dell’omofobia

2011-12-13 13.38.31

Partendo da una sentenza della Corte Suprema messicana, richiamando alla mente due interventi coevi, uno della Cedu ed uno della Suprema Corte del Canada, si assiste ad un tracciato, disegnato da diverse realtà giurisprudenziali, di isolamento dei discorsi d’odio, eradicando gli stessi dalle tutele offerte dal diritto alla libera manifestazione del pensiero. Il principio di fondo che si ricava è che una società democratica trova pieno compimento della sua missio proprio nella tutela della dignità umana che, nel caso di specie, viene aggredita da un esercizio aberrante di un diritto che, portato all’estremo, scivola dal crinale della legittima manifestazione di una opinione ad incitamento all’odio.

di Luca Morassutto

Quaerens me sedisti lassus
Dies irae

1. Una legge contro l’omofobia limiterebbe la libera manifestazione del pensiero? 2. Il principio di diritto di cui alla sentenza della Suprema Corte de Justicia messicana 3. Il fatto 4. La strada tracciata dalla Primera Sala: espressioni omofobe come una categoria di manifestazione di idee discriminatorie e di discorsi d’odio – l’enfatizzazione delle categorie sociali 5. Le conclusioni a cui perviene la Primera Sala 6. Intersezioni giurisprudenziali: il caso Vejdeland ed altri contro Svezia 7. Corte Suprema del Canada: Saskatchewan (Human Rights Commission) v. Whatcott ed il principio secondo cui la manifestazione delle idee ed il sentimento religioso non sono valori assoluti privi di bilanciamento 8. Il Caso Italia: “non la verità, ma quello che si sono immaginati”

 

Eppure  persino il Cristo si è seduto stanco presso il pozzo di Sicar all’ora sesta. Stanchezza che di contro i movimenti anti diritti civili paiono non ravvisare. Forse chi si è seduto, questa volta pigro e svogliato, si badi bene sicuramente non stanco, è una intera classe politica che ad oggi non è stata in grado di cogliere l’istanza di protezione da reati omo-transfobici che una minoranza costituzionalmente tutelata, da tempo avanza. Chi si è seduto stanco, sicuramente deluso, è parte di quel movimento lgbt, non locale ove ottimamente si opera ma nazionale, che trova non poche difficoltà nell’interloquire sui due macro temi fondamentali: matrimonio egualitario e legge contro l’omofobia. Soprattutto chi si è seduto stanco al pozzo, sono i diritti. Si tratta dei diritti che, da troppo tempo, la comunità lgbt italiana attende, unico caso tra gli Stati fondatori dell’Unione europea. Diritti quali il poter contrarre matrimonio o il vedere punite le condotte penalmente rilevanti fondate sull’omofobia o la transfobia.

Quasi fosse avvolta da una bolla che la rende impermeabile a quanto sta avvenendo in tutta Europa e nel resto del mondo, l’Italia finge di poter ignorare l’esistenza di un vuoto di tutela che sempre meno profuma di discrezione legislativa e sempre più ammorba l’aria per assomigliare a deliberata negazione dei diritti civili.

In maniera quindi inusuale viene quivi proposto un percorso, che non vuole essere rigoroso ratione istitutionum, bensì meramente esemplificativo per quanto attorno a noi si compie, tentando di cogliere una forma mentis sovraistituzionale e sovra-ordinamentale da cui ricavare un principio o un atteggiamento comune nei confronti di fenomeni quali quelli omo-transfobici.

In questo specifico caso, partendo da una sentenza della Corte Suprema messicana, richiamando alla mente due interventi coevi, uno della Cedu ed uno della Suprema Corte del Canada[1], si assiste ad un tracciato, disegnato da diverse realtà giurisprudenziali sovranazionali, di isolamento dei discorsi d’odio, eradicando gli stessi dalle tutele offerte dal diritto alla libera manifestazione del pensiero. Il principio di fondo che si ricava è che una società democratica trova pieno compimento della sua missio proprio nella tutela della dignità umana che, nel caso di specie, viene aggredita da un esercizio aberrante di un diritto che, portato all’estremo, scivola dal crinale della legittima manifestazione di una opinione ad incitamento all’odio.

 

1. Una legge contro l’omofobia limiterebbe la libera manifestazione del pensiero?

Mentre in Parlamento giace dimenticato il disegno di legge contro l’omofobia, sul territorio nazionale sparuti – ed a volte chiassosi – gruppi di persone ricordano come l’approvazione di un simile disegno di legge comporterebbe la violazione di un diritto costituzionalmente garantito quale quello alla libera manifestazione del pensiero. Quasi epistemologicamente viene proposta tale equazione come un assioma, un principio assunto per vero. Viene di contro accantonata, quasi fosse irrilevante, la domanda se tale affermazione sia o meno vera. Appare quindi il caso di porsi tale domanda: la legge contro l’omofobia limita la libera manifestazione del pensiero? Si è inteso così affrontare tale vexata quaestio utilizzando, in maniera forse poco ortodossa, un percorso di raffronto ed analisi giurisprudenziale. Questo lavoro prende quindi le mosse dalla analisi dettagliata di una sentenza della Corte suprema messicana ponendola a confronto con una sentenza temporalmente coeva della Suprema corte canadese. Entrambi i pronunciamenti sollevano interessanti spunti di riflessione alla luce dei soggetti coinvolti: nel primo caso dei giornalisti e nel secondo caso un predicatore; vengono così richiamati a loro volta due diritti quali quello di cronaca e di religione ed inevitabilmente si profila nella valutazione dei giudici un giudizio di bilanciamento. Da queste due sentenze provenienti da oltre Oceano è possibile tracciare un principio ispiratore comune che vediamo poi operare anche in seno ad una nota sentenza CEDU quivi richiamata. Apparirà così inevitabile calare, nel tessuto giurisprudenziale nazionale, le riflessioni che via via si andranno raccogliendo. Il confronto tra principi ispiratori delle sentenze sovranazionali e l’orientamento giurisprudenziale interno offriranno così una adeguata risposta alla domanda in incipit.

 

2. Il principio di diritto di cui alla sentenza della Suprema Corte de Justicia messicana

In Messico, la Suprema Corte de Justicia de la Nación, nella sua composizione in Primera Sala, il sei marzo 2013, con un voto di 3 a 2, ha dichiarato che i commenti contro le persone omosessuali ed i discorsi omofobi non sono coperti dall’ombrello costituzionale dell’art. 6, il quale recita che le manifestazioni di idee non possono essere sottoposte ad un controllo giudiziale o amministrativo a meno che non rappresentino un attacco alla morale, alla vita privata o ai diritti delle persone o, ancora, turbino l’ordine pubblico[2].  La Corte ha altresì ritenuto che, in tal caso, non viene leso il contenuto dell’art. 7 della Costituzione[3] che prevede come inviolabile il diritto a diffondere opinioni ed idee.

La Corte Suprema messicana offre così piena realizzazione al contenuto dell’incipit della Costituzione[4] dove all’articolo 1 si legge per l’appunto che ogni discriminazione fondata sulle condizioni personali di un individuo è proibita[5].

3. Il fatto

Esaminiamo più da vicino questo importante intervento giurisprudenziale[6], che si pone quale landmark ruling in materia di free speech[7].

Il caso prende le mosse nel lontano agosto 2003 quando inizia quella che è una sorta di guerra attraverso articoli di stampa tra due giornalisti locali della città di Puebla, che, nel 2009, si ripropone ai lettori con toni più accesi. In quest’ultima occasione, ENQ, uno dei due giornalisti, definiva il collega APH quale un “frocio” per il quale lavoravano in redazione solamente dei “finocchi”.

APH lamentava un danno al decoro, l’onore, l’immagine pubblica, la buona fama e la reputazione ed, all’esito del giudizio, ENQ veniva condannato ad un risarcimento del danno e alla pubblicazione di un estratto della sentenza. Questi pertanto proponeva appello affermando che non erano stati superati i limiti della libera manifestazione del pensiero.

La Corte di Appello riteneva ad ogni buon conto che le affermazioni contenute nell’editoriale di ENQ non potevano considerarsi una critica letteraria, artistica, storica, scientifica o professionale ma che di contro era evidente come fossero stati superati i limiti sanciti dagli art. 6 e 7 della Costituzione, ledendo così l’onore e la reputazione di APH.

E’ proprio il Secondo grado di giudizio, invero, a indicare a chiare lettere quello che sarà il principio poi consacrato dalla Corte Suprema, ossia che: un esercizio assoluto e smisurato della libera espressione delle idee non può essere oggetto di protezione costituzionale, quando si esterna in espressioni umilianti e maliziose.

Il 23 maggio 2012 il soccombente proponeva quindi un amparo directo[8]. Segnatamente venivano indicati come violati i diritti sanciti all’art. 6, 7, 14, 16, 17 Cost.

Nelle argomentazioni prodotte appare di particolare interesse quanto sub lettera d) ove si afferma che non era stata presa in considerazione la peculiarità delle attività professionali svolte, insito nelle quali esiste, ontologicamente, il concetto di “maggior intromissione nell’ambito personale” [9]. Si tratta di una argomentazione spesso presente nel giudizio di bilanciamento di molte Corti, volta a considerare affievolita la tutela di particolari soggetti esposti ad un clamore massmediatico [10].

La terza sezione del Tribunale Collegiale Civile del Sesto circuito rimetteva la questione alla Primera Sala della Corte Suprema evidenziando come vi  fosse un conflitto tra diritto alla libertà di manifestare il proprio pensiero e diritto all’onore. Bisognava inoltre valutare quanto la qualificazione soggettiva delle due parti, non semplici soggetti privati ma figure pubbliche in grado di utilizzare pari mezzi di aggressione e difesa, ammettesse una applicazione restrittiva del principio di cui all’art. 6 e 7 Cost. o piuttosto comportasse di dover tollerare un maggior grado di intromissione nella sfera personale.

Giovi però ricordare come, nella valutazione complessiva del caso, vi fosse da fare applicazione dei contenuti dell’art. 1 Cost. il quale afferma in incipit che “En los Estados Unidos Mexicanos todas las personas gozarán de los derechos humanos reconocidos en esta Constitución y en los tratados internacionales de los que el Estado Mexicano sea parte […]”. Ciò significa che nel bilanciamento tra diritto alla libera manifestazione del pensiero e tutela dell’onore bisogna por mente non solo alle norme di ordinamento interno ma altresì alle norme internazionali in ottemperanza al princpio secondo il quale deve essere fornita la massima protezione dei diritti. Questa maggior tutela si incontra nella Convenzione Americana sui diritti umani, siglata dal Messico nel 1981

4. La strada tracciata dalla Primera Sala: espressioni omofobe come una categoria di manifestazione di idee discriminatorie e di discorsi d’odio – l’enfatizzazione delle categorie sociali

La Prima Sezione della Corte Suprema evidenziava sin da subito come la tipologia di bilanciamento tra diritti fondamentali posto alla sua attenzione fosse tale da poter generare la creazione di un nuovo approccio giurisprudenziale.

La Suprema Corte affronta così i due macrotemi evidenziati nell’amparo directo partendo proprio dai limiti del diritto alla libera manifestazione del pensiero. Nel costruire il suo ragionamento, l’Alta Corte individua quattro passaggi: 1. I rapporti tra diritto alla libera manifestazione del pensiero e diritto all’onore; 2. In cosa consistono le espressioni offensive e il linguaggio discriminatorio; 3. L’analisi delle espressioni omofobe come una categoria di manifestazione di idee discriminatorie e di discorsi d’odio; 4. Analisi del caso concreto alla luce delle considerazioni svolte in via generale.

Si configura così la vera svolta nel procedimento giudiziario de quo, perchè, sino a questo preciso momento, non era mai emerso dinanzi a nessun Tribunale del Messico il contenuto di cui al punto 3. Tali espressioni non erano mai assurte infatti ad una qualificazione così specifica nè, tantomeno, in precedenza, si era parlato di discorsi d’odio.

La Prima Sezione riconduce il diritto all’onore alla dignità umana e ricorda come si tratti di un diritto riconosciuto all’art. 1 Cost. del Messico. Tale diritto rappresenta il limite implicito al concetto di libertà di espressione ed informazione.

Rispetto al diritto fondamentale alla libera espressione delle idee, protetto come ricordato negli artt. 6 e 7 Cost. messicana, nonchè dall’art 13 della Convenzione americana circa i diritti umani e dall’art. 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, il solo limite rilevante è per l’appunto la non aggressione dei diritti o della reputazione di una terza persona.

Il diritto alla libera manifestazione delle idee, fondamentale nella costruzione dello Stato di diritto, ha così – nella interpretazione fornita dai giudici – una doppia faccia. Da un lato va letto nella sua dimensione individuale all’interno della quale si esplica l’autonomia della persona. Dall’altro lato, nella sua dimensione sociale, contribuisce in maniera essenziale al funzionamento della democrazia rappresentativa, essendone così una vera pietra angolare. Tale diritto, come noto, ha ad oggetto idee, pensieri, opinioni, giudizi di valore. Non si tratta però a detta della Corte Suprema di un diritto privo di limiti nel suo esercizio. Confini in tal senso sono tracciati proprio dalla Costituzione stessa che li ravvisa nell’ordine pubblico, la vita privata ed i diritti dei terzi nonchè la morale. Orbene, in astratto non esiste un conflitto tra i due diritti in causa, fintantochè non si realizza una perdita di meriti ed una svalorizzazione agli occhi dei terzi[13] attraverso l’uso di espressioni infamanti o diffamanti, pronunciate con il proposito di creare discredito o disprezzo.

Generalmente, il diritto all’onore, è nella condizione di dover sopportare delle restrizioni che nascono dall’esercizio del diritto di manifestare le proprie idee. Le linee guida, per così dire, sono tracciate nella Relatoría Especial para la Libertad de Expresión de la Comisión Interamericana de Derechos Humanos” e prendono il nome di sistema duale di protezione. Principale conseguenza del sistema di protezione duale è il concetto di “reale malizia/malvagità” che si traduce nel pagamento di un risarcimento del danno a fronte di una informazione falsa o prodotta per l’appunto con reale malizia. Il diritto alla libera manifestazione delle idee, in particolare, nella sua espressione di diritto a manifestare delle opinioni a mezzo della stampa, assumerà quindi una posizione preferenziale quando sarà posto in connessione con l’assunto dell’interesse generale della popolazione nella formazione di una opinione pubblica. Diversamente, si avrà una prevalenza del diritto all’onore quando la libertà di espressione utilizza frasi in maniera offensiva o infamanti al fine di generare uno spregio personale o una vessazione ingiustificata.

Le espressioni assolutamente offensive non sono solo quelle riferite al singolo ma anche ad una collettività o ad un gruppo riconoscibile in ragione di una peculiare caratterizzazione, trascendendo quindi il singolo individuo ma rivolgendosi comunque a persone identificabili dentro la collettività. Ebbene, chiosa la Corte, il rispetto dell’onore delle persone ricerca una maggiore estensione dei margini di protezione quando le offese si riferiscono alla collettività determinata ed individuabile per ragioni storiche, sociologiche, etniche, religiose. Si tratta di una protezione dell’onore che si intensifica quando in una determinta società si individua un gruppo sociale oggetto di un costante rigetto delle persone che lo caratterizzano, tanto che il linguaggio che si utilizza per offendere o squalificare assume la qualifica di discriminatorio[14].

In cosa si caratterizza quindi il linguaggio discriminatorio? Secondo la Corte, in una enfatizzazione delle categorie sociali, attraverso l’uso di un linguaggio che si connota per espressioni linguistiche che diventano manifestazione di un rifiuto sociale. Esiste una interrelazione tra linguaggio ed identità delle persone che attraverso un insieme di fattori individuali, sociali e politici, fa si che un gruppo di persone si senta escluso dalla collettività. Ecco che l’uso del linguaggio può essere sia strumento con cui si realizza l’emarginazione di un gruppo, quanto il mezzo con cui si realizza l’eliminazione delle pratiche di esclusione e stigmatizzazione. Il linguaggio influisce innegabilmente sulla percezione che le persone hanno della realtà, provocando ed enfatizzando il pregiudizio sociale, creando le condizioni per l’esclusione sociale stessa. Nel ragionamento proposto dalla Primera Sala emerge come i nostri giudizi subiscono il condizionamento linguistico, tanto che l’immagine che abbiamo degli altri è tale in quanto percepita a causa della trasmissione di pregiudizi anzitutto rappresentati dal linguaggio verbale. Si individua così un discorso dominante, caratterizzato da credenze comuni che divengono stereotipi. Questi ultimi contengono inevitabilmente giudizi di valore negativi, espressioni “di un noi e di un loro” che portano inevitabilmente a squalificare socialmente chi del gruppo dominante non fa parte[15].

La Corte però va oltre ed analizza una peculiare categoria di manifestazioni discriminatorie rappresentate dalle espressioni omofobe e dal discorso d’odio. Nel far questo antepone al discorso la definizione di omofobia. Questa viene intesa in maniera generica come una discriminazione fisica, sociale, psicologica e delinquenziale che coinvolge le persone omosessuali[16].

5. L’omofobia secondo la Corte Suprema Messicana

La Corte suprema afferma che l’omofobia costituisce un trattamento discriminatorio che implica una forma di inferiorizzazione mediante una assegnazione di valore alle preferenze sessuali, conferendo alla eterosessualità un rango superiore. Si tratta di una forma di discriminazione che si rivolge non solo contro gli omosessuali ma altresì contro tutte le persone che non seguono le convenzioni sociali circa il sesso ed il genere in un contesto storico sociale eteronormativato[17]. Questa avversione si esplicita nell’indicare gli omosessuali come inferiori o anormali[18] e si qualifica come discorso omofobo. I toni del discorso omofobo possono essere denigranti, ironici, offensivi, usando un linguaggio che nel tempo ha posto radici nella società.

La Corte quindi afferma come risulti chiaro che quei discorsi ed espressioni dove i riferimenti all’omosessualità non avvengono in termini di opción sexual, propri di una società democratica pluralista ed includente, bensi di condizione di inferiorità ed esclusione, siano manifestazioni discriminatorie basate sulla preferencia sexual, rispetto alla quale la Costituzione vieta qualsiasi tipo di discriminazione.

La qualificazione di una persona non può passare quindi, a detta della Corte, dal dato sessuale tanto che, per l’appunto, l’omosessualità si configura come una forma di orientamento sessuale legittimo quanto l’eterosessualità. Ecco quindi che quelle espressioni omofobe che implicano una incitazione, promozione, giustificazione della intolleranza contro l’omosessualità e che si realizzano con termini apertamente ostili o di avversione o derisione, sono una categoria delle manifestazioni discriminatorie. La Corte corrobora questa sua posizione attraverso un riferimento diretto alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ove viene indicato che i discorsi d’odio o disprezzo di un gruppo sociale costituiscono una eccezione al concetto di libera manifestazione di idee[19].

Il riferimento della Corte Suprema messicana non si ferma solo alla giurisprudenza Cedu ma richiama anche una sentenza del Tribunal Supremo de España, che ha sancito come l’uso di espressioni che si riferiscono all’orientamento sessuale di una persona, pur se utilizzate in termini colloquiali e con intenzione giocosa, integrano un insulto nei confronti di quel soggetto in quanto, lette alla luce dell’uso che ne viene fatto in un tessuto sociale arretrato, ne diminuiscono il prestigio, dando occasione di generare maldicenze nelle sue relazioni sociali e familiari o professionali[20]. Alle medesime conclusioni arriva il Tribunal Constitucional de España, che ha determinato come le espressioni che si riferiscono all’orientamento sessuale di una persona debbano qualificarsi come ingiuriose e non sono scriminate dalla libertà di espressione[21].

Forte di tutti i richiami giurisprudenziali effettuati, la Corte suprema messicana evidenzia come i discorsi d’odio siano quelli che incitano alla violenza fisica o verbale o ancora psicologica e che si indirizzano contro i cittadini in generale o contro determinati gruppi individuati per ragioni storiche, sociologiche, etniche o religiose[22].

I discorsi di odio si caratterizzano quindi nel creare un clima generale di ostilità che si esplica in azioni violente intese nella più ampia accezione[23], essi trascendono la mera espressione di una idea ed al contrario risultano un’azione espressamente finalizzata al generare una consapevole ostracizzazione del prossimo basata su di una condizione personale.

Proibire i discorsi d’odio diviene così il compimento di quella garanzia, per la società, di integrazione dei suoi componenti cosicchè non siano sottoposti ad abusi, diffamazione, umiliazioni, discriminazione, violenza in ragione di razza, etnia, religione, genere o preferenza sessuale.

6. Le conclusioni a cui perviene la Primera Sala

Nello specifico, le espressioni utilizzate da ENQ erano state maricones (froci) e puñal (culattone). Si tratta di espressioni che sono – disgraziatamente aggiunge la Prima Sezione – utilizzate come aggettivi derisori nei confronti degli omosessuali, volte ad evidenziare uno stereotipo di mascolinità contrapposta ad una accentuazione di peculiarità femminili presuntamente presenti nei gay. L’uso fattone nel caso specifico (editorialisti e giornalisti culattoni) è volto non solo a svilire l’orientamento sessuale ma altresì lo stesso lavoro, quasi che, caratterizzandolo in termini spregiativi in ragione dell’orientamento sessuale, assuma un ontologico disvalore anche questo. Viene così a specificarsi una inferiorità non solo umana ma anche professionale contrapposta ad una “eterosessualità non solo normativa” (ossia regola generale dell’individuo) ma anche espressione di una zona di valore dell’individuo nella società.

Le espressioni usate da ENQ – affermano i giudici – sono del resto tipiche del linguaggio quotidiano della società messicana ma questo non implica che debbano essere tollerate. Esse si conformano quindi ad un discorso omofobo, per questo discriminatorio ed offendono nonchè evidenziano una repulsione nei confronti degli omosessuali e non possono vantare correlazione alcuna con un giudizio di valore circa l’attività professionale svolta dalla parte offesa. Non si tratta – sostiene la Corte – di effettuare una verifica sulla veridicità di quelle affermazioni ma di vagliare il loro peso in relazione all’odio che generano. Esse quindi non possono godere della tutela di cui all’art. 6 e 7 Costituzione messicana in quanto sono offensive e vili.

7. Intersezioni giurisprudenziali: il caso Vejdeland ed altri contro Svezia:

Si tratta di una sentenza[24] quella or ora esaminata che, per così dire, strizza l’occhio ad altri due interventi, citati in nota, rispettivamente della Cedu e della Corte Suprema del Canada, contemporanei al decisum della Corte Suprema messicana.

La Corte europea era chiamata a pronunciarsi su di una lamentata interferenza delle autorità svedesi nel diritto alla libertà di espressione. Il caso riguardava la distribuzione in un liceo di taluni volantini editi da una associazione denominata National Youth. In questi volantini, l’omosessualità era definita come una “deviante tendenza sessuale”. A questa andava ricondotto un effetto distruttivo sulla morale della società ma anche un problema sanitario dovendo imputarsi la diffusione di hiv ed aids proprio alla comunità gay. Infine si affermava come le organizzazioni gay mirassero a sminuire il reato di pedofilia fino a cercare di renderlo perfettamente legale al solo fine di poter adescare dei bambini senza essere penalmente perseguibili.

Si trattava di espressioni che andavano ad integrare la condotta prevista dall’art. 8 capitolo 16 del codice penale[25] svedese.

La difesa degli autori del volantinaggio ruotava attorno al fatto che non vi era mai stata intenzione di disprezzare gli omosessuali in quanto gruppo quanto di sollevare un dibattito sulla formazione nelle  scuole svedesi.

Condannati in primo grado e assolti in appelto venivano infine ritenuti, dalla Corte Suprema, responsabili per il reato contestato sulla scorta del fatto che gli alunni della scuola ove era stato distribuito il volantino non avevano potuto rifiutare di riceverlo in quanto inserito direttamente negli armadietti. A ciò si doveva poi aggiungere il fatto che il tanto ricercato dibattito poteva essere perseguito senza dover necessariamente offendere gli omosessuali come gruppo. Il caso viene portato quindi all’attenzione della Cedu per violazione dell’art. 10. La Corte europea evidenzia come, per quanto il diritto alla libertà di espressione debba essere garantito anche nel caso in cui si divulghino informazioni atte ad offendere o disturbare[26], le dichiarazioni contenute nei volantini abbiano rappresentato affermazioni gravi e pregiudizievoli per quanto non qualificabili direttamente come atti incitanti all’odio, contrariamente a quanto caldeggia una Raccomandazione del Consiglio d’Europa[27], in ragione anche del fatto che i volantini erano stati distribuiti in una scuola con alunni fortemente impressionabili stante la giovane età. All’unanimità la Corte riteneva così non integrata la violazione di cui all’art. 10 Cedu e riteneva pertanto giustificata la limitazione del diritto alla libertà di espressione al fine di tutelare un gruppo vulnerabile.

8. Corte Suprema del Canada: Saskatchewan (Human Rights Commission) v. Whatcott ed il principio secondo cui la manifestazione delle idee ed il sentimento religioso non sono valori assoluti privi di bilanciamento,:

Simile, ma per taluni versi più articolato, coinvolgendo anche il diritto a manifestare il proprio sentimento religioso, è quanto avvenuto in Canada nel 2001 e nel 2002. Il caso prende le mosse dalla distribuzione di taluni volantini ad opera di William Whatcott, attivista conservatore canadese, il quale, operando per conto della Christian Truth Activists, distribuì degli scritti nella provincia di Saskatchewan, in Canada. In particolare si trattava di quattro tipologie di volantini, due di questi intitolati “tenere l’omosessualità fuori dalle scuole pubbliche di Saskatoon” e “i sodomiti nelle nostre scuole pubbliche”. Gli altri scritti consistevano invece in una stampa “home made” di una pagina di annunci tratti da dei giornali gay, corredati da dei commenti scritti a mano. Questi volantini furono quindi portati all’attenzione della Corte competente per territorio e materia affermando che si trattava di materiale che incitava all’odio in ragione dell’orientamento sessuale, violando il s.14 del Saskatchewan Human Rights Code[28]. Il Tribunale concludeva affermando che il contenuto dei volantini distribuiti nelle case era ritenuto, per taluni suoi passaggi, volto ad incitare all’odio ed esporre al ridicolo la comunità omosessuale. Il sig. Whatcott veniva così condannato al risarcimento del danno[29] in solido con la Christian Trut Activits.

La decisione fu poi confermata dalla Court of Queen’s Bench[30] ritenendo di dover applicare uno standard interpretativo del concetto di odio ricavabile dalla pregressa giurisprudenza, in particolare dal caso Canada (Human Rights Commission) v. Taylor, [1990] 3 S.C.R. 892 ove si andava a punire unicamente quelle espressioni che generavano sentimenti eccessivi che sfociavano in forme di detestabilità, calunnia o denigrazione. Veniva quindi impugnato il verdetto innanzi alla Corte di Appello di Saskatchewan e questa si pronunciava nel senso di ritenere che tali volantini non contravvenissero a quanto indicato nel codice dei diritti civili. Quanto affermato da Whatcott, a detta della Corte di Appello, si inseriva in un dibattito politico e morale e pertanto non poteva essere considerato una pubblicazione ispirata ad odio.

La Commissione per i diritti umani di Saskatchewan impugnò tale pronuncia innanzi alla Corte Suprema ed in tale contesto Whatcott evidenziò due aspetti essenziali: ad essere violati non erano i diritti degli omosessuali quanto piuttosto il suo diritto a liberamente manifestare le sue idee ed il suo sentimento religioso.

Il caso de quo era di fatto piuttosto complicato. Per taluni aspetti integrava in effetti lo standard individuato nella giurisprudenza Canada (Human Rights Commission) v. Taylor, in quanto, i volantini oggetto del procedimento, equiparavano gli omosessuali ai pedofili ed a chi abusava, più generalmente, dei bambini, andando così ad integrare l’ipotesi dell’incitamento all’odio. Di contro non tutti i volantini erano del medesimo tenore. In particolare veniva ritenuto che due di questi si inserissero piuttosto nel lecito dibattito circa cosa doveva essere o meno insegnato a scuola e che il commento “I sodomiti sono 430 volte più esposti al contagio da aids e 3 volte più attratti dall’idea di abusare dei bambini” fosse una semplice iperbole.

Esiste la percezione, nello scorrere gli atti processuali, che i giudicanti avessero chiaro come il proibire l’hate speech non comporti l’eliminazione del sentimento d’odio dal bagaglio esperienziale umano. Di contro, proprio per ottemperare al principio della tutela della dignità umana, sussiste la necessità di eliminare quelle forme di espressione, per così dire estreme, che rappresentano un potenziale incitamento al trattamento discriminatorio.

Proprio sul concetto di “estremo” la Corte Suprema costruirà il principio per cui la libera manifestazione delle idee ed il sentimento religioso non sono valori assoluti privi di bilanciamento, trovando proprio nel discorso d’odio, volto a generare sentimenti per l’appunto esasperati – financo violenti – quel limite invalicabile.

Viene altresì evidenziato come le strade che si offrono per eradicare il discorso d’odio, siano essenzialmente riconducibili a due strumenti diversi: affidare al concetto di “marketplace of ideas” il bilanciamento tra diritti e punti di vista in conflitto; lasciare alla norma penale la persecuzione del reato pur consapevoli del fatto che questo non implichi il debellarsi ab ovo del problema.

Intimamente connessa al concetto di “marketplace of ideas”[31] è l’idea che la discriminazione possa essere meglio affrontata con l’informazione e l’educazione. Il problema di fondo è che i discorsi d’odio colpiscono antiche corde dell’animo umano, sulla scorta di una partitura suonata fin troppo spesso e la cui musica riecheggia – per così dire – sulle note di una “marcia funebre” in forza della quale bisogna avere paura del diverso. Questa paura, che si trasmette come un contagio, porta ad un indebolimento del principio stesso su cui si fonda la democrazia ossia la partecipazione attraverso la libertà di opinione. E’ quindi frequente assistere all’effetto opposto al concetto di partecipazione, ossia l’isolamento per timore. Una frequente manifestazione dell’hate speech è proprio questa: lo scoraggiare la minoranza a contribuire al dialogo.

La Corte evidenzia così come la libertà di espressione, per quanto concetto centrale della democrazia, non sia assoluta e priva di limitazioni. L’obiettivo che la legislazione si premura di perseguire è non solo pressante, urgente, ma altresì fondamentale e riguarda per l’appunto la tutela della dignità umana. La Corte giunge così ad isolare tre soggetti che ritiene essere lesi dal discorso d’odio, che, verrebbe da dire, come un proiettile, attraversa il singolo, colpisce a morte il gruppo e ferisce gravemente l’intera compagine sociale.

Usando le parole del Giudice Rothstein della Corte Suprema degli Stati Uniti, il discorso d’odio pone le basi perché gli attacchi portati al singolo divengano discriminazione, ostracismo, segregazione, deportazione, violenza e, nei casi più estremi, genocidio.

Orbene, secondo la Corte, il fatto che un discorso (d’odio) si ammanti di un valore morale o si svolga in un dibattito pubblico non fa sì che si ripulisca dall’effetto lesivo che lo permea.

Non basta. La difesa di Whatcott, come si ricorderà, evidenziava come i diritti calpestati fossero due: la libera manifestazione delle idee ed altresì la tutela del sentimento religioso. Specificamente su quest’ultimo diritto, non a caso, il sig. Whatcott, argomentava come la critica alle condotte same sex fosse non solo un esercizio della libertà di manifestare le proprie idee ma altresì espressione della manifestazione del suo credo religioso. Proprio il fatto che questa critica fosse presente – a suo dire – in larga parte nelle persone con un credo religioso stava a testimoniare come le sue osservazioni non fossero peregrine o semplicemente dettate da un desiderio discriminatorio ma anzi, fossero espressione di un forte sentimento fideistico che vede nel comportamento omosessuale una offesa allo stato di natura[32]. Evidenziava altresì come tale proibizione impostagli rappresentasse un conflitto umano di non poco conto essendo egli combattuto tra l’ottemperare al precetto religioso e l’osservare la legge.

Ed effettivamente, nel corso dei diversi gradi di giudizio, le singole Corti si erano per l’appunto soffermate ad isolare, nel testo dei volantini, quelle espressioni da cui emergeva chiara l’esposizione degli omosessuali all’odio, al ridicolo, all’affronto della loro dignità umana unicamente sulla base del loro orientamento sessuale. Ciò avveniva non solo attraverso una concettualizzazione dell’omosessualità come di un abominio ma altresì associando la pedofilia alla omosessualità o interpretandola come causa della diffusione di malattie sessualmente trasmissibili, o, ancora, ricorrendo al concetto di immondo, sozzo, contaminato[33]. Sulla scorta di queste osservazioni anche la Corte Suprema ritenne che non si trattava di esercizio della libertà religiosa ma di semplice discriminazione sulla base sessuale.

La Suprema Corte  (Corte suprema del Canada, Saskatchewan -Human Rights Commission- v. Whatcott, sentenza del 27 febbraio 2013) quindi, con decisione unanime, ha ritenuto che due dei volantini portati alla sua attenzione integrassero una manifestazione di odio e pertanto non potevano  trovare tutela nel principio della libera manifestazione delle idee e del sentimento religioso.

L’analisi così condotta ha offerto la possibilità di apprezzare tre interventi provenienti da tre diverse zone geografiche del globo: il Sudamerica, il Nordamerica, l’Europa. Potremmo persino aggiungere a queste pronunce l’intervento della Suprema Corte turca richiamato in nota 1. Pur se geograficamente tra loro distanti queste sentenze sono unite da tre passaggi comuni: interpretare la libera manifestazione del pensiero come momento fondante la partecipazione democratica alla vita della nazione; considerare l’hate speech come una aberrazione di tale diritto; individuare nella dignità umana il parametro di bilanciamento. Si voglia perdonare l’ardita similitudine ma, per taluni versi, ci troviamo di fronte ad una sorta di fruit of the poisonous tree[34]. Come infatti il frutto che proviene da un albero avvelenato risulta a sua volta contaminato e quindi va scartato, così le opinioni che nascono dalle idee motivate dall’odio non possono godere della permanenza nel circuito democratico in quanto rappresentano un virus letale per quel corpo sociale. Da qui la concezione che una idea quando valica certi confini non trova più sostegno nel principio della libera manifestazione (delle idee) ma, intaccata dall’odio, si trasforma in un alterum che viene privato della tutela costituzionale. Il secondo passaggio che accomuna le sentenze è dare concretezza al concetto di “certi confini”, interpretati nel senso della dignità umana. Questa diventa quel contenitore di diritti umani inviolabili con cui anche  la libera manifestazione del pensiero entra in dialettico confronto. E’ proprio quando la dignità umana viene così calpestata da una idea motivata dall’odio che l’ordinamento reagisce a tutela del bene superiore, l’individuo ed il suo diritto ad esistere.

8. Il Caso Italia: “non la verità, ma quello che si sono immaginati[35]

Il confronto con l’Italia risulta assolutamente impietoso. Mentre infatti, a quasi un anno dalla sua approvazione alla Camera dei deputati[36], il disegno di legge n. 1052, noto come disegno di legge Scalfarotto, giace in Senato in quello che sembra essere, di fatto, una requiem aeternam, l’attività dei detrattori dell’entrata in vigore di tale normativa pare invece indefessa.

Non sono tanto i 393 emendamenti presentati al d.d.l. a preoccupare, seppure alcuni di essi spiccano per il “raffinato” contenuto giuridico[37], né tantomeno una inerzia legislativa che attende evidentemente l’ennesimo irreparabile evento per riproporsi, in un’ottica tutta italiana all’insegna di un diritto penale emergenziale, all’attenzione dell’Aula parlamentare. Non sono neppure le manifestazioni di piazza contrarie all’introduzione di una fattispecie penale volta a perseguire i comportamenti omofobi a destare preoccupazione, anzitutto perché loro stesse espressione di un diritto costituzionalmente garantito; al più, tali manifestazioni, possono sollevare interrogativi sulla saggezza di quel manifestare all’insegna del desiderio di privare parte della comunità di una tutela giuridica o ancor peggio di chiedere che vengano negati dei diritti umani fondamentali.

Ciò che inquieta è la forma dialettica che il dibattito ha assunto ed il modo in cui viene portato avanti, segnatamente invocando la formula magica dei “principi non negoziabili” (sacrificando in nome del più bieco “pronismo” quanto invece di innegoziabile vi è: la dignità umana) e dei “temi eticamente sensibili”, soprattutto da diversi parlamentari della Repubblica e da taluni esponenti del clero cattolico che, a loro dire, si battono a difesa della laicità dello Stato[38], trasmodando così in un ruolo che di fatto non è il loro. Pur convenendo che appare “intollerabilmente illiberale limitare la sua (della Chiesa) libertà di predicare, persuadere ed educare” di contro non può essere sottaciuto che vi “sono obblighi a cui uno Stato liberale non può sottrarsi. Non può ignorare anzitutto che le due rivoluzioni degli ultimi quarant’anni hanno straordinariamente allargato la sfera dei diritti umani. I diritti non sono immutabili e iscritti una volta per tutte in un astratto codice del diritto naturale. Sono creazioni storiche, nate dall’evoluzione – ed in taluni casi dalla involuzione mi verrebbe da dire – della società, dai progressi della scienza, dal mutamento dei costumi […] in Italia la Chiesa non rinuncia a fare battaglie più intransigenti e inflessibili di quelle che è in grado di fare altrove; e può soprattutto contare su una classe politica più debole ed opportunista di quella con cui deve trattare in altri paesi dell’Europa cristiana”[39].

Lo spauracchio, agitato con dito severo innanzi all’ignaro cittadino, è rappresentato da una paventata lesione per l’appunto del diritto alla libera manifestazione del pensiero a cui viene associata l’idea di fondo che tale introduzione normativa comporterebbe una condizione preferenziale per taluni cittadini a scapito di altri: “questa legge in sostanza dice che ci sono dei cittadini che devono essere difesi nei loro diritti al di là dei diritti che ogni cittadino italiano gode per il fatto che è parte della società italiana. E’ evidente allora che c’è una debolezza dello Stato: è come se lo stato dicesse che c’è bisogno di qualcosa di eccezionale per consentire a questi cittadini italiani di vivere adeguatamente i loro diritti di cittadini. Il che mi sembra obiettivamente una cosa assurda.”[40] Effettivamente qualcosa di assurdo c’è. E’ sufficientemente inquietante infatti, da un punto di vista giuridico, leggere che quanto fa lo Stato al fine di poter garantire ad una minoranza di godere appieno della pari dignità sociale, rimuovendo gli ostacoli volti a limitare la libertà e l’eguaglianza e che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, sia considerata una debolezza. Al contrario, come noto, tutelare le minoranze comunque intese è uno dei più alti compiti della Repubblica, il mandato – verrebbe da dire sacro – a cui lo Stato deve votarsi in nome di quell’art. 3 della Costituzione che, per l’appunto, esprime l’esistenza delle minoranze stesse e la necessaria azione di tutela nei loro confronti. Una difesa che passa attraverso una concezione di eguaglianza non solo formale ma soprattutto sostanziale.

Si assiste quindi ad un ricorso quasi ossessivo – ma soprattutto inappropriato – al concetto di libera manifestazione del pensiero. Si tratta di un approccio, come abbiamo visto dalle sentenze esaminate, errato, espressione – nel nostro caso – di una lettura frettolosa della norma o, diversamente, di una consapevole alterazione della realtà letterale della stessa. Non solo. Fosse anche (ma preme sottolinearlo non lo è[41]) un problema di libera manifestazione del problema esso viene presentato quale approccio bellamente ignaro della giurisprudenza formatasi in materia di applicazione della legge Reale – Mancino[42] ove la Cassazione ha più volte ricordato come “deve essere ribadito che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, tutelato dall’art. 21 Cost., non può essere esteso fino alla giustificazione di atti o comportamenti che, pur estrinsecandosi in una esternazione delle proprie convinzioni, ledano tuttavia altri principi di rilevanza costituzionale e i valori tutelati dall’ordinamento giuridico interno ed internazionale”[43]. Un percorso giurisprudenziale che si ripropone identico nel tempo tanto che la Cassazione dirà in altra occasione[44]: “il principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero, di cui all’art. 21 Cost., non ha valore assoluto, ma deve essere coordinato con altri valori costituzionali di pari rango. In particolare, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero incontra il limite derivante dall’art. 3 Cost. che consacra solennemente la pari dignità e la eguaglianza di tutte le persone senza discriminazioni di razza e in tal modo legittima ogni legge ordinaria che vieti e sanzioni anche penalmente, nel rispetto dei principi di tipicità ed offensività, la diffusione e la propaganda di teorie antirazziste, basate sulla superiorità di una razza e giustificatrici dell’odio e della discriminazione razziale”[45]. Ecco quindi che: “un discorso, anche eventualmente apprezzabile, non può autorizzare cedimenti a condotte illegali: un insulto resta tale anche se inserito in un bel ragionamento, [tanto che] il senso complessivo dell’elaborazione culturale non può redimere passaggi argomentativi in sé non assimilabili sul piano della liceità giuridica”[46]. In altri termini se un ragionamento contiene una valutazione personale, opinabile in quanto tale ma comunque rientrante nell’ambito della libertà di espressione, nessuno mai potrà sollevare questioni di sorta (se non sull’intelligenza di quanto affermato…); il problema invece sorge quando la valutazione trasmodi nella denigrazione per motivi di razza e di religione[47].

Si permetta quindi di evidenziare che è proprio quando le forme espressive di odio e di disprezzo, nonché l’istigazione a replicare siffatti atteggiamenti discriminatori, travalicano le rivendicabili ragioni di ricerca storico giuridica o di libera manifestazione del pensiero che queste si insediano centralmente nell’area dell’illecito penale. “E’ del tutto evidente allora che non possono essere utilmente invocate le scriminanti dell’esercizio delle libertà costituzionali quali il diritto alla libertà di pensiero e di ricerca storico scientifica cui ineriscono il limite del rispetto di valori  più alti, pure costituzionalizzati, quale la dignità umana e che dunque non possono essere riconosciute ove concretamente in contrasto con essi”[48].

Anche in Italia pertanto la giurisprudenza, da tempo, ha assunto posizioni del tutto affini a quelle delle Corti straniere, in questo, v’è da dire, anticipando di molto la politica. Proprio quest’ultima si è dimostrata disattenta e per così dire orgogliosamente foriera di un marchio “tutto italiano” nel legiferare, ritenendo, evidentemente, del tutto grottesco quanto elaborato da tutti gli altri Stati europei. Curiosamente isolati dal resto dell’Europa, siamo l’ultimo degli Stati fondatori dell’Unione europea in tema di diritti civili riconosciuti alla comunità lgbt e – pur senza imbarazzo evidentemente – sfoggiamo una percentuale di raffronto di tali diritti, indegna di un Paese civile[49].

Pur volendo ignorare, cosa che per altro non ci è possibile fare, il dato normativo espresso dalla Legge Reale – Mancino, la quale, anche in sede di interpolazione a mezzo del disegno di legge Scalfarotto, limita gli hate speeches con precipuo riferimento unicamente al concetto di razza ed etnia,  rimane il fatto che, a detta di chi scrive, non dovrebbero esistere patenti di impunità volte a tutelare chi dell’idea fa dileggio, offesa, violenza verbale o incarnazione di una sottesa minaccia. Traggo conforto per questa mia affermazione da un percorso giurisprudenziale compiuto dalle Corti straniere ma anche nazionali (come rapidamente richiamato nelle sentenze citate) e che si pone in maniera assolutamente affine con la decisione quadro del Consiglio Europeo (2008/913/GAI) e con la giurisprudenza della CEDU[50].

Non si tratta di stracciarsi le vesti innanzi al simulacro del diritto alla libera manifestazione del pensiero. Si tratta piuttosto di volgere lo sguardo con attenzione a fenomeni massivi di violenza che nascono proprio in quanto annaffiati da discorsi d’odio.A tal proposito occorre pertanto interrogarsi se sia proprio vero che la circolazione di tutte le idee, anche le più scioccanti, odiose e scomode torni utile ai destinatari del discorso per formarsi un’opinione il più scevra possibile da condizionamenti[51]. O forse dobbiamo convenire con il filosofo, quando sostiene che “non ci è nemmeno richiesto di tollerare la minaccia di intolleranza; e tanto meno dobbiamo tollerarla se la minaccia diventa seria”[52]. Quello che si vuole osteggiare non è il civile dissenso di cui invece si nutre la democrazia, quanto l’aggressione barbara e incivile ai diritti delle persone. Giova a poco considerare la tolleranza nel suo aspetto negativo come non interferenza nella vita di altre persone se non si include altresì una dimensione dei doveri in positivo. “La legge cioè deve difendere gli interessi delle minoranze che vivono tra di noi e […] nessuna società può affermare di essere veramente tollerante se non è in grado di passare dall’aspetto negativo della tolleranza a quei doveri in positivo che sono associati a essa. Non è bastevole in altre parole che la legge assicuri a tutti il godimento degli stessi diritti civili e politici. La legge deve difendere tutti, in particolare i membri delle minoranze, dalla possibilità di essere soppressi (cosa ben più seria dell’essere oppressi) e di essere svantaggiati.”[53]

[1] Mentre si scrive questo intervento è giunta la notizia che all’elenco di Corti sopra individuato deve aggiungersi altresì la Corte Suprema turca chiamata a pronunciarsi nei confronti di un sito omofobo denominato Habervaktim. In quello che è il suo primo pronunciamento in materia, la Corte ha ritenuto integrarsi l’incitamento all’odio su base dell’orientamento sessuale, ritenendo questo del tutto simile per gravità a quello commesso per motivi di razza etnia o colore della pelle.

[2] “La manifestación de las ideas no será objeto de ninguna inquisición judicial o administrativa, sino en el caso de que ataque a la moral, la vida privada o los derechos de terceros, provoque algún delito, o perturbe el orden público; el derecho de réplica será ejercido en los términos dispuestos por la ley…” in http://www.diputados.gob.mx/LeyesBiblio/htm/1.htm

[3] In forza del quale si afferma che: “Es inviolable la libertad de difundir opiniones, información e ideas, a través de cualquier medio. No se puede restringir este derecho por vías o medios indirectos, tales como el abuso de controles oficiales o particulares, de papel para periódicos, de frecuencias radioeléctricas o de enseres y aparatos usados en la difusión de información o por cualesquiera otros medios y tecnologías de la información y comunicación encaminados a impedir la transmisión y circulación de ideas y opiniones […]”

[4] “Queda prohibida toda discriminación motivada por origen étnico o nacional, el género, la edad, las discapacidades, la condición social, las condiciones de salud, la religión, las opiniones, las preferencias sexuales, el estado civil o cualquier otra que atente contra la dignidad humana y tenga por objeto anular o menoscabar los derechos y libertades de las personas”

[5] Giovi qui ricordare che La Costituzione del 1917, attualmente in vigore negli Stati Uniti del Messico, viene anzitutto in quanto fu la prima costituzione della storia ad includere i diritti sociali, anticipando la Costituzione tedesca di Weimar di due anni.

[6] Consultabile direttamente sul sito della Corte Suprema Messicana al seguente link: http://www2.scjn.gob.mx/ConsultaTematica/PaginasPub/DetallePub.aspx?AsuntoID=143425

[7] Ricalcando comunque gli approdi a cui era giunta la Suprema Corte Canadese nel caso Saskatchewan (Human Rights Commission) v. Whatcott, 2013, consultabile al link: http://scc-csc.lexum.com/scc-csc/scc-csc/en/item/12876/index.do

[8] Trattasi di un ricorso finalizzato alla protezione dei diritti fondamentali che si ritengono essere stati violati da una sentenza.

[9] Rieccheggia in tal modo l’idea propria della dottrina americana per la quale la public disclosure of private facts per considerarsi reato deve sviluppare tre componenti: a) la divulgazione, b) di un fatto privato, c) divulgazione che avvenga in maniera offensiva e sgradevole secondo il parametro dell’uomo medio. In questo caso però essendo coinvolti due giornalisti di due diverse testate il parametro non può essere se non quello dell’uomo pubblico in quanto per entrambi si deve considerare l’idea di un maggior grado di intromissione nell’ambito personale (cfr. A. J. Kretz, The right to sexual orientation privacy: strenghtening protections for minors who are “outed” in schools, Journal of Law Education, 2013, pag. 384 e ss.)

[10] Esplicativo in tal senso il caso Oliver Sipple v Chronicle Publishing Co, 291 Cal. Rptr 665, 666 (Cal. Ct. App. 1984) menzionato in R.F. Wick, Out of the closet and into the headlines: “outing” and the private facts tort, the Georgetown Law Journal,  Vol. 80:413, pag. 420, 1991.

[11] Cfr http://www.oas.org/dil/treaties_B-32_American_Convention_on_Human_Rights_sign.htm

[12] Specificamente l’art. 11 rubricato “diritto alla privacy” così recita: “1. Everyone has the right to have his honor respected and his dignity recognized. 2. No one may be the object of arbitrary or abusive interference with his private life, his family, his home, or his correspondence, or of unlawful attacks on his honor or reputation. 3. Everyone has the right to the protection of the law against such interference or attacks.

[13] la Corte in tal senso usa la parola desmerecimiento.

[14] Cfr in tal senso quanto afferma M. Winkler in relazione al concetto di gruppo sociale in M. Winkler, A silent right is not a right: orientamento sessuale, diritti fondamentali e “coming out” a margine di una sentenza inglese in tema di rifugiati, in Corriere Giuridico 2011, pag. 1377 ed ancora L. Morassutto – M. Winkler, Le tante facce dell’omofobia: una sentenza recente della Corte di giustizia dell’Unione europea n materia di rifugiati omosessuali, in La Nuova giurisprudenza civile commentata, 2014, pag. 567.

[15] Cfr in tal senso quanto afferma A. Pugiotto in “Le parole sono pietre?”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, pag. 3 link: http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1378823427PUGIOTTO%202013.pdf

[16] La Corte, dimostrando una attenzione al problema assolutamente peculiare, utilizza gli studi di George Weinberg richiamando espressamente il concetto di rifiuto determinato dalla paura del contagio. Cfr altresì http://psychology.ucdavis.edu/faculty_sites/rainbow/html/Beyond_Homophobia_2004.PDF

[17] Cfr. V. Lingiardi, Citizen gay, il Saggiatore, 2012, pag. 57 il quale parla per l’appunto di dimensione eteronormativa per la quale l’identità eterosessuale viene per così dire “assegnata prima ancora che l’individuo sia al mondo: lo spazio per la sessualità viene occupato da una eterosessualià data per scontata”.

[18] Non si può quivi non ricordare come nel 1936 il Reichsfuhrer delle S.S. Heinrich Himmler avesse creato un apposito Ufficio Centrale per la lotta contro l’aborto e l’omosessualità. Sia l’uno che l’altro infatti, nella visione nazionalsocialista, contribuivano all’annientamento indiretto del popolo ariano, in particolare bisognava porre attenzione ai pericoli razziali e biologici dell’omosessualità. Cfr. M. Consoli, Homocaust. Il nazismo e la persecuzione degli omosessuali, Kaos, Milano, 1991. Posizioni rinverdite per esempio da Francois Abadie, senatore francese, su Le Nouvel Observateur il 22 giugno 2000 definendo gli omosessuali, i becchini dell’umanità, coloro che non accettano il futuro.

[19] Il riferimento è a Case of Vejdeland and others v. Sweden in http://hudoc.echr.coe.int/sites/eng/pages/search.aspx?i=001-109046#{“itemid”:[“001-109046”]}

[20] I termini all’attenzione del Tribunal Supremo erano“maricuchi” y “mariquita” (checca) cfr. Sentenza 4918/2004 dell’’8 luglio 2004

[21]La sentenza può essere consultata all’indirizzo http://ocw.usal.es/ciencias-sociales-1/derecho-a-la-informacion/contenidos/SENTENCIAS/3er%20BLOQUE/PDF/STC%2077-2009,%20de%2023%20de%20marzo.pdf . Si segnala in particolar modo il passaggio: «las diversas expresiones recogidas en los reportajes referidas a la condición homosexual del afectado y a su actividad sexual pueden calificarse de formalmente injuriosas en el contexto empleado, apareciendo desvinculadas de cualquier finalidad informativa y del objetivo de formación de una opinión pública libre. Así, el empleo del término “mariquita” para referirse a la orientación sexual de don V. L.C. y los calificativos que se emplean son despectivos respecto de su orientación sexual e innecesarios para el objetivo informativo que se perseguía»

[22] In tal senso anche Tribunal Constitucional de España 235/2007

[23] Con esplicito riferimento alla sentenza Simon Bikindi consultabile in http://www.unictr.org/tabid/128/Default.aspx?id=11&mnid=3 .  Simon Bikindi, cantante di etnia Hutu, fu indagato dal Tribunale internazionale per i crimini commessi in Rwanda per istigazione al genocidio o complicità in genocidio. Fu accusato di comporre, cantare, registrare e distribuire canzoni volte ad esaltare l’etnia Hutu ed accusando i Tutsi di aver schiavizzato gli Hutu. In tale processo si affermò che, per quanto la libertà di espressione vada protetta per garantire il dibattito sociale, essendo questo il fondamento della democrazia, tuttavia non possono trovare protezione quei discorsi il cui deliberato scopo consiste nel violentare la dignità delle persone attraverso l’incitazione all’odio ed alla discriminazione.

[24] In https://www.articolo29.it/decisioni/corte-europea-dei-diritti-delluomo-prima-sezione-vejdeland-e-altri-contro-svezia-decisione-del-9-febbraio-2012/

[25] il quale prevede che una persona, che utilizzi espressioni di disprezzo in forza della razza, del colore della pelle, delle origini nazionali o etniche, religiose o dell’orientamento sessuale di un gruppo di persone, risponda del crimine di istigazione all’odio.

[26] Rife: Pedersen e Baadsgaard c. Danimarca, n. 49017/99, § 67, CEDU 2004-XI)

[27] Raccomandazione No. R (97) 20 del Consiglio d’Europa dove si evidenzia come i discorsi incitanti l’odio nei confronti di un gruppo vanno intesi in senso ampio, comprendendo quindi tutte le espressioni volte ad incitare, promuovere, giustificare l’odio razziale, l’antisemitismo, la xenofobia o qualunque odio basato sulla intolleranza. cfr. http://www.coe.int/t/dghl/standardsetting/hrpolicy/other_committees/dh-lgbt_docs/CM_Rec(97)20_en.pdf

[28]http://www.qp.gov.sk.ca/documents/English/Statutes/Statutes/S24-1.pdf ove al s. 14 si legge che nessuno può pubblicare o in qualsiasi modo diffondere rappresentazioni, notizie, segni, simboli, emblemi, articoli, affermazioni o altri simili espressioni atte a privare, ridurre, in qualsiasi modo restringere il godimento di qualsivoglia diritto di una persona o classe di persone sulla base di un motivo illecito ed altresì esporre all’odio, al ridicolo, al discredito o qualsiasi altro affronto alla dignità personale di un singolo o di una classe di persone sulla scorta di un motivo illecito.

[29] Per un ammontare di 17000 dollari canadesi.

[30] Si tratta della Corte superiore in grado di Appello operante nella Provincia di Saskatchewan.

[31] In questo senso  Abrams v. United States, 250 U.S. 616 (1919) in http://caselaw.lp.findlaw.com/scripts/getcase.pl?court=US&vol=250&invol=616 ; R. Dworkin, “Foreword”,in I. Hare – J. Weinstein, Extreme Speech and Democracy, 2009, Oxford University Press; R. Moon, The Constitutional Protection of Freedom of Expression, 2000, University of Toronto Press.

[32]La Commissione per i diritti umani della provincia di Saskatchewan fece notare come le credenze religiose, espresse nei volantini e del tipo rinvenibile nel leading case Canada (Human Rights Commission) v. Taylor, [1990] 3 S.C.R. 892 fossero tali da ferire intimamente una comunità e si ponessero all’esterno delle guarantigie offerte dall’ s. 2(a) della Carta dei diritti.

[33] Appare inevitabile in tal senso richiamare alla mente tutta la teoria di Paul Cameron circa l’associazione di immagini disgustose al concetto di omosessualità, in M.  C. Nussbaum, Disgusto e umanità, 2011, Il Saggiatore, pag. 76.

[34] La similitudine viene tratta dalla nota teoria processuale penalistica sviluppata nella sentenza Silverthorne Lumber Co., Inc. v. United States 251 U.S. 385 (1920) (consultabile al link http://supreme.justia.com/cases/federal/us/251/385/case.html) e richiamata dal prof. F. Cordero prima nel suo notissimo saggio Tre studi sulla prova penale, Giuffrè, 1963, poi in Procedura penale, IX ed, 2012, pag. 645.

[35] Il titolo del paragrafo è tratto da C. A. Pilati, Plan d’une législation criminelle, III, cit. In M. Nobili, L’immoralità necessaria, il Mulino, 2009, pag. 217.

[36] Il testo, interpolato dagli emendamenti Gitti e Verini, veniva approvato dalla Camera dei deputati il 19 settembre 2013,

[37] Il riferimento va per esempio all’emendamento 1.5 ove si assiste ad una equiparazione tra orientamenti omosessuali, bisessuali, eterosessuali e pedofilia.

 Ad onor del vero bisogna altresì aggiungere che il Senatore Carlo Giovanardi, primo firmatario dell’emendamento, ha affermato trattarsi di un refuso su cui è stata condotta una calunniosa polemica condotta in perfetta malafede (cfr. http://www.carlogiovanardi.it/sito/modules.php?name=News&file=print&sid=2603).

Ad onor del vero bisogna anche dire che trattasi di un refuso che compare curiosamente ben 5 volte, espressione, evidentemente, di una certa sciatteria redazionale. A questo si aggiungono ulteriori riferimenti come l’inserimento dell’incesto dinastico (1.111); del lesbismo militante (1.112); piuttosto che la fede calcistica (2.40);  o definizioni come quella all’emendamento 1.204 a firma Malan “Ai fini della presente legge, per ”omofobia” e ”transfobia” si intende la irragionevole paura, con conseguente condotta aggressiva, nei confronti delle parole che iniziano per ”orno” e ”trans” e dei concetti, cose, azioni e qualità che esse indicano” (emendamenti consultabili a: http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=ListEmendc&leg=17&id=41977)

[38] http://www.lanuovabq.it/it/articoli-negri-legge-omofobia-si-va-verso-il-totalitarismo-6952.htm

[39] S. Romano – B. Romano, La chiesa contro. Dalla sessualità alla eutanasia tutti i no all’Europa moderna, Longanesi, 2012, pag. 81.

[40] Sempre http://www.lanuovabq.it/it/articoli-negri-legge-omofobia-si-va-verso-il-totalitarismo-6952.htm

[41] Ci si permette di rimandare a https://www.articolo29.it/2013/legge-contro-lomofobia-e-la-transfobia-il-coraggio-mancato-e-loccasione-perduta/

[42] Giovi qui ricordare quanto in Cass. Pen. Sez I 30 settembre 1993, in Cass. Penale 1995 pag. 686: “la ratio delle due leggi [Reale e Mancino] si identifica e le comuni proibizioni si dirigono entrambe ad impedire che le ideologie concernenti il germe della sopraffazione o enunciazioni filosofico-politico sociali (quali il primato della razza, la purezza delle razze) conducano a discriminazioni aberranti, con il pericolo che ne derivi odio, violenza e persecuzione”;

[43]Cass. Pen. Sez. I sentenza n. 341 del 28 febbraio 2001 in Dir. Imm. e cittadinanza, n. 2 2002, pag. 172: il Supremo Collegio, nel  caso de quo, si trovava a giudicare circa l’attività di una associazione denominata “Base autonoma” avente lo scopo di difendere la razza bianca ed ariana e di contrastare l’ingresso in Italia di persone appartenenti ad altre razze. La difesa degli imputati riteneva che le manifestazioni del pensiero in materia di razza, differenze razziali, superiorità di una razza rispetto alle altre non potessero essere sanzionate penalmente in quanto tutelate dall’art. 21 Cost. richiamando le teorie elaborate da Fichte e poi fatte proprie dal nazismo. Come si vede la Cassazione applica la norma di cui all’art. 3 della Legge Reale la quale per l’appunto espressamente prevede la punizione di idee aventi ad oggetto una discriminazione fondata sul concetto di superiorità della razza.

[44] Di fatto riprendendo quanto la Corte costituzionale aveva elaborato nella decisione n. 188 del 1975 in relazione all’art. 403 c.p. ritenendo che “esiste un limite al diritto alla libera manifestazione del pensiero derivante da una garanzia costituzionale accordata al bene protetto, costituzionalmente rilevante, individuato nel sentimento religioso quale vive nell’intimo della coscienza sia individuale che di gruppi, sicchè non illegittimamente la norma riduceva la portata applicativa della libertà di manifestazione del pensiero nell’ambito di una reciproca delimitazione tra esigenze entrambe degne di tutela in relazione a un concetto di vilipendio punibile che non è discussione o critica anche vivace e polemica ma contumelia, scherno, offesa fine a se stessa, ingiuria al credente e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia il fenomeno religioso” in G. Lattanzi – E. Lupo, Codice penale Vol. VIII, 2010, Giuffrè, pag. 529.

[45] Cass. Pen. 7 maggio 2008, n. 37581 Mereu.

[46] Cass. Pen. Sez. I, 13 marzo 2012 n. 20508

[47] Ibidem

[48] Ibidem

[49] http://www.ilga-europe.org/home/publications/reports_and_other_materials/rainbow_europe

[50] Giovi richiamare in tal senso anche la sentenza Feret c. Belgio ove si legge per l’appunto “In linea di principio si può considerare necessario, nelle società democratiche, sanzionare o anche prevenire tutte le forme d’espressione che fanno propaganda, incitano, promuovono o giustificano l’odio fondato sull’intolleranza” in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/euroscopio/strasburgo/0008_strasburgo.pdf

[51] In tal senso P. Tanzarella, La propaganda d’odio razziale nel discorso pubbico. Alcune riflessioni, in La condizione giuridica di Rom e Sinti in Italia, Tomo I, a cura di P. Bonetti, A. Simoni, T. Vitale, Giuffrè, 2011, pag. 696.

[52] K. R. Popper, Tolleranza e responsabilità intellettuale, in Saggi sulla tolleranza, a cura di S. Mendus e D. Edwards, Il Saggiatore, 1987, pag.30

[53] L. G. Scarman, La tolleranza e la legge, in Saggi sulla tolleranza, a cura di S. Mendus e D. Edwards, Il Saggiatore, 1987, pag.70[whohit]MORASSUTTO Mexico [/whohit]

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