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Luci ed ombre di un recente provvedimento del Tribunale di Palermo

2015-02-15 10.02.44La decisione del Tribunale di Palermo del 15 aprile u.s. ha destato l’interesse dei media ed ha suscitato opposte reazioni, non solo tra i giuristi. La decisione è nota: a seguito della separazione di una coppia di donne, il Tribunale ha disciplinato gli incontri tra la madre sociale o comadre ed i figli. Si tratta di un vero e proprio diritto di visita. L’Autore analizza la decisione, con rilievi critici sotto il profilo della legittimazione attiva della comadre e del Pubblico Ministero, rilevando le criticità della difficile emersione giuridica di un legame non solo affettivo alla luce del superiore interesse del minore.

di Geremia Casaburi*

 La decisione

Il  decreto del Tribunale di Palermo del 15 aprile 2015 qui pubblicato, ha destato l’interesse dei media e, come sempre più spesso accade in materie sensibili (viene da dire eticamente) come quelle affrontate, ha suscitato opposte reazioni, non solo tra i giuristi.
La decisione è ormai nota: a seguito della rottura di una coppia omosessuale (due donne), il Tribunale ha disciplinato gli incontri tra una delle partner – qualificata madre sociale (ma è in uso anche il neologismo comadre) – ed i figli (biologici) dell’altra. Si tratta di un vero e proprio diritto di visita, e del resto è stata fatta espressa applicazione degli artt. 337 bis e ter del codice civile, nel testo introdotto dal d.lgs 154\2013 (si tratta comunque delle disposizioni sull’affido condiviso, già contenute negli artt. 155 ss cod. civ., ed a loro volta introdotti dalla l. 54\2006; tali disposizioni, inserite nell’ambito della disciplina della separazione, erano però applicabili anche al divorzio e alla famiglia di fatto in crisi, rectius ai figli nati da genitori non coniugati, come espressamente disponeva l’art. 4 l. 54\2006 cit.).
I giudici siciliani hanno però offerto di tali disposizioni una lettura “costituzionalmente orientata”, ritenendo in particolare configurabile un diritto del minore –non dell’adulto- ad intrattenere e conservare rapporti significativi non solo con gli ascendenti (per i quali opera ormai l’art. 317 bis cod. civ.) ed i parenti, ma anche con terzi – al di là di ogni legame biologico – con i quali appunto abbiano di fatto consolidato siffatti rapporti significativi.
Il riferimento è, in primo luogo, al partner –coniuge o compagno\a- del genitore con cui vivono.
Nel caso di specie si è ritenuto che sussistesse la prova dell’esistenza di tali rapporti: infatti i due bambini (di cui non è precisata l’età) vivevano con la coppia dalla nascita, e riconoscevano ad entrambe le donne il ruolo di mamma; al riguardo vi è stata anche una c.t.u., le cui conclusioni sono state riprese in ordinanza.
Sotto il profilo probatorio, del resto, vi era il dato significativo che – qualche anno prima – le due donne, in primis evidentemente la madre biologica – avevano (pur inutilmente) adito il tribunale per i minorenni di Palermo, per conseguire il riconoscimento della potestà genitoriale (ora responsabilità) in capo ad entrambe.

La legittimazione attiva: l’esclusione di quella della madre sociale

Prima di giungere ad una così impegnativa decisione di merito – in fatto ed in diritto – i giudici aditi hanno però dovuto affrontare e superare diverse questioni processuali, in primo luogo quanto alla competenza funzionale del giudice ordinario e quella territoriale dell’ufficio adito.
Il profilo più rilevante – e come dirò strettamente legato alla statuizione sulla competenza funzionale – concerneva però la stessa legittimazione attiva della ricorrente, la madre sociale.
Il Tribunale, infatti, non le ha riconosciuto, e non poteva riconoscerle, un vero e proprio diritto a conservare rapporti significativi con i figli dell’altra.
Un tale diritto, a stretto rigore, non compete neppure al genitore biologico\legale del figlio (in quanto quest’ultimo è nato da genitori coniugati, ovvero – se nato fuori dal matrimonio- sia stato riconosciuto).
Il principio di tutela esclusiva del superiore interesse del minore, anche di fonte sovranazionale (e qui è davvero inutile ricordare atti e convenzioni di riferimento, richiamate in parte dallo stesso provvedimento in esame) comporta che è il minore, e solo il minore, ad avere diritto alla famiglia, in primo luogo quella biologica (cfr. l’art. 1 l. adozioni, 184\1983); con l’ulteriore conseguenza che, in caso di dissoluzione della famiglia stessa (che potrebbe del resto non essersi mai effettivamente costituita) egli ha il diritto – ora sancito dall’art. 337 bis cit. cod. civ. – a conservare «un rapporto equilibrato e continuativo» con ciascuno dei genitori (è il principio, fin troppo affermato, della bigenitorialità).
In tale prospettiva il diritto del genitore non collocatario o non affidatario (nei casi, in teoria residuali, di affido esclusivo), non è un vero diritto soggettivo (se non nelle sue manifestazioni verso i terzi) ma un munus, una funzione non priva di profili pubblicistici (o comunque soggetta a controlli pubblicistici).
Si tratta di dati universalmente acquisiti.
Un tale munus -nel silenzio della legge– non poteva essere tout court riconosciuto anche al partner del genitore biologico con cui il figlio vive.; né il tribunale ha ritenuto che potesse riconoscersi a tale partner una sorta di potere di rappresentanza del figlio medesimo, idoneo a conferirgli la legittimazione attiva.
Da qui il diniego, nel caso di specie, di quella della ricorrente.

Il modello (rifiutato) dell’art. 317 bis. cod. civ.

Il Tribunale aveva forse una alternativa, offerta dalla applicazione analogica – certo “stiracchiata”, ma non impossibile – dell’art. 317 bis cit., pure introdotto dal d.lgs 154\2013.
Tale norma sancisce il diritto dei nonni a mantenere rapporti con gli ascendenti (1° c.), prevedendo la possibilità, per l’ascendente cui è impedito l’esercizio di tale diritto, di ricorrere al giudice, per l’adozione dei provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore medesimo.
Si applica, recita il 2° c. dell’art. cit., l’art. 336, 2° c. cod. civ., che disciplina il procedimento camerale in materia di ablazione e limitazione della responsabilità genitoriale.
Il Tribunale di Palermo, come accennato, ha appunto evitato di ricorrere a tale disposizione, alla stregua, evidentemente, della analogia iuris.
Eppure, a ben vedere, si tratta della fattispecie più vicina a quella in esame.
I nonni – ma la norma è verosimilmente riferibile anche agli altri stretti congiunti, es. gli zii (richiamati dall’art. 337 ter cit.) – sono sicuramente familiari del minore, i più stretti anzi dopo genitori e fratelli, ma qui prevale palesemente la dimensione affettiva, più che quella biologica del legame di sangue (può forse richiamarsi l’art. 12 l. adozioni, che richiama i parenti entro il 4° grado-per i fini indicati dalla l. medesima, sempre però che abbiano mantenuto rapporti significativi con il minore).
Sicuro indizio di ciò è il richiamo all’interesse del minore, ed anche ai provvedimenti de potestate (tanto per ricorrere ad una espressione ormai non più attuale giuridicamente corretto ed attuale, ma di sicura comprensione); l’art. 317 bis, del resto, è formulato atecnicamente (non senza profili “di propaganda”) perché sicuramente quello dei nonni non è un vero diritto soggettivo: se lo fosse, infatti, perderebbe di significato il resto della disposizione.
La prova di ciò è rappresentata dal fatto -già evidenziato– che un diritto alla conservazione dei rapporti con il minore non fa capo neppure ai genitori.
Il diritto, ancora un volta, è solo del minore, solo che qui è attribuita specificamente ai nonni (e, credo, agli altri congiunti) una specifica legittimazione attiva, funzionale comunque all’interesse\diritto del minore medesimo.
In tal senso, molto chiaramente, anche la giurisprudenza di legittimità più recente, cfr. Cass. 21 aprile 2015, n. 8100 che (pur nell’ambito di una decisione di inammissibilità in rito), ha confermato la correttezza della decisione di merito che aveva escluso il diritto di visita dei nonni in conflitto con i genitori di un minore, che – altrimenti – rischiava di trovarsi al centro di un conflitto interfamiliare, con conseguente intuibile pregiudizio.
Certo, ricomprendere, nella disposizione in esame, anche quei parenti di fatto che sono gli ex partner dei genitori biologici sarebbe stata forse una forzatura.
Verosimilmente, al riguardo, sarebbe stato necessario un passaggio per la Consulta.
Il tribunale di Palermo però, come detto, ha evitato questa scelta, che pure sarebbe stata meno disagevole di quella effettivamente compiuta, cfr.infra.
La spiegazione (ovviamente inespressa) sta forse nella circostanza che, così ragionando, il tribunale adito avrebbe dovuto declinare la propria competenza funzionale, sussistendo indiscutibilmente quella del tribunale per i minorenni, ai sensi dell’art. 38, 1° c. disp. att. cod. civ., nel testo novellato dall’art. 96 d.lgs 154\2013.
Si tratta di una disposizione forse recessiva ed in controtendenza, rispetto al ridimensionamento delle competenze del giudice minorile, ad opera del medesimo decreto e della precedente l. 219\2012, ma tant’è.
Il tribunale di Palermo ha fortemente voluto affermare la propria competenza, con il singolare effetto che –nella sua prospettiva– la salvaguardia del rapporto tra nonni e nipoti è sostanzialmente e processualmente più disagevole (essendo ancorato alla prospettiva del pregiudizio per il minore, ai sensi degli art. 330 ss. cod. civ.; per tacere della più diluita presenza sul territorio dei tribunali per i minorenni) di quella del rapporto tra minori ed ex partner del genitore.
Un risultato, mi sembra, assolutamente paradossale, e che già di per sé fa revocare in dubbio la correttezza della scelta (quasi di politica legislativa!) compiuta dai giudici palermitani.

La dubbia legittimazione del Pm

Il provvedimento in esame compie però un ulteriore e discutibilissimo passaggio ulteriore.
Infatti – a fronte del difetto di legittimazione passiva della comamma o madre sociale (questi neologismi orwelliani!) – avrebbe dovuto rigettare il ricorso.
Invece no: il § 4 si chiude con un autentico colpo di scena processuale.
Il Tribunale prosegue nell’esame del merito, quindi tiene fermo il ricorso originario, nonostante la scomparsa processuale della ricorrente, in quanto il Pm lo ha fatto proprio, nel superiore interesse del minore, beninteso.
Il Pm, continua sbrigativamente il tribunale (nel contesto di un provvedimento che è tutto meno che sbrigativo), è interventore necessario, ai sensi dell’art. 70 c.p.c., quale integrato da Cort.Cost. 214\1996, e d’altronde – alla stregua della norma di chiusura di cui all’u.c. del medesimo art. 70 cit., può intervenire in qualunque causa in cui ravvisa un pubblico interesse.
Il lettore che abbia una qualche infarinatura di diritto processuale civile qui resta perplesso: e aggiungo che ancor più resta perplesso chi, bazzicando il diritto di famiglia e delle persone, non ritiene che il salvifico, pavloviano richiamo all’interesse del minore possa giustificare qualunque decisione, qualunque misura anche extra e contra legem (qui si annida, del resto, un peccato originario dei giudici minorili, che purtroppo talora contagia anche quelli ordinari, che pure dovrebbero essere più avvezzi al rispetto, se non alla conoscenza, delle norme processuali).
Il tribunale di Palermo ha quindi compiuto una inedita e inaudita “novazione” del ricorso originario sul versante soggettivo, della legittimazione attiva, il che già di per sé è – perlomeno – assolutamente discutibile.
La soluzione “ordinaria” sarebbe stata piuttosto quella del rigetto del ricorso, eventualmente subito riproposto dal PM, sollecitato dal medesimo tribunale.
Oltretutto non è assolutamente chiaro quale sia il ruolo (posto che l’abbia: il Tribunale sul punto tace), nel giudizio “novato” sul lato soggettivo, della comadre originaria ricorrente.
C’è però di più: il “nuovo” legittimato attivo (viene da pensare al coniglio che il prestigiatore cava dal cappello a cilindro) tale non è affatto, per chiara previsione normativa (che dovrebbe essere ben nota alla sezione famiglia del tribunale di Palermo…).
Sicuramente il Pm, alla stregua di tale disposizione (2° c.), è interventore obbligatorio nei giudizi che comportano l’adozione di provvedimenti relativi ai figli, tenuto appunto conto di quanto statuito da Corte Cost. 25 giugno 1996, n. 214, Foro it, 1997, I, 61, richiamata dal provvedimento in esame.
In tali cause rientrano quindi anche quelle proposte ex art. 337 bis ss. cod. civ.
Il ruolo del Pm è stato del resto salvaguardato e rinforzato, in presenza di minori, anche dal recente art. 6 l. 162\2014, che ha introdotto la c.d. negoziazione assistita di separazione e divorzio.
Il Pm interventore necessario, però, per costantissima giurisprudenza, non può a sua volta proporre autonomamente tali giudizi, e d’altronde è ridotta anche la sua legittimazione ad impugnare (e ciò è tanto più vero per il Pm intervenire facoltativo, ai sensi dell’u.c. art. 70 cit., il cui richiamo è davvero incongruo).
La giurisprudenza al riguardo è granitica, cfr ex plurimis Cass. 13 febbraio 2013, n. 3502, Foro It., 2013, I, 1464; più in generale cfr.Cass. 13 novembre 2008, n. 27145, id., 2009, I, 35.
de potestate, ex art. 330 e 333 cod. civ. (altro discorso, che qui non interessa, attiene alle domande de potestate nell’ambito dei giudizi di separazione e divorzio, attratte alla competenza del tribunale ordinario, ex art. 38 cit. disp., att. cod. civ.).
Nella specie però, lo si è visto, il provvedimento in esame ha escluso la riconducibilità della controversia per cui è causa alla decadenza\limitazione della potestà genitoriale, ex art. 330 e 333 cod. civ., anche attraverso l’art. 317 bis cit. cod. civ.
Da qui allora, a mio avviso, un vizio radicale della decisione in esame, che ne inficia la portata, anche per i profili sostanziali.

Una diversa decisione milanese

Ben diversa la strada percorsa da Trib. min. Milano, 20 ottobre 2009, qui pubblicata, nonché in Famiglia e minori 2010, 6, 72, con osservazioni di DE NICOLA (nonché su questa rivista, con osservazioni di GATTUSO).
Si tratta di una fattispecie del tutto corrispondente a quella di cui al provvedimento palermitano.
Anche nel caso milanese, infatti, vi era stato un procedimento – ma ex art. 317 bis (nel testo allora vigente)- promosso dalla donna ex convivente della madre biologica di minori (nati da PMA con il seme fornito da un comune amico), con i quali però aveva consolidato un profondo rapporto; ella ne chiedeva pertanto l’affidamento condiviso, pur se con collocamento presso la madre biologica, nonché la determinazione dei tempi e delle modalità di visita e di permanenza presso di sé.
Il giudice minorile -con un primo provvedimento- ne aveva però negato la legittimazione attiva, sul rilievo che «la ricorrente non era titolare del diritto potestativo di ottenere una decisione nel merito in quanto è pacifico che la titolarità della potestà spetti unicamente ai “genitori”, presupponendo un rapporto di filiazione, biologica o legale (si vedano le ipotesi di adozione), tra i soggetti sicché, così come non è portatrice della “responsabilità genitoriale” quale insieme dei poteri – doveri tesi ad assicurare il benessere materiale e morale del minore, neppure è legittimata a richiedere ed ottenere un provvedimento che sia espressione dell’esercizio della potestà genitoriale».
Fin qui la decisione corrisponde a quella palermitana.
Ben più correttamente, però, il Tribunale dei minorenni lombardo aveva trasmesso gli atti al Pm, che aveva autonomamente chiesto, essendo sicuramente legittimato, di procedersi ai sensi degli artt. 330 e ss. c.c. a tutela dei minori.
Si dirà poi della decisione assunta dal provvedimento ora richiamato.

Il merito della decisione: due bambini, due madri, un padre mancante. Verso l’irrilevanza giuridica della condizione omosessuale della coppia “genitoriale”

Si diceva dell’enfasi dei media sulla circostanza che i due bambini, figli biologici di una delle due partner, sono cresciuti anche con l’altra, che hanno considerato come una vera e propria madre, o-appunto- comadre, senza che ne sia loro derivato alcun pregiudizio, come accertato dalla C.t.u..
Vale forse la pena rilevare che – a fronte di una madre “di troppo”- qui c’è un padre di meno.
I bambini, infatti, sono nati da procreazione medicalmente assistita eterologa, non è dato sapere se prima del 2004, allorché era ancora lecita, o nella vigenza della l. 40\2004, che la vietava, cfr. art. 4, 3° c.
Poco male: la questione è del tutto irrilevante, e d’altronde quell’assurdo divieto è caduto, in forza di Corte Cost. 10 giugno n. 162, Foro It., 2014, I, 2374, con osservazioni di chi scrive, cui si rinvia per approfondimenti.
I bambini sono quindi cresciuti nell’ambito di una coppia di fatto omosessuale.
Questo, di per sé, non è fonte di pregiudizio alcuno (né, come detto, lo è stato in concreto: ed anzi era emerso che per i bambini entrambe le donne rivestivano il ruolo materno), come correttamente rilevato dai giudici palermitani.
Questi però richiamano a supporto un precedente autorevole ma non del tutto pertinente, Cass. 11 gennaio 2013, n. 601, Foro it., 2013, I, 1193, con nota di chi scrive.
Si tratta di una pronuncia processuale, che infatti ha dichiarato inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso per cassazione – per violazione di legge – avverso la sentenza di separazione giudiziale dei coniugi che aveva confermato l’affidamento esclusivo di un minore alla madre; come mero obiter la S.C. ha aggiunto che quest’ultima intratteneva una relazione con la convivente, circostanza irrilevante, quanto all’affidamento «in mancanza di concreti riferimenti alle ripercussioni negative per il minore stesso, sul piano educativo e della crescita, in ragione del suo inserimento in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale».
E’ semmai la giurisprudenza di merito, con sempre maggior frequenza, ad ammettere l’affidamento di un minore ad un genitore omosessuale (rectius, a rilevare l’irrilevanza di per sé di tale condizione personale del genitore), tanto a partire almeno da Trib. Napoli 28 giugno 2006 (est. Casaburi), Foro it., 2007, I, 138; Giur. merito, 2007, 1572, con nota di Fava; Famiglia e dir. 2007, 621, con nota di IANNACCONE.
Successivamente la giurisprudenza ha ulteriormente aperto la filiazione alle coppie omosessuali (anche nella prospettiva di un riconoscimento giuridico delle coppie in questione).
Possono richiamarsi, non esaustivamente, Trib. minorenni Bologna 31 ottobre 2013, Foro It., 2014, I, 59, che ha disposto l’affido etero familiare di un minore ad una coppia omosessuale; Trib. minorenni Palermo 9 dicembre 2013, ibid., I, 1132, che ha disposto l’affido preadottivo di un minore ad una coppia omosessuale, e soprattutto Trib. minorenni Roma 30 luglio 2014, ibid., I, 2743.
Quest’ultimo provvedimento (forse forando il dato legislativo) ha affermato
Posto: a) che l’adozione in casi particolari, di cui alla l. 184/83, art. 44, 1º comma, lett. d), presuppone non una situazione di abbandono dell’adottando, ma solo l’impossibilità di affidamento preadottivo, di fatto o di diritto, e b) che non costituisce ostacolo, di per sé, la condizione omosessuale dell’adottante, può farsi luogo a siffatta forma di adozione nei riguardi di una minore, nella specie in tenera età, da parte della compagna stabilmente convivente della madre, che vi ha consentito, essendo inoltre stata accertata, in concreto, l’idoneità genitoriale dell’adottante e quindi la corrispondenza all’interesse della minore (nella specie, convivente dalla nascita con le due donne, che ha sempre considerato come propri genitori).
Il principio è stato poi temperato da Trib. min. Bologna 10 novembre 2014, id., 2015, I, 1078, che (più correttamente) ha ritenuto «rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della l. 4 maggio 1983, n. 184, diritto del minore ad una famiglia , in riferimento agli art. 24 e 111 cost., nella parte in cui non consentono al giudice di valutare, nel caso concreto, se risponda all’interesse del minore il riconoscimento in Italia della sentenza straniera che abbia pronunciato la sua adozione in favore del coniuge dello stesso sesso del genitore, indipendentemente dal rilievo che quel matrimonio, contratto all’estero, non abbia prodotto effetti nel nostro Paese, in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 117 Cost.».
Merita di essere infine segnalato App. Torino 4 dicembre 2014, ibid., I, 1078 che ha disposto la trascrizione, nei registri di stato civile, perché non contrario all’ordine pubblico, l’atto di nascita formato all’estero (nella specie ini Spagna) di un bambino che viene indicato come figlio di due donne (nella specie una cittadina spagnola e l’altra italiana: il bambino era nato a mezzo di procreazione assistita eterologa, da una delle due, con gameti donati dall’altra).
Sullo sfondo, evidentemente, la giurisprudenza sovrannazionale (specie della Corte di Strasburgo) sul divieto di discriminazioni, anche quanto alla filiazione.
Cfr. così Corte eur. diritti dell’uomo 19 febbraio 2013, X c. Austria, Nuova giur. civ., 2013, I, 519, con osservazioni di FATTA e WINKLER), secondo cui costituisce violazione del comb. disp. artt. 8 e 14 Conv. la previsione in materia di adozione di minori di una norma che disciplina diversamente le condizioni di esercizio della potestà genitoriale per le coppie di fatto dello stesso sesso e per quelle di diverso sesso; la disparità di trattamento è discriminatoria, poiché gli status giuridici di una coppia di fatto omosessuale e di una coppia di fatto eterosessuale sono comparabili fra loro, mentre il governo resistente ha mancato del tutto di dimostrare che possa cagionare nocumento ad un bambino essere allevato da una coppia dello stesso sesso o da due madri o da due padri .
Sotto tale profilo il provvedimento palermitano è apprezzabile, e ben si inserisce nel filone giurisprudenziale sopra richiamato.

La soluzione palermitana

In questo problematico contesto si inserisce la decisione palermitana, che ha affermato un principio di diritto che può essere così sintetizzato, e che d’altronde è stato già anticipato in punto di legittimazione processuale:
Il minore ha il diritto di conservare un rapporto stabile e significativo con l’ex partner del proprio genitore, da intendersi come genitore sociale, con il quale, pur in mancanza di un legame biologico, abbia consolidato saldi legami affettivi (al punto da fondarne l’identità personale e familiare), diritto che non può essere fatto valere da costui, bensì dal pubblico ministero.
Tanto ai sensi dell’art. 337 ter, 1° c., cod. civ.
In prospettiva ne risulta confermata – con immediata ricaduta anche nel diritto interno – la necessità di tutela e salvaguardia della famiglia intesa in senso anche non strettamente giuridico, ma come comunità fondata su stabili relazioni di fatto.
Fermi i rilievi in rito sopra esposti, occorre riconoscere che si tratta di una decisione di ampio respiro.
Invece il provvedimento milanese sopra richiamato, pur corretto in rito, muovendosi nell’alveo ristretto degli artt. 330 ss cod. civ., era poi giunto a rigettare il ricorso della comadre, ritenendo che – nonostante i sicuri vincoli affettivi tra questa e i figli dell’ex partner, non vi fosse alcun pregiudizio per i minori.
Una soluzione in concreto inappagante, anche e soprattutto per i minori, soprattutto dimentica che – in una ottica di normalità – questi ultimi hanno tutto l’interesse, in primis affettivo, a conservare i rapporti significativi in atto, anche con una persona che non è uno stretto congiunto (in diritto: ma non in fatto).

Famiglie arcobaleno, ricomposte o trasparenti?

La decisione qui in commento è, del tutto verosimilmente, la prima in Italia a far emergere giuridicamente le famiglie arcobaleno, composte da una coppia omosessuale, ma anche da minori (o almeno è la presenza di questi che rende sensibile la questione).
Questi possono essere figli biologici (nati nel o fuori dal matrimonio: ma è dato irrilevante) dell’uno o dell’altro componente della coppia, ma possono essere anche inseriti “ab origine”, per le più diverse cause, in quella famiglia (tale essendo configurabile quella omosessuale, ex art. 2 Cost. cfr. Corte Cost. 15 aprile 2010, n. 138, Foro it., 2010, I, 1361, nonché le pronunce della Cassazione pubblicate in questa rivista).
Nel caso di specie si verte appunto in tale seconda ipotesi: i bambini sono nati, come pure accennato, da una PMA eterologa portata a termine da una delle due partner (la madre biologica, appunto) , ma nell’ambito di un progetto di genitorialità concepito e realizzato da entrambe.
Si noti che la vicenda decisa da App. Torino 4 dicembre 2014 concerneva una situazione ancora più complessa: il minore di cui si trattava era stato partorito da una delle comadri (“ufficialmente” tale per la legge spagnola), ma l’embrione era stato formato con ovuli donati dall’altra, a sua volta comadre anche in senso biologico (a conferma ulteriore della molteplicità delle fattispecie che possono presentarsi).
Qui il vuoto giuridico è totale: l’interprete, e drammatica è la situazione del giudice, davvero non ha alcun immediato parametro di riferimento (a ulteriore conferma della arretratezza anche culturale del nostro Paese).
Nondimeno vi sono dei riscontri, pur non strettamente normativi.
Mi riferisco alla prima ipotesi, quella della famiglia costituita da una coppia (omosessuale, ma anche eterosessuale, quest’ultima di fatto o matrimoniale: ed è anzi l’ipotesi più comune) e dai figli “di primo letto” dell’uno o dell’altro componente, “cresciuti” però da entrambi, condividendo –ma solo di fatto- la responsabilità genitoriale
Si tratta delle famiglie ricomposte, che costituiscono una realtà sociale sempre più diffusa nel nostro Paese, come del resto in tutti quelli occidentali.
Le questioni giuridiche che tali famiglie pongono, quanto ai minori, sono esattamente le stesse di quelle delle famiglie arcobaleno con figli “comuni” ab origine , come appunto nel caso di specie.
Beninteso: arcobaleno, monocrome, bicrome o ricomposte che siano, il destino è comune: sono tutte famiglie trasparenti, per un legislatore (volutamente) cieco, più che indifferente.
L’unico possibile riferimento normativo (al di là delle generiche disposizioni anche regolamentari sulla famiglia anagrafica) sembra anzi far propendere per un atteggiamento di rifiuto delle famiglie ricomposte; si tratta (ora) dell’art. 337 sexies, 1° c. cod. civ., che prevede la revoca dell’assegnazione della casa familiare (nella crisi della famiglia legittima o di fatto) qualora l’assegnatario (non proprietario) abbia contratto nuovo matrimonio o vi conviva con altri more uxorio.
Il legislatore del 2006 (la norma era contenuta in origine nell’art. 155 quater cod. civ.) ha evidentemente ritenuto che contrastasse tout court con l’interesse del minore la sua convivenza con il genitore collocatario\affidatario e il suo nuovo partner.
Un tale assurdo è stato comunque sanzionato dall Corte Costituzionale, sia pure con una sentenza interpretativa di rigetto, cfr. Corte Cost. 30 luglio 2008, n. 308, Foro it., 2008, I, 3031, con osservazioni di chi scrive.
Ad onta del legislatore, però, in tema di famiglia ricomposta soccorrono in primo luogo le esperienze di altri ordinamenti, e quindi la riflessione dottrinale, con evidenti ricadute anche sulle questioni che qui vengono in rilievo.

La difficile emersione giuridica di un legame non solo affettivo

Il fenomeno è stato infatti trattato sotto il profilo giuridico soprattutto in ambito angloamericano.
Da qui il riferimento alle stepfamilies, (con conseguente riferimento anche alla stepmother, allo stepfather, allo stepchild; nel nostro Paese sono in uso anche le espressioni “famiglia ricostituita” “famiglia allargata” “seconda famiglia”, “famiglia rinnovata”, “famiglia pluriematica”, “famiglia putativa”, “comunità familiare”).
L’orrenda espressione famigliastra non sembra invece più in uso (come del resto i patrigni e le matrigne sembrano relegati solo al mondo delle favole).
E’ un dato obiettivo che, di norma, la stessa convivenza fa nascere un legame in primo luogo affettivo tra un partner ed i figli dell’altro: il primo assume un ruolo di cogenitore, anche sotto il profilo delle responsabilità (non escluso il mantenimento).
D’altronde il legame si forma anche tra i figli dell’uno e quelli dell’altro partner, in una versione moderna della famiglia allargata.
Tali legami, per quanto saldi, sono però solo di fatto, nel senso che non hanno alcuna rilevanza giuridica.
Per la nostra (miope) legge i figli di un partner sono dei perfetti estranei per l’altro partner, fosse pure coniuge, il che poi può porre anche minuti e meno minuti problemi pratici, nella vita quotidiana.
La responsabilità genitoriale -giova ribadirlo- compete solo ai genitori biologici o adottivi, sicché il partner in oggetto non ha né il diritto di interferire, ad es., nelle scelte educative relative a quel minore, né tanto meno ha doveri nei suoi confronti, in primo luogo quanto al suo mantenimento.
D’altronde, fino alla l. 219\2012, i figli ancora naturali non avevano un rapporto giuridicamente rilevante di parentela con i congiunti dei loro genitori: un assurdo caduto solo con il nuovo testo dell’art. 74 cod. civ.
Non va trascurato poi che – di norma – i figli conviventi con un partner (e il suo campagno\a o coniuge) hanno anche un altro genitore, che (sempre di norma) l’affido condiviso, conservando intatta la responsabilità genitoriale.
Il rapporto di filiazione, quanto ai diritti e doveri che lo caratterizzano, e tanto più all’esito delle novellazioni recenti, è infatti neutro rispetto alle vicende-matrimoniali o meno- dei genitori, cfr. art. 315 nuovo testo cod. civ..
Vi è quindi un possibile conflitto tra il genitore non convivente e il partner, pur convivente, dell’altro genitore, quello affidatario\collocatario.
La realtà può essere più complessa, e d’altronde l’affetto appartiene ad una dimensione non giuridica.
Inoltre, al di là dei possibili ed anzi frequenti contrasti tra l’altro genitore e la famiglia in cui il minore è inserito, vi è la possibilità che esso manchi, in quanto morto, sconosciuto (ma si pensi anche alla PMA eterologa, come d’altronde avvenuto nella specie), decaduto dalla responsabilità genitoriale, semplicemente “assente”: si tratta di ipotesi, frequenti, in cui il ruolo genitoriale finisce per essere svolto proprio dal partner del genitore affidatario\collocatario.
In ogni caso, ed è forse l’ipotesi più diffusa (e tranquillizzante) il minore forma e consolida un rapporto affettivo – e senza particolari problemi –con il genitore con cui convive, con l’altro, ma anche con il partner del primo.
L’un legame non pregiudica gli altri, e non vi è ragione di opporre al riguardo barriere ed ostacoli giuridici che – in ultima analisi – finiscono solo per danneggiare, in concreto, quell’interesse del minore che, in astratto, si proclama solennemente come l’unico valore da tutelare incondizionatamente.
Che accade però quando anche la famiglia ricomposta si scompone, vale a dire entra in crisi?
A rigore, il partner “non” genitore biologico deve scomparire dalla vita del minore.
In primo luogo non ha doveri nei suoi confronti, rectius continua a non averne (Cass. 4 dicembre 2012, n. 21675, Foro It., 2013, I, 1193, con osservazioni di chi scrive, ha affermato- in tema di separazione giudiziale- che sono ripetibili le somme versate da uno dei coniugi, in forza del provvedimento presidenziale poi revocato dal giudice istruttore, per il mantenimento di un figlio non comune ad entrambi i coniugi, ma del solo beneficiario dell’assegno; nella specie vi era anzi stata una condotta dolosa dolo della donna, che aveva indotto in errore il presidente).
A maggior ragione egli non ha diritti che del resto – come prima osservato – non sono mai dell’adulto, ma solo del minore, il quale però si vede privato (forse nuovamente) di una figura di riferimento di grande rilievo (con cui, pure, non ha legami di sangue).
Si tratta di un assetto insostenibile, e il principale merito del provvedimento in rassegna è stato proprio quello di affermare che il re è nudo, riconoscendo con forza il diritto del minore a conservare i rapporti affettivi con l’ex partner (compagno\a, come nella specie, ma anche coniuge) del proprio genitore biologico, in quanto genitore sociale, attraverso la previsione di modalità di periodici incontri (in sostanza il c.d. diritto di visita).

La posizione della dottrina

L’ordinamento giuridico italiano, come più volte detto, non riconosce però alcuna rilevanza al rapporto in questione.
Diversa la posizione della dottrina, che muove dal riconoscimento – anche giuridico – dell’esistenza di una pluralità di modelli familiari.
Così RESCIGNO, Le famiglie ricomposte: nuove prospettive giuridiche, id., 2002, I; ZANATTA, Le nuove famiglie, Bologna, 2003, «la nozione unitaria di famiglia deve oggi cedere all’esigenza di riconoscere una realtà estremamente variegata, e di tener conto, quanto meno, di fatti e situazioni con caratteri di spiccata peculiarità. Una materia che eravamo abituati a pensare quasi come immobile si rivela tra le più esposte alle modifiche e ai cambiamenti».
Tanto anche nella consapevolezza che le famiglie ricomposte pongono delicati problemi giuridici, in quanto possono essere foriere di “complicazioni”. Così CAIULO, Famiglie ricostituite: “puzzle familiari”, Dir., fam. e pers. 2008, 2105: «il riferimento è alla confusione che nei bambini potrebbe causare la contrapposizione tra la pluralità di adulti, aspiranti tutti a rivestire dei ruoli genitoriali, e la dualità che, storicamente e culturalmente, caratterizza i ruoli stessi. Con il rischio che questi minori diventino dei bambini problematici, giacché, come è stato giustamente rilevato, l’indeterminatezza e l’ambiguità dei confini che caratterizzano queste famiglie ha delle rilevanti ripercussioni soprattutto nei confronti dei bambini coinvolti».
Fermo che la soluzione delle problematiche compete, de iure condendo, al legislatore, non manca chi cerca d rinvenire già nel diritto vigente le fondamenta per affermare la responsabilità del partner (coniuge o compagno\a) nei confronti dei figli dell’altro.
Con riferimento alle coppie coniugate DE MAURO, Le famiglie ricomposte, Familia, 2005, 767, ha fatto riferimento agli artt. 143 e 144 cod. civ.; in particolare quest’ultima disposizione prevede che l’indirizzo concordato da entrambi i coniugi può essere attuato da ciascuno; da qui l’affermazione che «le regole organizzative della famiglia ricomposta, al cui interno è presente il figlio nato dal precedente matrimonio, diventino regole della convivenza, il cui rispetto e la cui effettività è demandata ad entrambi i coniugi», con conseguente assunzione anche di responsabilità nei confronti dei figli dell’altro coniuge, in quanto componenti della famiglia, del pari «potrebbe ipotizzarsi che il dovere di assistenza morale e materiale ex art. 143 c.c. nei confronti di un soggetto che è affidatario del figlio, possa estendersi anche nei confronti di quest’ultimo».

La giurisprudenza verso il superamento della genitorialità solo iure sanguinis

In una prospettiva più ampia, la giurisprudenza sta da tempo muovendosi verso il ripudio di una concezione della genitorialità fondata solo sul legame di sangue, val a dire sul fatto biologico della procreazione: quel che rileva è l’esistenza di un progetto genitoriale consapevole, in altri termini è la responsabilità genitoriale.
Anche con riferimento alle azioni di status, sempre di più si abbandona il favor veritatis, a favore di una più intensa tutela del diritto dei minori alla conservazione dell’identità comunque acquisita (al più anche illegittimamente).
I riferimenti sono molteplici: si è detto della recente apertura della Corte Cost. alla PMA eterologa, ma si pensi anche alle sostanziali aperture (imposte dalla corte di Strasburgo) alla stessa – pur formalmente vietata – maternità surrogata, cfr. Corte europea diritti dell’uomo 27 gennaio 2015, Foro It. 2015, IV, 117, nonché 26 giugno 2014, Mennesson, id., , 2014, IV, 561, entrambe con osservazioni di chi scrive e , nella giurisprudenza nazionale,Trib. Varese 8 ottobre-7 novembre 2014, falso e maternità surrogata, id., 2015, II, 54.
Proprio le vicende della PMA eterologa e della maternità surrogata hanno posto in crisi, sotto il profilo giuridico, il detto popolare secondo cui di mamma ce ne è una: ormai, infatti, possono configurarne tre (la committente\sociale, la gestante, la biologica, in quanto donante i gameti); anche una recente vicenda, relativa ad un (fortuito) scambio di embrioni, di cui a Trib. Roma 8 agosto 2014, Foro it., 2014, I, 2935, conferma l’inadeguatezza della prescrizione normativa alla stregua della quale è madre la donna che partorisce il figlio.
A fronte di ciò, evidentemente, l’esistenza di rapporti affettivi (e meritevoli di tutela) tra un partner ed i figli dell’altro appare addirittura tranquillizzante e tradizionale.
Per le azioni di stato può richiamarsi la giurisprudenza di merito che reputa inammissibile l’esercizio dell’azione di impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità da parte di chi abbia proceduto al riconoscimento consapevole della sua non corrispondenza al vero (c.d. riconoscimento di compiacenza), cfr. Trib. Napoli 11 aprile 2013, id., 2013, I, 2040
In una tale prospettiva la netta chiusura di ogni riconoscimento del rapporto tra i minori e il partner del genitore biologico è recessiva ed incomprensibile.
Oltretutto –in una prospettiva di diritto comparato-non può tacersi che in non pochi Paesi stranieri la disciplina è ben diversa.
Così, ad es., va richiamato l’art. 299 (che però è rubricato “patrigno e matrigna”) del Codice civile svizzero (testo introdotto nel 1976): «Ogni coniuge deve all’altro adeguata assistenza nell’esercizio dell’autorità parentale verso i di lui figli e rappresentarlo ove le circostanze lo richiedano».
Cfr., con riferimento alla recente legge belga che ha addirittura introdotto (con riferimento alle comadri) la presunzione di maternità, LECIS COCCU ORTU, La “presunzione di maternità” presto in vigore in Belgio, in questa rivista.

Ancora sulla decisione palermitana: criticità in diritto

Tanto premesso, può allora tornarsi alla decisione palermitana qui in commento che, invero, non contiene alcun cenno alle problematiche sopra esposte, pur essendo incentrata sul diritto del minore alla conservazione dei rapporti affettivi con la comadre.
Il punto debole della decisione è che – troppo attenta ai profili di ampio respiro – non tiene conto di quel che sono pur sempre i limiti della cognizione del giudice ordinario (che non voglia travalicare dalla sua funzione solo giurisdizionale): tanto procedendo ad una troppo affrettata interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 337 bis ss. cod. civ.
Si tratta di disposizioni, tutte,   inequivocabilmente rivolte alla conservazione di rapporti del minore con il suo ambito parentale, in primis i genitori (biologici o adottivi che siano), quindi gli ascendenti, poi gli altri parenti.
Il dato testuale – da cui deve pur sempre muoversi – è inequivoco.
Tuttavia il tribunale ha accertato che il minore aveva in corso un legame significativo con un terzo, ed ha quindi affermato, in diritto, che un tale legame va salvaguardato, essendo irrilevante, al confronto, il profilo meramente biologico della parentela.
Si poneva allora una possibile questione di illegittimità costituzionale, sotto il profilo (credo) degli artt. 2, 3, 29 ,30 Cost., concretamente prospettato nel caso di specie.
Il quesito da sottoporre alla Consulta avrebbe dovuto appunto concernere la mancata ricomprensione, nei soggetti indicati dal codice civile come qualificati ad intrattenere costanti rapporti con i minori, i cogenitori, nel senso sopra delineato.
Il tribunale di Palermo ha invece optato per una scelta diversa- e certo più “forte” (per non dire di effetto), appunto una lettura costituzionalmente orientata delle norme cit.
Tanto alla stregua anche degli atti sovranazionali espressamente richiamati, in particolare dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, quale interpretata dalla Corte di Strasburgo.
L’operazione ermeneutica compiuta è però a mio avviso discutibile: come ben indicato dallo stesso provvedimento, infatti, il potenziale contrasto con la Convenzione avrebbe comunque implicato un passaggio per la Corte costituzionale, e non certo la riscrittura di precise disposizioni di legge, cfr le pur richiamate sentenze gemelle della Consulta (Corte cost. 24 ottobre 2007, n. 349, Foro It., 2008, I, 39; 24 ottobre 2007, n. 348, ibid., I, 40).
Vi è di più , in quanto è poi dubbio che dalla giurisprudenza europea possa desumersi con chiarezza il principio ora affermato dal tribunale di Palermo (al punto da consentire la lettura sopra richiamata degli artt. 337 bis ss. cit.).
Gli stessi provvedimenti richiamati della Corte europea inducono ad una tale riflessione.
Si tratta infatti di sentenze che attengono alla tutela dei figli nati fuori dal matrimonio (Corte eur. diritti dell’uomo 3 giugno 1979, ric. n. 683\1974), o a quella dei genitori biologici (Corte eur. diritti dell’uomo 26 maggio 1994, relativa al diniego, posto dalla legge irlandese del diritto del padre naturale di prestare il proprio consenso all’affidamento del bambino da parte della madre).
Corte eur. diritti dell’uomo, 22 aprile 1997, pure richiamata, concerne alla riferibilità della nozione di vita familiare anche alla situazione di convivenza tra un transessuale, la compagna e la figlia nata dalla loro unione.
Corte eur. diritti dell’uomo 27 aprile 2010, ric. n. 16318\2007, relativa ad una vicenda italiana, concerne la tutela dell’aspettativa della famiglia affidataria presso cui era stato provvisoriamente collocato un bambino (con il quale si era instaurato un significativo rapporto), alla quale però era poi stata negata l’adozione (in termini Corte eur. diritti dell’uomo 26 febbraio 2008, Gorgulu c. Germania); in linea con quest’ultima decisione – anche Corte europea diritti dell’uomo 27 gennaio 2015, invece non richiamata dal provvedimento in rassegna.
In definitiva dalla giurisprudenza della Corte europea non pare possa desumersi –non inequivocamente- il principio, “spendibile” nel diritto interno, alla stregua del quale– nell’ambito dei rapporti familiari di fatto- occorre salvaguardare i rapporti tra dei minori ed il partner del loro genitore biologico.

Conclusioni e prospettive

La strada sarebbe stata, come già più volte prospettato, quella del ricorso ai parametri di costituzionalità interna, sopra richiamati (e viene alla memoria anche la vicenda del divieto di PMA eterologa, “caduta” innanzi alla Consulta alla stregua dei principi costituzionali, non di vaghi e cangianti valori desunti dalla Convenzione europea).
Purtroppo, evidentemente, il facile europeismo di troppa nostra giurisprudenza (che, miopemente, non considera quanto in primo luogo desumibile dall’ordinamento interno) ha fatto ancora una vittima…
Ma certo, una remissione alla Corte Costituzionale avrebbe avuto minore risalto mediatico di una decisione, pur in sé apprezzabile, fondata su fragilissime basi normative, in primo luogo processuali.
Vi è, a mio avviso, di più, in una prospettiva ancora più vasta.
La remissione alla Consulta avrebbe consentito di affrontare un ulteriore e preliminare profilo, quello processuale.
Il decreto, lo si è visto, ha escluso la legittimazione attiva della comadre, dando così luogo alle aporie procedurali sopra rimarcate.
E’ però sfuggito, ai giudici palermitani, l’angustia di tale decisione (pur inevitabile, nell’economia motivazionale prescelta), anche nella prospettiva dell’interesse del minore.
L’affermazione che questi ha il diritto di intrattenere e conservare rapporti anche con i genitori sociali è infatti contraddetta , sul piano processuale, che poi vuol dire operativo e pratico, proprio dalla soluzione prescelta, quella della remissione di ogni iniziativa alla parte pubblica, il pubblico ministero.
I diritti o esistono o non esistono: ma se esistono se ne deve consentire in concreto l’esercizio, senza frapporre difficoltà insormontabili o estremamente gravose.
Un vizio radicato nella cultura (non solo giuridica) del nostro Paese sta proprio nell’accontentarsi delle mere enunciazioni di principio, senza preoccuparsi troppo della loro effettività (è del resto nota la affermazione, ingiusta ma non del tutto, che – nel dopoguerra – le forze di destra, per “compensare” quelle di sinistra per una rivoluzione mancata, non si opposero all’inserimento, nella stessa Carta costituzionale, di una rivoluzione promessa).
Quanto alla giurisprudenza, è agevole richiamare quei provvedimenti in materia di scelte di fine vita che, pur affermando il diritto di ciascuno all’interruzione di cure mediche inutilmente invasive, negavano poi la possibilità di ricorrere all’eutanasia c.d. passiva, cfr Trib. Roma 16 dicembre 2006, Foro it., 2007, I, 572, ed alla difficile attuazione di Corte Cost. 22 novembre 2013, n. 278, id., 2014, I, 3, in tema di parto anonimo e di “conoscenza delle origini”.
Torniamo allora ai genitori sociali: se davvero se ne vuole sancire l’emersione giuridica, se davvero vuole rendersi reale il diritto del minore a conservare con gli stessi i rapporti affettivi consolidati, non ci si deve fermare al solo dato sostanziale (oltretutto riconosciuto con una forzatura del dettato normativo vigente).
Più in concreto, un indispensabile passaggio sta nel riconoscimento della legittimazione attiva- ai fini che qui rilevano – degli stessi genitori sociali, senza che siano “costretti” a sollecitare una azione del Pm, che non vi può mai essere obbligato (e che diritto è – mi riferisco ai minori- quello il cui esercizio è rimesso alla scelta discrezionale di un soggetto terzo e pubblico? Mi sembra che alla base vi sia una visione pubblicistica del diritto di famiglia recessiva da 40 anni almeno).
I genitori sociali dovrebbero agire – se non in rappresentanza – nell’interesse dei minori (che, ovviamente, non possono agire autonomamente).
Essi non hanno diritti in senso stretto, certo: ma insistere su tale affermazione mi sembra, se non ipocrita, eccessivamente formalistico; se davvero quel legame è giuridicamente rilevante, mi sembra davvero difficile non riconoscere loro almeno la titolarità di un munus, “spendibile” anche processualmente.
D’altronde i nonni, prima dell’introduzione dell’art. 317 bis cit. cod. civ. (che in fondo è norma meramente ricognitiva di un assetto già esistente) erano già ritenuti legittimati ad agire per conseguire una disciplina degli incontri con i nipoti, sia pure nell’ambito (angusto, lo si è detto) dell’art. 330 cod. civ., quindi del pregiudizio per il minore.
In tale ambito – alla stregua di una interpretazione analogica dell’art. 336 cod. civ. – mi sentirei fin d’ora di affermare la legittimazione attiva del genitore sociale (è poi la scelta compiuta dal Trib. min. Milano cit.).
Nella diversa prospettiva “ordinaria” degli art. 337 bis ss c.c. una tale lettura (pur se costituzionalmente orientata) non è possibile, alla stregua delle stesse considerazioni svolte prima per i profili sostanziali.
Si tratta però di un assetto inappagante e insostenibile, e a ben guardare questo è tanto più vero per i genitori arcobaleno (rectius, per le coppie omosessuali, evidentemente composte da donne) che abbiano fatto ricorso, come nella specie, alla PMA eterologa.
Qui – in ragione di quella scelta comune di genitorialità cui si è fatto cenno – il legame con il figlio è particolarmente stretto, anche prescindendo dallo stesso legame affettivo (che , evidentemente, è solo eventuale e oggetto di accertamento in fatto), potendosi evocare, sul piano normativo (sotto il profilo dell’analogia iuris) , lo stesso art. 9 della l. 40\2004, sulla irrevocabilità del consenso alla PMA eterologa (con ricadute preclusive quanto all’esercizio delle azioni di status)
Da qui allora l’opportunità – non colta dal tribunale di Palermo- di una remissione complessiva della questione – sostanziale e processuale – alla Corte Costituzionale.
Si è trattato, in definitiva, di una occasione (ormai non irripetibile) mancata.

*Consigliere presso la Corte d’Appello di Napoli