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Y.Y. c. Turchia: i requisiti per il cambiamento anagrafico di genere

2015-02-09 00.15.22Numerosi Stati Membri del Consiglio d’Europa prevedono la sterilizzazione e l’intervento chirurgico come presupposti indefettibili ai fini del cambiamento anagrafico di genere, nonostante siano numerosi gli strumenti internazionali che ne affermano l’incompatibilità con i diritti fondamentali della persona. Su queste basi il presente contributo si propone di verificare, in particolare sulla scorta della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU), se il diritto internazionale dispone di principi a valenza generale e trasversale suscettibili di essere utilizzati per fornire le risposte agli interrogativi morali e alle implicazioni etiche che vengono in rilievo nel momento in cui si discute dei requisiti necessari ai fini del cambiamento anagrafico di genere. 

di Diego Zannoni*

Sommario: 1. Introduzione; 2. Gli indirizzi internazionali; 3. La posizione della Corte EDU nella sentenza Y.Y. c. Turchia; 3.1 La portata della sentenza Y.Y. c. Turchia; 3.2 Le ragioni che depongono per una interpretazione restrittiva della sentenza Y.Y. c. Turchia; 3.2.1. La Corte non individua gli obiettivi cui mirano le misure restrittive; 4. Il disallineamento fra il ruolo di genitore biologico e il sesso anagrafico; 5. Osservazioni finali.

 

Introduzione

L’“identità di genere”, intesa come l’identità della persona ricondotta alla percezione del proprio genere, eventualmente in contrapposizione al proprio sesso biologico, anche se correntemente percepita come qualcosa che è dato, acquisito alla nascita, immodificabile e facilmente classificabile, se analizzata più attentamente rivela il suo carattere dinamico poiché è attraverso un processo graduale che la persona si identifica gradualmente all’interno e costruisce sé stessa all’esterno, cioè sul piano interpersonale[1]. La persona transessuale è, prima della transizione, genotipicamente e fenotipicamente di un sesso determinato, ma ha la consapevolezza, spesso appunto gradualmente maturata, di appartenere al genere opposto (Konträre Sexualempfindung).

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) è stata impegnata in prima linea nella enucleazione di un diritto all’identità di genere, e ne ha individuato la base normativa nell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) – dedicato al diritto della persona al rispetto della sua vita privata e familiare. La Corte ha avuto modo di sottolineare a più riprese come la nozione di “vita privata” non sia suscettibile di una definizione esaustiva di modo che elementi come l’identità di genere, il nome, l’orientamento sessuale e la vita sessuale rientrano nella sfera personale protetta dall’art. 8 della CEDU[2]. Tale norma ha quindi consentito l’avvio di una giurisprudenza favorevole al riconoscimento del diritto del transessuale ad ottenere la correzione degli atti di stato civile e a sposare individui del suo stesso sesso di nascita[3].

Con questo contributo ci si propone di verificare se sia possibile estrapolare dal diritto internazionale – esistente o emergente – un nucleo di principi idonei a fornire le risposte agli interrogativi morali e alle implicazioni etiche che vengono in rilievo nel momento in cui si discute dei requisiti necessari ai fini del cambiamento di genere. Si potrebbe pensare che si tratta di una questione che appartiene più all’etica e alla filosofia morale che al diritto. Non a caso i giuristi e, come vedremo, le stesse corti, nazionali e internazionali, celano a stento un certo imbarazzo nel momento in cui debbono occuparsi dell’argomento. Il giurista tuttavia ne risulta necessariamente coinvolto nella misura in cui si tratta di individuare i principi e le norme da utilizzare per ricavare la soluzione giuridica ai problemi posti dalla vita[4].

Mentre la Corte di Giustizia dell’UE ha affermato a più riprese, sia pure in decisioni ormai risalenti, che spetta agli Stati Membri, e non già al diritto dell’UE, determinare le condizioni del riconoscimento giuridico del mutamento di genere di una persona[5], la Corte EDU ha avuto modo di pronunciarsi sul punto dell’ammissibilità del requisito della incapacità definitiva a procreare.

Gli indirizzi internazionali

I requisiti prescritti con maggiore frequenza dalle legislazioni interne o desumibili dalla relativa prassi giurisprudenziale ai fini del riconoscimento giuridico del cambiamento di genere sono la sterilizzazione[6] e/o l’intervento chirurgico. Si tratta di requisiti distinti perché la sterilizzazione non passa necessariamente attraverso l’intervento chirurgico – potendo essere ottenuta anche attraverso un trattamento farmacologico – e l’intervento chirurgico non determina necessariamente l’incapacità definitiva a procreare potendo riguardare, ad esempio, i soli caratteri sessuali secondari. Tuttavia, come ha notato la Corte EDU, anche nei Paesi che richiedono solamente una chirurgia di conversione sessuale, senza esigere la sterilizzazione, la sterilità è spesso una “condizione di fatto” perché gli interventi chirurgici più invasivi conducono necessariamente alla sterilità della persona[7].

A livello internazionale è crescente la tendenza a considerare contraria ai diritti fondamentali della persona la previsione di tali requisiti ai fini della conversione sessuale. Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa ha specificamente invitato a più riprese gli Stati Membri “[to]abolish sterilisation and other compulsory medical treatment as a necessary legal requirement to recognise a person’s gender identity in laws regulating the process for name and sex change”[8]. Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa si è espresso in una raccomandazione nel senso che “les traitements hormonaux ou chirurgicaux en tant que conditions pour se voir reconnaître légalement un changement de genre devraient ainsi être limités à ceux strictment nécessaires, et avec le consentement de l’intéressé..”[9]. Ma in modo ancora più netto l’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, con una risoluzione relativa alla discriminazione a motivo dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, ha raccomandato gli Stati Membri a far si che i documenti ufficiali delle persone transessuali riflettano il genere scelto “sans obligation préalable de subir une stérilisation ou d’autres procédures médicales comme une opération de conversion sexuelle ou une thérapie hormonale”[10].

Indicativi di una tendenza sempre più univoca sono anche i Yogyakarta Principles che precisano come “no one shall be forced to undergo medical procedures, including sex reassignment surgery, sterilisation or hormonal therapy, as a requirement for legal recognition of their gender identity. No status, such as marriage or parenthood, may be invoked as such to prevent the legal recognition of a person’s gender identity”[11]. In termini simili si è espressa anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità che, nei Guiding Principles for the Provision of Sterilization Services, ha affermato: “States parties’ obligation to respect the right to health requires that they abstain from imposing discriminatory practice. This includes an obligation to respect the rights of persons with disabilities and transgender and intersex persons, who also have the right to retain their fertility and the right to have access to sterilization and other family planning services on an equal basis with others”[12].

Nell’ordinamento dell’UE vengono poi in rilievo le linee guida adottate del Consiglio che sottolineano come in alcuni Paesi Membri “the requirements for legal gender recognition may be excessive, such as requiring proof of sterility or infertility, gender reassignment surgery, hormonal treatment, a mental health diagnosis and/or having lived in the preferred gender for a specified time period (the so-called ‘real-life experience’)”, per poi affermare in modo perentorio che “such excessive provisions or practices are contrary to the right to equality and nondiscrimination as stated in Articles 2 and 26 of the International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR) and Article 2 of the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights (ICESCR)”[13].

L’adattamento fisico al cambiamento di genere è però valorizzato dalla Convention relative à la reconnaissance des décisions constatant un changement de sexe[14]che infatti, ferma la regola generale del riconoscimento, prevede che questo possa essere rifiutato quando l’“adaptation physique” non sia stato realizzata e constatata nella decisione che si tratta di riconoscere[15].

Tutti gli strumenti richiamati, a parte la convenzione ultima menzionata che però non è una convenzione di diritto materiale, costituiscono strumenti importanti della cooperazione internazionale tanto sul piano politico che su quello giuridico, ma non hanno natura vincolante. Risoluzioni e raccomandazioni di organizzazioni internazionali possono fungere da “apri strada” per lo sviluppo di norme consuetudinarie o pattizie in materia, ma non mettono in gioco la responsabilità internazionale il cui necessario presupposto è infatti un comportamento dello Stato in contrasto con obblighi previsti da una regola del diritto internazionale generale o convenzionale in vigore per lo Stato al momento del fatto (c.d. elemento oggettivo dell’illecito). Il solo effetto che le norme soffici producono a livello del diritto internazionale della responsabilità è di precludere allo Stato che ha concorso con il suo consenso all’adozione dell’atto non vincolante, in applicazione del principio di buona fede, la possibilità di sostenere l’illiceità di un comportamento di un altro soggetto di diritto internazionale che sia conforme alle norme contenute in tale atto.

L’assenza di norme vincolanti in materia sembra riconducibile al fatto che la sessualità e la riproduzione umana toccano aspetti molto delicati della vita e presentano implicazioni etiche e religiose, di conseguenza mal si prestano ad una normativa uniforme. Il processo riproduttivo in particolare coinvolge, oltre ai diretti interessati, l’istituzione familiare e l’intera società[16].

La posizione della Corte EDU nella sentenza Y.Y. c. Turchia

La Commissione sui diritti umani in una decisione di inammissibilità del 1997 aveva ritenuto non incompatibile con l’Art. 8 CEDU l’imposizione da parte della legge interna di particolari requisiti ai fini del cambiamento di genere, precipuamente lo stato libero del richiedente, l’avvenuto intervento chirurgico e l’incapacità definitiva di procreare[17].Nella sentenza Y.Y. c. Turchia tuttavia la Corte EDU, anche sulla base degli strumenti internazionali ed europei richiamati supra e in considerazione dell’evoluzione che si è registrata in materia di diritti umani e, in particolare, di identità di genere, sembra cambiare posizione eritenere non compatibile con la CEDU il requisito della incapacità definitiva di procreare.

A rigore nel caso Y.Y. c. Turchia la Corte EDU è chiamata a risolvere una questione diversa da quella di cui si tratta poiché il requisito dell’incapacità definitiva a procreare era previsto dalla legislazione turca per accedere all’intervento chirurgico di cambiamento del sesso, e non (almeno direttamente) ai fini del cambiamento di genere anagrafico.

E’ infatti necessario distinguere, sul piano logico-giuridico, le condizioni di accesso alle procedure di cambiamento di sesso dalle condizioni richieste per il riconoscimento giuridico di detto cambiamento[18]. Tale distinzione di piani appariva netta nell’Art. 40 del Codice civile turco che prescriveva nel primo paragrafo le condizioni che dovevano essere integrate affinché l’intervento chirurgico potesse essere autorizzato dall’autorità giudiziaria, e fra queste vi era l’incapacità definitiva a procreare del richiedente. Il secondo paragrafo si occupava invece del riconoscimento degli effetti giuridici dell’avvenuto cambiamento di sesso e, anche in questo secondo passaggio, era necessario l’intervento dell’autorità giudiziaria.In sintesi, soddisfatti i requisiti richiesti, il richiedente poteva essere autorizzato ad accedere all’intervento chirurgico e, solo a intervento chirurgico effettuato, il tribunale poteva accordare la riattribuzione di genere nel registro dello stato civile.

Coerentemente la Corte osserva come tutti i suoi precedenti in materia di transessualismo avevano riguardato persone transessuali operate o che avevano comunque subito certi interventi chirurgici, mentre il caso Y.Y. c. Turchia se ne discosta in modo evidente, trattando di una persona che si è vista negare l’autorizzazione giudiziaria all’intervento chirurgico in ragione della sua perdurante capacità di procreare. Effettivamente per la prima volta la Corte si pronuncia sulla protezione di una persona transessuale non operata (alla data della presentazione del ricorso). Di conseguenza i criteri e principi sviluppati nella sua giurisprudenza non sono suscettibili di essere trasposti nel nuovo caso, potendo solo guidare la Corte nel suo apprezzamento[19].

La Corte risolve la questione prendendo atto che a livello internazionale il transessualismo è largamente riconosciuto come uno stato medico che giustifica un trattamento – compreso l’intervento chirurgico irreversibile – destinato ad aiutare le persone che si trovano in questa specifica condizione, e che i servizi sanitari della maggior parte degli Stati contraenti lo garantiscono o autorizzano. Di conseguenza considera che la mancata autorizzazione all’intervento chirurgico integri una ingerenza nel diritto di Y.Y. al rispetto della sua vita privata, ai sensi dell’art. 8 CEDU, alla luce delle ripercussioni che ha avuto sul suo diritto all’identità sessuale e sul suo sviluppo personale[20]. Una volta accertata la sussistenza dell’ingerenza, la Corte si propone di verificare se possa essere giustificata ai sensi del par. 2 dell’art. 8 CEDU, in particolare se, prevista dalla legge – e questa condizione era soddisfatta dalla previsione di cui all’art. 40 del Codice civile turco – risulti necessaria in una società democratica per perseguire uno degli obiettivi legittimi ivi elencati.

Il par. 2 dell’art. 8 costituisce una delle clausole di interferenza previste nella CEDU per il soddisfacimento di esigenze collettive, e precisa le condizioni alle quali lo Stato può limitare il godimento del diritto garantito dal par. 1. La disposizione tende così a realizzare un equo contemperamento tra il diritto individuale e l’interesse generale, inteso come espressione delle esigenze complessive della società o di altri individui. Il test cui vengono tradizionalmente sottoposte le misure di restrizione consiste quindi nel verificare se esse siano previste dalla legge, e se tendano ad uno degli scopi specificati nel par. 2 e infine se possano ritenersi necessarie in una società democratica, perché imposte da un “besoin social impérieux” e proporzionate, cioè con un impatto “tollerabile” nella sfera individuale. L’esame di proporzionalità in particolare si fonda sulla comparazione tra il complesso dei diritti della persona e l’interesse pubblico da preservare mediante la compressione o la limitazione di essi.

Il Governo turco adduce, per giustificare il requisito contestato, da un lato l’interesse generale alla prevenzione della banalizzazione di questo tipo di interventi, ma anche, dall’altro, l’interesse dell’individuo in considerazione del rischio per la sua integrità fisica e morale che sarebbe insito nella operazione, giusto il carattere irreversibile dei suoi effetti, e le derive sul versante della prostituzione che, a suo dire, ne potrebbero derivare. Su queste basi il Governo Turco ritiene che deve essere riconosciuto un ampio margine di apprezzamento allo Stato contraente nella determinazione dei requisiti necessari ai fini dell’intervento chirurgico di cambiamento di sesso[21], tanto più che fra gli Stati Membri del Consiglio d’Europa non vi è ancora una convergenza sufficientemente ampia su questo punto per consentire alla Corte di formulare conclusioni determinate e ridurre quindi corrispondentemente il margine di apprezzamento.

La Corte parimenti riconosce che molti Stati ancora subordinano il riconoscimento giuridico del cambiamento di genere, implicitamente o esplicitamente, all’intervento chirurgico di conversione sessuale e/o all’incapacità di procreare, ma mette in luce che, negli Stati dove è previsto il requisito della sterilità/infertilità, la sua esistenza è verificata una volta che si è concluso il processo medico o chirurgico di conversione sessuale, non quindi, come nel diritto turco, come condizione necessaria a monte per accedere all’intervento chirurgico.

Secondo la Corte è necessario dare più importanza all’esistenza di “éléments clairs et incontestés montrant une tendance internationale continue” piuttosto che all’assenza di un consenso europeo sul punto[22] e, oltre a richiamare alcuni degli strumenti internazionali menzionati supra, sottolinea che alcuni Stati Membri hanno di recente modificato la loro legislazione interna o la loro pratica in materia di transessualismo, proprio eliminando il requisito della infertilità/sterilità[23].

Il requisito dell’incapacità di procreare non è, secondo la Corte, in alcun modo necessario in vista degli obiettivi indicati dal Governo Turco e l’ingerenza che ne deriva nel rispetto del diritto alla vita privata non può essere considerata “nécessaire” in una società democratica, come del resto dimostra il fatto che il giudice interno, successivamente adito, aveva autorizzato l’intervento chirurgico, nonostante la perdurante capacità di procreare di Y.Y, già prima dell’intervento della Corte EDU[24]. Su queste basi ritiene che negare l’autorizzazione all’intervento chirurgico in ragione della circostanza che il richiedente non sia incapace, in modo definitivo, a procreare, sia in violazione della vita privata protetta dall’art. 8 della CEDU. Ne consegue la condanna dello Stato turco a risarcire i danni patiti dal transessuale per aver dovuto attendere per anni l’autorizzazione all’esecuzione dell’intervento chirurgico – e il conseguente cambiamento del sesso anagrafico.

La portata della sentenza Y.Y. c. Turchia

Pur disponendo per il caso concreto[25], l’autorità delle sentenze della Corte EDU non è limitata al caso deciso. Evidentemente il giudice ordinario, la Corte costituzionale (ma anche il legislatore) devono evitare di esporre lo Stato a responsabilità internazionale con decisioni interne che ignorino o forzino l’orientamento interpretativo della Corte EDU[26]. Per questo il giudice nazionale, chiamato ad applicare una disposizione nazionale suscettibile di più letture, deve scegliere l’interpretazione che più si attaglia alla disposizione della CEDU, per come “vive” nell’ordinamento internazionale[27].

Tale compito si rivela però arduo nel caso di specie perché la sentenza Y.Y. c. Turchia si presta ad una duplice interpretazione. Può infatti essere letta, adottando un approccio pragmatico, come se il caso esaminato avesse comunque posto la questione di stabilire quali condizioni possano essere previste come necessarie ai fini del cambiamento anagrafico di genere – e non solo quindi ai fini dell’intervento chirurgico – senza violare l’art. 8 CEDU[28]. E’ infatti evidente che, anche se il requisito della sterilità definitiva è previsto formalmente ai fini dell’intervento chirurgico, poiché l’intervento chirurgico è necessario ai fini del cambiamento anagrafico di genere, la sterilità definitiva finisce per essere indirettamente necessaria ai fini del cambiamento anagrafico di genere. Del resto il caso concreto da modo alla Corte di formulare delle affermazioni di ordine generale, in particolare quando precisa “le respect dû à l’intégrité physique de l’intéressé s’opposerait à ce qu’il doive se soumettre à ce type de traitements [di sterilizzazione]”[29]. Così opinando la portata della sentenza sarebbe dirompente perché ne deriverebbe la contrarietà all’art. 8 CEDU del requisito dell’incapacità definitiva a procreare così come previsto e applicato negli Stati Membri ai fini della conversione anagrafica di genere. Oppure si potrebbe ridurre la portata della sentenza in esame sottolineando che una pronuncia non può essere isolata dal contesto in cui è stata emessa, dovendo piuttosto essere letta considerando le peculiarità della fattispecie. Questo è l’avviso dei giudici Lemmens e Kuris nella loro opinione separata, i quali ritengono che la Corte non si sia pronunciata affatto sulla compatibilità con la CEDU dell’incapacità definitiva a procreare come condizione per il riconoscimento giuridico del nuovo genere, ma solo come condizione per l’accesso all’intervento chirurgico di conversione sessuale e quindi concludono: “j’estime que le présent arrêt ne saurait être interpété comme excluant définitivement l’exigence de l’incapacité définitive de procréer du contexte de la conversion sexuelle”[30].

Le ragioni che depongono per una interpretazione restrittiva della sentenza Y.Y. c. Turchia

Fra le due possibilità interpretative delineate sembra preferibile quella che limita l’incompatibilità con l’art. 8 CEDU della sola previsione dell’incapacità definitiva a procreare come requisito ai fini dell’intervento chirurgico di conversione sessuale. Questa era infatti la questione posta alla Corte e, come notano i giudici Lemmens e Kuris, il dossier non conteneva comunque elementi sufficienti per inquadrarla in un contesto più generale. Ma il punto centrale è che i motivi che possono essere addotti per giustificare tale requisito ai fini dell’intervento chirurgico non sono necessariamente quelli che potrebbero essere invocati per giustificare lo stesso requisito ai fini del cambiamento anagrafico di genere. Per questo la sentenza Y.Y. c. Turchia può solamente fornire delle linee guida nel momento in cui l’incapacità definitiva a procreare è esaminata come condizione ai fini del cambiamento anagrafico di genere, e non specificatamente ai fini dell’intervento chirurgico di conversione sessuale.

La Corte non individua gli obiettivi cui mirano le misure restrittive

La ratio della previsione dell’incapacità definitiva a procreare non è chiarita dalla Corte, come efficacemente osservato dai giudici Keller e Spano nella loro opinione separata comune e, mossa questa critica, essi stessi si astengono dal metterla in luce, evidentemente a causa dei risvolti etici della materia. L’aspetto criticabile del ragionamento seguito dalla Corte EDU si colloca in effetti sul piano metodologico è consiste nell’omettere di chiarire quale sia l’obiettivo legittimo eventualmente perseguito dalla misura restrittiva. E’ infatti previamente necessario riconoscere l’esistenza del conflitto fra gli interessi contrapposti ed eterogenei rappresentati da un lato dall’obiettivo legittimo ricercato dallo Stato e, dall’altro, dai diritti della persona, per individuare la soluzione più adeguata al suo superamento e solo dopo avere identificato l’obiettivo avuto di mira è possibile eseguire il test di necessità e di proporzionalità.

Ci si propone quindi di partire da dove la Corte cautamente si è fermata e di proseguire nell’analisi inquadrando la questione in un contesto più generale, cioè considerando il requisito dell’incapacità a procreare ai fini del cambiamento anagrafico di genere tout court.

Il tema della sterilizzazione si rivela, ad una lettura ravvicinata, articolato e complesso e bisognoso di focalizzazioni interdisciplinari perché una pluralità di elementi concorre a definirne l’orizzonte di comprensione. Esso pone all’interprete una pluralità di interrogativi di soluzione certo non immediata: come si pone la previsione normativa dell’intervento chirurgico e della sterilizzazione ai fini della conversione di genere in rapporto al diritto all’autodeterminazione della persona? Poiché sessualità e procreazione sono una dimensione essenziale dell’uomo[31] può essere concepito un diritto alla procreazione, e quindi un diritto alla maternità o alla paternità responsabili come momenti dello svolgersi, di un pieno svilupparsi della persona umana? Il diritto a trasmettere la vita può essere inteso come un aspetto dello stesso diritto alla vita?[32]

La libertà riproduttiva – intesa come libertà di avere figli, così come di non averne – rappresenta un diritto umano composito, in cui confluiscono diversi diritti umani[33]. Ciò appare evidente in particolare se la libertà riproduttiva è vista in negativo, nella previsione normativa dell’incapacità definitiva di procreare come requisito necessario per il cambiamento anagrafico di genere. Tale requisito infatti sembra porsi in contrasto oltre che, naturalmente, con il diritto all’integrità fisica, anche con l’aspirazione dell’essere umano a crearsi una discendenza che trova tutela a livello internazionale in più norme e si traduce in specifici diritti. Si pensi al diritto di fondare una famiglia, protetto a sua volta dall’art. 23 del Patto sui diritti civili e politici che va letto, secondo il General Comment n. 19, nel senso che “the right to found a family implies, in principle, the possibility to procreate”. Si pensi poi al diritto al rispetto della vita privata, il quale potrebbe essere inteso come comprensivo del diritto alla discendenza biologica, nella misura in cui la maternità/paternità fossero viste come mezzo per realizzare al meglio la propria personalità.

Su queste basi la Corte EDU ha sempre sottolineato l’importanza del consenso previo ad ogni forma di sterilizzazione, tanto da configurarlo come “une exigence qui découle d’ailleurs des conventions internationales et des principes généraux de la dignité et de la liberté humaines”[34]. Da qui il divieto di ogni forma di sterilizzazione coatta e di contraccezione obbligatoria[35].

Si prospettano quindi, ai fini della soluzione della questione in oggetto, due percorsi argomentativi contrapposti. Da un lato si potrebbe sostenere che la previsione dei requisiti dell’intervento chirurgico e della sterilizzazione ai fini del cambiamento di genere si pone in contrasto con il diritto all’autodeterminazione, di cui la libertà di definire la propria identità di genere rappresenta un elemento essenziale. Si potrebbe cioè affermare che, nella misura in cui l’intervento chirurgico e/o la sterilizzazione costituiscono presupposti necessari ai fini della riattribuzione di genere, essi divengono “interventi forzati” perché costituiscono il passaggio obbligato per vedere sanzionata dalla legge l’identità stessa della persona; se non vengono soddisfatti la persona è “costretta” ad una “esistenza legale” che non corrisponde alla sua identità personale e di genere, al suo aspetto esteriore e al ruolo sociale che viene ad assumere o ha già assunto[36]. La persona si trova a dover scegliere fra il diritto alla conservazione della propria integrità fisica e il diritto alla propria identità sessuale, che fra l’altro comprende un aspetto psicosessuale in cui l’idea della possibile capacità generativa è integrante e fondamentale[37]. Non a caso i Giudici Keller e Spano in modo inequivoco affermano: “dans le cas où la stérilisation serait la seule possibilité de garantir l’autorisation d’une opération de changement de sexe, on peut parler de stérilisation forcée de facto”[38].

Così opinando si presuppone che la coazione possa essere integrata anche da pressioni che, a diversi livelli, incidono in modo notevole sulla volontà della persona[39]. Questo a maggior ragione quando una pressione viene esercitata colpendo aspetti essenziali della dignità di una persona affetta da disturbo dell’identità di genere[40].

Potrebbe però essere obiettato, e questa è la seconda ipotesi ricostruttiva, che la persona transessuale non è indotta coattivamente a cambiare genere, tanto che l’intervento e/o la sterilizzazione sono autorizzati e non già imposti dall’autorità giudiziaria.

Qualora la sterilizzazione in oggetto fosse considerata volontaria si dovrebbe notare che le singole legislazioni nazionali prospettano un ampio ventaglio di scelte, da quella che favorisce la sterilizzazione volontaria, assumendola come servizio pubblico nel sistema sanitario nazionale, fino a quella che la vieta presidiando il divieto con sanzioni penali, e anche la dottrina è divisa sulla sua liceità[41]. L’ordinamento turco non ammetteva la sterilizzazione volontaria ai fini del mutamento di genere, come è intuito dal giudice Lemmens il quale nota che ci sono persone di sesso femminile desiderose di cambiare genere che non sono più fertili, o non lo sono mai state, ed è solo a questa categoria che il legislatore turco consentiva di procedere all’intervento chirurgico: “en revanche, une femme fertile ne peut pas, en vue d’une conversion sexuelle, abandonner les caractéristiques physiques d’une femme, y compris la faculté de procréer”.

Peraltro seguendo questo secondo percorso argomentativo si potrebbe sottolineare che, ove il soggetto non voglia sottoporsi al trattamento chirurgico e alla sterilizzazione, non gli è precluso di vivere la propria transessualità senza la rettificazione dello stato civile. Infine, come è stato opportunamente messo in luce, non vi è una dimensione della sessualità che possa sottrarsi ad una valenza relazionale[42], quindi la comprensibile aspirazione ad una propria discendenza, comune a uomini e donne, è difficilmente configurabile come un diritto assoluto ed insuscettibile di condizioni e limiti al suo esercizio[43]. Non a caso in occasione della Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo si è posto l’accento non solo sulla libertà riproduttiva, ma anche sulla “shared responsibility for sexual behaviour and its consequences”[44].

Ora, delle due una. Qualora si ritenga di aderire al primo orientamento che considera i requisiti della sterilizzazione e dell’intervento chirurgico come interventi forzati de facto non si può che concludere per l’inammissibilità degli stessi, giusta la giurisprudenza consolidata della Corte EDU in questo senso. La Corte però non sembra seguire questa tesi, ma sembra piuttosto implicitamente aderire al secondo percorso argomentativo. Dunque, qualora si ritenga che nessuna imposizione sia ravvisabile, è necessario procedere oltre nell’analisi e chiarire gli obiettivi cui sono preordinate tali misure restrittive.

Il disallineamento fra il ruolo di genitore biologico e il sesso anagrafico

Mentre all’inizio il transessualismo ha trovato una propria regolamentazione e il cambiamento di genere un proprio riconoscimento giuridico al fine di evitare gli inconvenienti, la confusione, il pregiudizio per l’ordine sociale derivanti dall’inserimento di un individuo nella società con un sesso non corrispondente alla sua esteriorità, il baricentro della disciplina si è poi gradualmente spostato verso la persona. Tuttavia, la necessaria considerazione dei diritti della persona, anche in materia di identità di genere, non vale ad assorbire ed annullare sempre e comunque gli interessi generali contrapposti, o ad ignorare l’esistenza di questi ultimi, e la meritevolezza di una loro considerazione. Infatti, se da un lato vi è l’interesse individuale ad avere un figlio, dall’altro vi è l’interesse dello Stato a preservare i principi, morali e giuridici, ispiratori del proprio diritto familiare, in particolare filiale, che dovrebbero essere considerati per evitare che tutte le singole rivendicazioni finiscano per chiudersi in se stesse e che il diritto stesso si costruisca su progressive incoerenze[45].

La ratio cui rispondono i requisiti dell’intervento chirurgico e della sterilizzazione è in realtà chiara, anche se cautamente mai messa in luce né dalla Corte EDU né dal Governo turco: il primo mira a far salva l’(apparente) corrispondenza fra genere anagrafico e sesso biologico, la seconda a garantire la preservazione giuridica dei ruoli di genere, e quindi a “scongiurare” il disallineamento fra il ruolo di genitore biologico e il genere anagrafico. In particolare, prevedendo la sterilizzazione come requisito imprescindibile ai fini del cambiamento di genere i legislatori nazionali mirano a evitare che un bambino possa nascere da una persona con sembianze maschili – e giuridicamente maschio – o possa avere, come padre, una persona con sembianze e ruolo sociale femminili e giuridicamente donna. Ciò che si mira ad evitare è quindi, detto più chiaramente, il disallineamento sul piano giuridico fra ruolo di padre e sesso maschile da un lato e, dall’altro, fra ruolo di madre e sesso femminile, quasi a configurare la dignità della gestazione in sé come un bene giuridico definito e protetto dallo Stato[46].

Le varie legislazioni nazionali degli Stati Membri del Consiglio d’Europain materia di transessualismo mostrano con chiarezza una pluralità di visioni e approcci giuridici. Ciò si spiega agevolmente in ragione delle difficoltà insite nella ricerca di un possibile compromesso fra i diritti individuali e gli interessi generali appena enucleati. Molti ordinamenti, subordinando ancora il cambiamento di genere ai requisiti in esame, stentano ad abbandonare l’ancoraggio offerto dal dualismo normativo legato al dato biologico e ribadiscono quindi la necessità della modifica chirurgica che non consenta più la riproduzione umana. Adottando questo approccio da un lato ritengono meritevole di tutela l’identità di genere, dall’altro tuttavia si dimostrano non ancora pronti ad abbandonare del tutto la categoria giuridica di sesso, e infatti attribuiscono una considerazione preminente ai caratteri sessuali piuttosto che alla psiche del soggetto[47].

Sembra che, laddove non esista un sentimento giuridico comune sulle questioni più sensibili come quella in esame, la ricerca a tutti i costi di una armonizzazione del diritto degli Stati sia vana e in contraddizione con il necessario rispetto del pluralismo e delle diverse tradizioni culturali poiché, in presenza di valutazioni etiche differenti, essa si tradurrebbe in una imposizione di valori e modelli di vita. E’ quindi preferibile che il bilanciamento fra i diritti e gli obiettivi di cui sopra sia operato dal legislatore nazionale, piuttosto che dalla Corte EDU[48]. Infatti l’esercizio della funzione giurisdizionale – interna come internazionale – è in grado di interpretare il cambiamento e cogliere nell’applicazione del dato normativo le variazioni indotte dalla trasformazione sociale, e lo deve fare quando ciò è richiesto in funzione della garanzia dei diritti inviolabili; ma è solo l’esercizio della discrezionalità legislativa, e della connessa responsabilità politica, che è in grado di offrire un processo democratico nel quale vengano compiute le scelte di attuazione indispensabili per dare ai principi una interpretazione coerente. Poiché a livello internazionale non c’è spazio per criteri oggettivi ed universali di valutazione etica, né per autorità che ne siano depositarie[49], i diritti interni rappresentano ancora oggi lo strumento più democratico e prossimo alle diverse realtà politico-sociali, morali e religiose espresse dalle varie comunità, dunque quello più adatto a ricercare e a realizzare un necessario consenso sulla soluzione da dare alle questioni eticamente più spinose.

Vi sono aspetti della vita privata e familiare particolarmente “sensibili”, caratterizzati da forti connotazioni etiche e sociali, rispetto ai quali all’argomento evolutivo sembra potersi efficacemente opporre il margine di apprezzamento[50]. Ingerenze potrebbero quindi giustificarsi alla luce del margine di apprezzamento statale e della necessità di proteggere da un lato la “morale”, dall’altro “diritti e libertà altrui” (art. 8.2 CEDU).

In particolare, il diritto ad autodeterminarsi in ordine all’identità di genere non è da intendersi come assoluto ed insuscettibile di condizioni e limiti al suo esercizio e sembra che l’obiettivo di evitare il disallineamento fra ruolo di genitore biologico e sesso anagrafico possa costituire la base per una ingerenza legittima al diritto della persona al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU[51]. Del resto l’ordinamento giuridico può anche proporsi di indirizzare il corpo sociale in un certo settore e il legislatore dispone di un margine di discrezionalità nello stabilire quali aspetti del reale siano meritevoli di considerazione giuridica.

Osservazioni finali

Il margine di apprezzamento degli Stati relativamente ai requisiti necessari ai fini della conversione anagrafica di genere incontra però dei limiti, in particolare in ordine alle modalità atte a evitare siffatto disallineamento. In prima battuta si potrebbe concludere nel senso che, se alcuni Stati Membri del Consiglio d’Europa dovessero conservare il requisito della incapacità a procreare ai fini della conversione di genere, tale risultato dovrebbe essere perseguito utilizzando la tecnica meno invasiva e quindi meno lesiva, favorendo quindi, tra l’altro, trattamenti farmacologici piuttosto che chirurgici e in ogni caso con effetti reversibili, bilanciando in questo modo i diritti della persona con gli interessi generali. Infatti, la società democratica prefigurata dal Consiglio d’Europa, e quindi dalla CEDU, si caratterizza per il livello minimo di restrizioni alle libertà individuali, e la protezione della morale non può giustificare restrizioni sproporzionate rispetto allo scopo perseguito[52].

A rigore tuttavia, nella misura in cui l’obiettivo legittimo è quello di evitare il disallineamento tra ruolo di genitore biologico e sesso anagrafico, questo potrebbe essere perseguito attraverso l’accertamento rigoroso svolto in sede giudiziale della compiutezza ed univocità della scelta del richiedente, senza che sia necessario prevedere normativamente il requisito della incapacità a procreare, sia pure ottenuta attraverso trattamento farmacologico e non chirurgico, e con carattere reversibile. Questo sembra costituire l’esito finale dell’evoluzione illustrata ed è anche la posizione della Corte di Cassazione italiana che, pronunciandosi sul punto, ha affermato che gli interessi pubblici sono adeguatamente tutelati non già necessariamente tramite l’intervento chirurgico e la sterilizzazione, bensì grazie a “rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale” della “serietà ed univocità del percorso scelto e [de]la compiutezza dell’approdo finale”[53]. Il disallineamento fra il ruolo di genitore biologico e il genere anagrafico potrebbe quindi essere evitato per questa via, e l’intervento chirurgico e la sterilizzazione si configurerebbero, se previsti dal diritto interno come presupposti indefettibili ai fini del cambiamento di genere, come misure sproporzionate rispetto all’obiettivo perseguito.

Va da se che, nella misura in cui la legislazione interna o la prassi giurisprudenziale di un certo Paese non prevedessero alcun requisito ai fini della conversione anagrafica di genere e prescindessero da ogni accertamento della compiutezza e univocità della scelta[54], la persona trans maschile (female to male) potrebbe mantenere gli organi sessuali femminili e rimanere incinta, e si delineerebbe quindi come necessaria, per evitare risultati non soddisfacenti in un’ottica sistematica, una tutela della maternità disancorata dal genere; una tutela della maternità, cioè, assicurata a prescindere dal fatto che nella persona che partorisce il genere e il sesso siano allineati (c.d. persona cisgender) o disallineati (c.d. persona transgender). In sintesi, si renderebbe necessario considerare degna di tutela la gravidanza a prescindere da come sia anagraficamente inquadrata la persona che partorirà. Infatti, se la persona trans maschile fosse inquadrata come uomo dalla legislazione applicabile, non godrebbe della tutela della maternità nella misura in cui questa fosse riservata alle donne anziché essere costruita come tutela dello stato di gravidanza in quanto tale. Nella sfera dei rapporti familiari verticali la genitorialità dei transessuali dovrebbe trovare adeguate garanzie nel principio, formalizzato nell’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Uniti sui diritti del minore[55], che ordina tutti i rapporti in base al superiore interesse del minore[56].

La Corte costituzionale tedesca ha già avuto modo di considerare le conseguenze giuridiche derivanti dal fatto che una persona transessuale, ad esempio maschile, mantenga la capacità riproduttiva femminile e quindi partorisca figli, affermando che la questione giuridica che si pone è risolvibile in analogia a quanto previsto dalla legge per i legami di filiazione in essere prima della riattribuzione, che infatti non mutano in conseguenza della successiva riattribuzione di genere[57]. Anche la Corte Costituzionale italiana ha avuto modo di chiarire con sentenza 161/1985 che il transessuale conserva le potestà e gli obblighi genitoriali di mantenimento, educazione ed istruzione, nei confronti dei figli nati da un matrimonio contratto prima della riattribuzione che avranno, dopo la riattribuzione di genere di uno dei genitori, due madri o due padri. E la persona transessuale avrà le stesse potestà e gli stessi obblighi nei confronti dei figli adottati (o, aggiungiamo, eventualmente … nati) durante il matrimonio successivo.

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*Assegnista di ricerca in diritto internazionale e dell’unione europea presso l’Università degli studi di Padova

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[1]Vedi in questo senso anche il considerando 3 delle Linee guida elaborate dall’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, Standard sui percorsi di adeguamento nel disturbo dell’identità di genere, consultabili nel sito www.onig.it

[2] Arrêt du 10 mars 2015, requête n. 14.793/08 présentée par Y. Y. contre la Turquie introduite le 6 mars 2008, par. 56 (d’ora in avanti sentenza Y.Y. c. Turchia).

[3] Corte EDU (Grande Camera), 11 luglio 2002, I. c. Regno Unito e Goodwin c. Regno Unito

[4] SecondoF. D’Agostino ritenere che le questioni concernenti la vita umana e, più in generale, il vivente siano essenzialmente concettuali e quindi legittimamente gestibili, almeno in prima istanza, da filosofi, e solo in un secondo momento dai giuristi, riprodurrebbe un antico errore di generica ascendenza platonica, cioè quello di ipotizzare una sorta di scala gerarchica del sapere, ponendo al suo vertice il sapere filosofico e in un gradino più basso quello giuridico. Invece, secondo l’autore, la filosofia, quando arriva, arriva alla fine… F. D’Agostino, Presentazione, in L. Marini (a cura di) Il diritto internazionale e comunitario della bioetica, Torino, 2006, pp. XV-XVI.

[5] Sentenza della Corte 27 aprile 2006, causa C-423/04, Richards c. Secretary of State for Work and Pensions, in Racc. 2006, I-3585, par. 21, sentenza della Corte 7 gennaio 2004, causa C-117/01, K.B., Racc. pp. I-541, par. 35.

[6] Ancora nel 2013 24 Stati in Europa richiedevano la sterilizzazione per la rettificazione di genere. R. Kӧhler, A. Recher, J. Ehrt, Legal Gender Recognition in Europe. Toolkit, 2013, Transgender Europe, p. 19. Si veda anche il Rapporto dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti dell’Uomo “Lois et pratiques discriminatoires et actes de violence dont sont victimes des personnes en raison de leur orientation sexuelle ou de leur identité de genre”, 17 novembre 2011, par. 72.

[7] Sentenza Y. Y. c. Turchia, par. 43.

[8] Recommendations of the Council of Europe Commissioner for Human Rights, Issue Paper Human Rights and Gender Identity, Strasbourg, 29 July 2009, p. 44; Council of Europe Parliamentary Assembly Report Putting an End to Coerced Sterilisations and Castrations, Doc. 13.215, 28 May 2013. Si vedano anche il Report of the Special Rapporteur on Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, Juan E. Méndez, 1 February 2013, A/HRC/22/53 e le Concluding observations of the Committee on the Elimination of Discrimination against Women, the Netherlands, 18 January-5 February 2010, p. 11.

[9] Recommendation CM/Rec (2010) 5 of the Committee of Ministers to Member States on Measures to Combat Discrimination on Grounds of Sexual Orientation or Gender Identity, 31 March 2010, VII (Health), par. 35-36.

[10] Resolution 1728 (2010) of the Parliamentary Assembly – Discrimination on the Basis of Sexual Orientation and Gender Identity – 29 April 2010, par. 16.11.2.

[11] Principle III (The Right to Recognition Before the Law), The Yogyakarta Principles on the Application of International Human Rights Law in Relation to Sexual Orientation and Gender Identity (2006)

[12] WHO, Eliminating Forced, Coercive and Otherwise Involuntary Sterilization: An Interagency Statement, OHCHR, UN Women, UNAIDS, UNDP, UNFPA, UNICEF and WHO, 2014, pp. 10-12.

[13] Guidelines to Promote and Protect the Enjoyment of All Human Rights by Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender and Intersex (LGBTI) Persons, Foreign Affairs Council Meeting, Luxembourg, 24 June 2013, par. 20, 21. Si veda anche la Risoluzione del Parlamento Europeo del 12 marzo 2015 sulla relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2013 e sulla politica dell’Unione Europea in materia (2014/2216(INI)), par. 163, 164.

[14] Convention relative à la reconnaissance des décisions constatant un changement de sexe (signée à Vienne le 12 septembre 2000).

[15] Art. 2 e nota esplicativa all’Art. 2 “cette adaptation physique doit non seulement avoir été réalisée mais aussi être constatée expressément dans la décision de changement de sexe”.

[16] C. Campiglio, Tecniche riproduttive e diritti dell’uomo, in N. Boschiero (a cura di), Bioetica e biotecnologie nel diritto internazionale e comunitario. Questioni generali e tutela della proprietà intellettuale, Torino, 2006, pp. 141-142.

[17] Sentenza Roetzheim v. Germany, Application n. 31177/96, Commission decision of inadmissibility 23 October 1997.

[18] Recommendation CM/Rec (2010) 5 of the Committee of Ministers to Member States on Measures to Combat Discrimination on Grounds of Sexual Orientation or Gender Identity, 31 March 2010, par. 20-21.

[19] Y. Y. c. Turchia, par. 62

[20] Ibidem, par. 66.

[21] Ibidem, par. 93.

[22] La Corte EDU già aveva notato nel caso B. c. Francia che le condizioni alle quali subordinare il cambiamento dell’identità sessuale, i presupposti scientifici e le ripercussioni giuridiche del ricorso alla chirurgia, non erano oggetto di un consenso sufficientemente ampio fra gli Stati Membri del Consiglio d’Europa.Affaire B. c. France (Requête n. 13343/87), 25 mars 1992, par. 48.

[23] Sentenza Y. Y. c. Turchia, par. 108-111.

[24] Ibidem, par. 25.

[25] L’interpretazione della CEDU data dalla Corte EDU è finalizzata a dare risposte a casi della vita e non a compiere un giudizio di legittimità della disciplina prevista in un singolo Stato, essendo questo una conseguenza solo eventuale. M. D’Amico, Interpretazione conforme e tecniche argomentative, in M. D’Amico, B. Randazzo (a cura di), Interpretazione conforme e tecniche argomentative, Torino, 2009, p. 522.

[26] Nelle sentenze n. 348 e 349 del 2007 la Corte Costituzionale italiana sottolinea che, ai fini dell’art. 117 Cost., si deve far riferimento alla Convenzione così come interpretata, nel suo contenuto attuale, dalla Corte EDU. V. Zagrebelsky, Corte cost. N. 49/2015, giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani, art. 117 Cost., obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione, Scritto destinato alla pubblicazione nell’“Osservatorio” dell’Associazione italiana dei costituzionalisti (AIC), p. 7.

[27] A. Celotto, F. Donati, Interpretazione conforme a diritto comunitario ed efficienza economica, in M. D’Amico, B. Randazzo (a cura di), op.cit., p. 483; L. Montanari, Interpretazione conforme a convenzione europea dei diritti dell’uomo e canoni di proporzionalità e adeguatezza, in M. D’Amico, B. Randazzo (a cura di), op.cit., pp. 487-495.

[28] In questo senso anche i giudici Keller e Spano nella loro opinione separata comune, par. 28.

[29] Sentenza Y. Y. c. Turchia, par. 119

[30] Opinione separata dei giudici Lemmens e Kuris, par. 3.

[31] M. Paradiso, La sterilizzazione umana tra problemi giuridici e presupposti antropologici, Rivista di diritto civile, 1992, p. 515.

[32] In questo senso V. Scordamaglia, La rilevanza penale della sterilizzazione umana, in F. D’Agostino (a cura di), La sterilizzazione come problema biogiuridico, Torino, 2002, p. 78.

[33]Questo è anche il parere della Commissione Europea la quale ritiene che “la salute sessuale e riproduttiva e i relativi diritti si fondano sui diritti umani basilari e sono elementi essenziali della dignità umana”. Parere della Commissione per lo sviluppo (22.1.2015) destinato alla commissione per gli affari esteri sulla relazione annuale sui diritti umani e la democrazia nel mondo nel 2013 e sulla politica dell’Unione Europea in materia (2014/2216 (INI). I diritti riproduttivi “embrace certain human rights that are already recognized” a livello nazionale ed internazionale, e che riguardano “all couples and individuals”. Report of the International Conference on Population and Development, Cairo, 5-13 September 1994, par. 7.2; 7.3. Si veda anche il Programme of Action of the International Conference on Population and Development, Cairo, 5-13 September 1994, punto7.2.

[34] Opinione separata dei giudici Keller e Spano, par. 14. Si vedano ad esempio K.H. et autres c. Slovaquie, n. 32.881/04, 28 avril 2009; V.C. c. Slovaquie, n. 18.968/07, 8 novembre 2011; N.B. c. Slovaquie, n. 29.518/10, 12 juin 2012; I.G. et autres c. Slovaquie, n. 15.966/04, 13 novembre 2012; R.K. c. République Tchèque, n. 7.883/08, 27 novembre 2012.

[35] Vedi amplius C. Campiglio, Procreazione assistita e famiglia nel diritto internazionale, Padova, 2003, pp. 67-71.

[36] In questo senso Decisione del 11.01.2011, 1 BVR 3295/07, par. 69; Kammarrätten i Stockholm (Corte d’Appello Amministrativa di Stoccolma), n. 1968-12, 12 dicembre 2012.

[37] Comitato nazionale per la bioetica, Appendice: Il problema bioetico della sterilizzazione non volontaria, in F. D’Agostino (a cura di), p. 144.

[38] Opinione separata dei giudici Keller e Spano, par. 26

[39]G. Marini, Il consenso, in S. Rodotà, P. Zatti, Ambito e fonti del biodiritto, Giuffré, Milano, 2010, p. 378.

[40] World Health Organization International Classification of Diseases, International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems 10th Revision, Version for 2007. Si veda la subsection F64 (Gender Identity Disorders) inserita sotto Disorders of adult personality and bahaviour within Chapter V: Mental and behavioural disorders

[41] Da un lato infatti vi è chi sostiene che non sembra essere (più) problematico inquadrare la sterilizzazione volontaria nell’ampia sfera degli atti di disposizione del proprio corpo che incontrano il solo limite del consenso informato. S. Amato, Tendenze nichilistiche del diritto moderno: la sterilizzazione, in F. D’Agostino (a cura di), op.cit., p. 11. Contra M. Paradiso il quale, oltre a condannare ogni forma di sterilizzazione forzata o anche soltanto “incoraggiata” dallo Stato, perché contraria alla dignità e alla libertà della persona, rifiuta anche l’ammissibilità della sterilizzazione volontaria. M. Paradiso, op.cit., p. 513.

[42] D’Agostino, Sessualità e diritto, in Bioetica nella prospettiva della filosofia del diritto, Torino, 1996, p. 128.

[43] C. Campiglio nota ad esempio che il diritto degli aspiranti genitori è variamente limitato in principio dal diritto al rispetto della vita privata e familiare del nascituro. E’ ad esempio in nome del diritto del nascituro, prosegue l’autrice, che si è escluso in capo alle coppie omosessuali e ai singoli individui il diritto di accesso alla procreazione assistita. C. Campiglio, ibidem, pp. 151-152.

[44] Platform for Action, punto 96.

[45] Scrive S. Amato: “anche questo è nichilismo: condannare il giurista a lavorare entro un orizzonte frantumato da una pluralità di rivendicazioni soggettive senza che possa chiedersi a quale disegno complessivo conducano”. S. Amato, op.cit., p. 22.

[46] T. Pitch, Un diritto per due, Milano, 1998, pp. 19-21.

[47] “In a plurality, even in an ethical plurality, human rights will not always prevail. Where human rights has to compete with both utilitarian and dignitarian views, there will be different winners and losers in different places at different times […], where a community has a strong cultural identity, the dignitarian view may be dominant”. R. Brownsword, Ethical Pluralism and the Regulation of Modern Biotechnology, in F. Francioni (a cura di) Biotechnologies and International Human Rights, Oxford-Portland, 2007, pp. 53-54.

[48] N. Boschiero, Le biotecnologie tra etica e principi generali del diritto internazionale, in N. Boschiero (a cura di), op.cit., p. 43.

[49] Da questa premessa l’autrice deduce che occorre essere tolleranti nei confronti dei valori diversi che sono espressione di culture giuridiche diverse. Dunque il diritto internazionale, nella sua versione hard, dovrebbe “ritirarsi” il più possibile e lasciare alla domestic jurisdiction degli Stati la disciplina delle materie dai risvolti più sensibili. N. Boschiero, ibidem, pp. 42-43; 120.

[50] C. Campiglio, ibidem, p. 97. Si ricordano qui i sette giudizi dissenzienti nei casi Feldbrugge e Deumeland del 1986 che sottolineano come l’interpretazione evolutiva “n’autorise pas à introduire dans la Convention des notions ou matières entièrement nouvelles car il s’agit là d’une fonction législative qui appartient aux Etats membres”. Sentenza 29 maggio 1986, Feldbrugge c. Paesi Bassi e Deumeland c. Repubblica Federale Tedesca, opinione dissenziente comune di Ryssdal, Bindschedler-Robert, Lagergren, Matscher, Evans, Bernhardt, Gersing, par. 24.

[51] In questo senso la sentenza della Corte di Cassazione italiana, Prima Sezione Civile, n. 15.138/15 del 20 luglio 2015, R.G.N. 25.318/2013

[52] C. Campiglio, Tecniche riproduttive e diritti dell’uomo, op.cit., p. 146-147.

[53] La Corte di Cassazione ritiene comunque indispensabile che l’accertamento del completamento di tale percorso individuale sia compiuto attraverso la “documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici eseguiti dal richiedente, se necessario integrati da indagini tecniche officiose volte ad attestare l’irreversibilità personale della scelta”. Sentenza della Corte di Cassazione, ibidem.

[54] Art. 4.3 della legge argentina (Ley 26.743 establécese el derecho a la identidad de género de las personas, promulgada Mayo 23 de 2012)

[55] Convention on the Rights of the Child adopted and opened for signature, ratification and accession by General Assembly resolution 44/25 of 20 November 1989, entry into force 2 September 1990.

[56] J. Long, Essere genitori transessuali, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2008, 7-8, p. 236. Sul punto E. Falletti, Genitorialità e identità di genere, in A. Schuster (a cura di), Omogenitorialità. Filiazione, orientamento sessuale e diritto, Milano-Udine, 2011, pp. 93-102.

[57]Decisione del 11.01.2011, 1 BVR 3295/07