Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, sezione prima ter, sentenza del 17 maggio 2008

composto dai Signori Magistrati:

Patrizio Giulia Presidente

Salvatore Mezzacapo Consigliere, est.

Fabio Mattei Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 14644/2001 Reg. Gen., proposto  da  V.  L.  e  R.  M., rappresentati e difesi dall’Avv. Nicola Coco  presso  il  cui  studio elettivamente domiciliano in Roma, alla via Treviso n. 31

                               CONTRO

il  Prefetto  della  Provincia  di  Roma,  rappresentato  e    difeso dall’Avvocatura generale dello Stato  presso  la  cui  sede  ex  lege domiciliato

per l’annullamento  dei provvedimenti n. 134/2001 Gab.  e  n.  138/2001  Gab.  comunicati rispettivamente il 14 agosto 2001 ed il 1° agosto 2001 ai  ricorrenti V. e R. con cui la Prefettura di Roma ha statuito di non  dare  corso

alle  istanze  prodotte  dai  ricorrenti  medesimi  ed intese al cambiamento di nome.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Viste le difese delle parti costituite;

Viste le memorie difensive per l’udienza di discussione del ricorso;

Visti gli atti tutti della causa;

Udito alla pubblica udienza del 6 marzo 2008 il magistrato  relatore, Consigliere Salvatore Mezzacapo;

Uditi altresì gli avvocati delle parti costituite come  indicati  nel verbale di udienza;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO e DIRITTO

Rispettivamente in data 31 maggio e 6 giugno 2001 i ricorrenti V. e R. hanno inoltrato ala Prefettura di Roma istanza di cambiamento di nome, indicando le dovute motivazioni. In particolare, le istanze si fondavano sulla condizione di transessualità dei ricorrenti, i quali espongono di aver già da tempo intrapreso un percorso terapeutico e giudiziario per conseguire la rettificazione anatomica del sesso originario ed il conseguente riconoscimento giuridico e civile delle intervenute modificazioni anatomiche. In particolare, il V. ha chiesto il cambiamento del nome di L. (V.) in S. (V.) ed il R. il cambiamento del nome di M. (R.) in I. (R.). Con gli avversati provvedimenti, la Prefettura di Roma ha ritenuto di non dare corso alle istanze di cui è questione, all’uopo richiamando le disposizioni di cui all’art. 35 del D.P.R. n. 396 del 2000 e di cui agli artt. 1 e 2 della legge n. 164 del 1982.

Avverso le due note prefettizie è dunque proposto il presente ricorso a sostegno del quale si deduce innanzitutto violazione e falsa applicazione dell’art. 89, primo comma del citato D.P.R. n. 396 del 2000, che prescrive il diritto al cambiamento del nome o del cognome se ridicolo o vergognoso o perché rivela origine naturale, disposizione ritenuta dai ricorrenti applicabile al caso di specie con riguardo a persone che hanno mutato radicalmente i tratti estetici, espressivi, comportamentali, di abbigliamento e gli stesso caratteri sessuali secondari (ad es., il seno) a fronte del permanere di documenti ed atti certificativi recanti generalità tanto dissimili. Si deduce poi eccesso di potere e carenza assoluta di motivazione, con particolare riguardo all’errata – a giudizio di parte ricorrente – riconduzione della fattispecie da parte della resistente Amministrazione nell’alveo della legge n. 164 del 1982, la quale disegna una procedura del tutto distinto da quella, di cui all’art. 89 citato, di contro invocata dai ricorrenti. Da ultimo si deduce violazione e falsa applicazione di legge ed ancora eccesso di potere, con particolare riguardo alla tutela del diritto all’immagine collegato con il diritto ad un complessivo stato di benessere psico-fisico ed alle relazioni esterne dell’individuo.

Si è costituita in giudizio la Prefettura di Roma affermando la infondatezza del proposto ricorso e concludendo perché lo stesso venga respinto.

Alla pubblica udienza del 6 marzo 2008 la causa è rimessa in decisione, in esito alla discussione orale.

Il ricorso non è fondato e va, pertanto, respinto.

La questione all’esame del Collegio verte sulla attribuibilità di un nome ad un soggetto in discrasia rispetto al sesso del medesimo, pur interessato (il richiedente il cambio di nome) da un più o meno avanzato percorso terapeutico e giudiziario per conseguire la rettificazione anatomica del sesso originario ed il conseguente riconoscimento giuridico e civile delle intervenute modificazioni anatomiche. Gli odierni ricorrenti ritengono, in sostanza, che la questione deve essere risolta alla luce dell’art. 89 del D.P.R. n. 396 del 2000; di contro la resistente Amministrazione afferma che la questione va risolta alla luce della speciale disciplina di cui alla legge n. 164 del 1982.

Orbene, l’invocato art. 89 del D.P.R. n. 396 del 2000, recante il regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, stabilisce che “salvo quanto disposto per le rettificazioni, chiunque vuole cambiare il nome o aggiungere al proprio un altro nome ovvero vuole cambiare il cognome perché ridicolo o vergognoso o perché rivela origine naturale, deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui circoscrizione è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce“. Nella domanda si deve indicare la modificazione che si vuole apportare al nome o al cognome oppure il nome o il cognome che si intende assumere.

Ciò detto, ritiene il Collegio che l’invocato art. 89 non sia nel caso di specie applicabile. Nella presente controversia non si tratta, infatti, di cambiamento di nome in quanto – in sé considerato – ridicolo o vergognoso, bensì di cambiamento di nome in forza ed in ragione di un percorso che conduce, ma non ha ancora condotto, alla rettificazione di sesso. Ciò senza voler disconoscere che, con riguardo a soggetto che ha in avanzato stato di maturazione il proprio non facile percorso psico-fisico che conduce al mutamento di sesso, il nome di genere maschile può essere fonte di disagio, di imbarazzo avuto appunto riguardo ai nuovi tratti estetici e non solo della persona interessata (tuttavia non definitivi). In altri termini, il cambiamento di nome consentito ex art. 89 citato presuppone l’invarianza del genere e dunque la disposizione in questione non è utilizzabile per il mutamento da nome maschile a femminile. Detta disposizione, così interpretata, è peraltro coerente con il disposto dell’art. 35 dello stesso D.P.R. del 2000, a mente del quale il nome imposto deve corrispondere al sesso. Ed allora l’evenienza del mutamento di nome da maschile a femminile è configurabile, nel vigente quadro normativo di riferimento, esclusivamente in esito a rettificazione di sesso, giusta la speciale disciplina di cui alla legge n. 164 del 1982.

Ai sensi dell’art. 1 della legge 14 aprile 1982 n. 164, recante norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali“. Il quinto comma dell’art. 2 dispone poi che “con la sentenza che accoglie la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso il tribunale ordina all’ufficiale di stato civile del comune dove fu compilato l’atto di nascita di effettuare la rettificazione nel relativo registro“. La rettificazione del prenome è quindi consequenziale alla rettificazione dell’attribuzione di sesso. Anche se, come è stato osservato in giurisprudenza, “il nome non va, peraltro, necessariamente mutato convertendolo in accordo con il sesso scaturente dalla rettificazione: a parte la considerazione che non sempre tale conversione è possibile, quanto meno in termini agevoli ed univoci, il tribunale deve tener conto del nuovo prenome, pur se del tutto diverso dal prenome precedente, indicato dal transessuale, ove tale indicazione sia legittima e conforme al nuovo stato” (così, Tribunale Salerno, 05 marzo 1998).

Con i suesposti argomenti il Collegio non intende certo riprendere la risalente tesi per cui l’identità sessuale è soltanto quella determinata dagli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita, o modificati per naturale evoluzione ancorché coadiuvata da interventi chirurgici diretti ad evidenziare organi già esistenti ed a promuoverne il normale sviluppo. Tesi questa che, coerentemente, arrivava a non ritiene neppure ipotizzabile il mutamento di sesso del transessuale, dal momento che la nuova identità sessuale conseguente alla modificazione anatomica ottenuta con l’intervento chirurgico è puramente apparente in quanto non dovuta a cause naturali. Di contro, il Collegio condivide la linea interpretativa sviluppata dalla Corte costituzionale secondo cui il legislatore italiano ha accolto, con la citata legge n. 164 del 1982, un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, nel senso che ai fini di una tale identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero “naturalmente” evolutisi, sia pure con l’ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale. Presupposto della normativa citata è, dunque, la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando – poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa, ma quantitativa – il o i fattori dominanti. E tuttavia questa preferibile lettura del concetto di identità sessuale non può condurre a ritenere praticabile la procedura del mutamento di nome ex art. 89 citato, altro essendone – come si è visto – l’ambito di applicazione.

In definitiva, ritiene il Collegio che, in ragione della vigente disciplina, debba ritenersi corretto l’operato della Prefettura di Roma che ha ritenuto di non dare corso alle istanze dei ricorrenti intese al mutamento di nome da maschile a femminile al di fuori della speciale procedura di cui alla legge n. 164 del 1982.

Il Collegio respinge dunque il ricorso in esame poiché infondato.

Sussistono giusti motivi per compensare integralmente fra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione interna Prima Ter

RESPINGE il ricorso di cui in epigrafe.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 6 marzo 2008.

DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 17 MAG. 2008.