Tribunale di Torino, settima sezione civile, decreto del 18 maggio 2009

Composto dagli Ill.mi Signori:

Dott. Pier Giorgio Algostino   PRESIDENTE

Dott. M.Francesca Christillin  GIUDICE

Dott. Silvia Orlando                  GIUDICE REL.

ha pronunciato il seguente

DECRETO

nel  procedimento  di volontaria giurisdizione iscritto al n. 7128/08 R.G. avente  per  oggetto:  ricorso  avverso  il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di effettuare le pubblicazioni matrimoniali.

Promosso da: D.A.A.  e  G.V.D., residenti in Torino, ivi elettivamente domiciliate in  via  V.A.,  presso  lo  studio  dell’Avv.  Michele  Potè  che  le rappresenta  e difende unitamente all’Avv. Francesco Bilotta del Foro di Trieste.                                                  – PARTE RICORRENTE –

contro

SINDACO  DEL  COMUNE DI TORINO nella qualità di Ufficiale di Governo,

e  occorrendo  MINISTERO  DELL’INTERNO,  in  persona del Ministro pro tempore,  rappresentati  e  difesi  dall’Avvocatura  dello  Stato  di Torino, domiciliataria in corso S.U..- PARTE RESISTENTE –

con l’intervento del PUBBLICO MINISTERO

Camera di Consiglio del giorno 18.5.2009.

Fatto

Con ricorso depositato in data 5.12.2008 D.A.A. e G.V.D. esponevano che: il 10.10.2008 l’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Torino rilasciava formale diniego alla richiesta di pubblicazioni di matrimonio presentata in pari data dalle ricorrenti, entrambe di sesso femminile, con motivazione consistente nella mancata previsione nel nostro ordinamento di alcuna norma al riguardo; la motivazione dell’atto si prestava ad una serie di rilievi in punto di diritto perché: a) non esisteva nel nostro ordinamento una nozione di matrimonio, b) non esisteva nel nostro ordinamento un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso non essendo prevista tra i requisiti per contrarlo la “disparitas sexus”, c) l’interpretazione letterale delle norme codicistiche che sembrava supportare l’atto di diniego alle pubblicazioni di matrimonio da parte del Comune di Torino era contraria alla Costituzione italiana; in ordine al punto a), nessun Paese al mondo fino a qualche decennio fa aveva creato norme che prevedessero l’unione tra persone dello stesso sesso, con il che era evidente che costituiva una semplice convenzione verbale quella di usare il termine marito e moglie in alcune norme del codice civile, convenzione verbale che rispecchiava la società in cui il nostro codice civile era stato concepito e che non trovava un riscontro analogo nella società attuale dove era ben concepibile che due persone dello stesso sesso si unissero in matrimonio; non si poteva sovrapporre l’istituto matrimoniale con quello della filiazione affermando che sarebbe naturale per due persone che si sposano procreare, in quanto rapporto coniugale e rapporto di filiazione erano due relazioni giuridiche distinte tendenzialmente coesistenti anche se l’esitenza dell’uno non comportava necessariamente l’esistenza dell’altro e non era possibile inferire la necessità di una differenza di sesso tra i nubendi dalle norme in materia di filiazione; la verità era che, come aveva stabilito la Corte d’Appello di Roma con decreto 13 luglio 2006, il matrimonio non era definito nella Costituzione italiana né nel codice civile e neppure nelle leggi speciali che nel tempo avevano regolamentato l’istituto, pertanto l’interprete era chiamato ad individuarne il contenuto essenziale con un’attenta considerazione dell’evoluzione che l’istituto poteva avere avuto nel costume sociale, utilizzando tutti i criteri di interpretazione di cui all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, fra il quali il criterio evolutivo; come aveva riconosciuto la Corte d’Appello vi era la possibilità di un’interpretazione evolutiva dell’istituto in mancanza di un divieto espresso rispetto alle nozze tra due persone dello stesso sesso; la tradizione interpretativa che riteneva inesistente il matrimonio tra due persone dello stesso sesso non teneva conto della mutata realtà sociale e normativa, visti gli statuti regionali italiani tra cui quello della Regione Toscana e le norme di fonte comunitaria oggi esistenti che facevano chiaro ed esplicito riferimento alle unioni tra persone dello stesso sesso, attribuendo loro giuridica rilevanza; la convinzione diffusa dell’esistenza di una regola inespressa e non tradotta in alcuna norma di diritto scritto concernente la necessaria differenza di sesso tra i nubendi era basata solo su opinioni dottrinali e su alcuni obiter dicta; la Corte di Cassazione mai aveva affrontato la questione della differenza di sesso tra i nubendi ex professo come questione principale e non incidentale in una sua pronuncia; in ordine al punto b), nel codice civile non vi era alcuna norma espressa che prevedesse la differenza di sesso come presupposto per la celebrazione del matrimonio; ciononostante alcuni articoli venivano costantemente interpretati desumendone quella regola; non applicare le norme dell’istituto matrimoniale ad una coppia omosessuale generava un contrasto con il principio cardine del nostro sistema di diritto privato, ossia il rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali (tra cui il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia), con il principio di non discriminazione (ricavabile a livello sistematico dall’art. 3 comma 2 Cost), con il principio di libertà e di autodeterminazione che caratterizzava tutti gli Stati democratici occidentali (iscritto nell’art. 13 della Carta costituzionale e in base al quale lo Stato né attraverso il potere legislativo, né attraverso il potere giudiziario, né a maggior ragione attraverso il potere esecutivo poteva intromettersi nelle scelte di vita dei cittadini); il principio di necessaria tipicità delle norme che limitavano la libertà personale caratterizzava il nostro sistema e quindi l’assenza di un divieto legislativo rispetto al matrimonio tra persone dello stesso sesso comportava l’impossibilità di desumere l’esistenza di un impedimento al tal matrimonio in via interpretativa; nei casi in cui la libertà personale rischiava di essere ristretta, la magistratura non poteva sfuggire al principio di necessaria tipicità, mentre nei casi in cui in via interpretativa si poteva ampliare il novero delle libertà personali, in assenza di una norma di legge, la magistratura poteva pienamente dispiegare il suo ruolo istituzionale a garanzia dei diritti fondamentali, richiamandosi ai principi generali regolanti l’ordinamento; in ordine al punto c), non interpretare evolutivamente le norme in materia di matrimonio creava -a fronte di una situazione sul piano oggettivo (vita in comune) e soggettivo (reciproco affetto e scelta di condividere le proprie esistenze) assolutamente identica sia che si trattasse di una coppia eterosessuale sia che si trattasse di una coppia omosessuale – una disparità di trattamento assolutamente irragionevole e ingiustificata alla luce dell’art. 3 Cost., anzi in spregio a questa norma assumeva l’orientamento sessuale, che era una condizione personale su cui non si poteva fondare alcun trattamento deteriore, a presupposto per una chiara discriminazione, stigmatizzata a livello europeo in tutte le sedi; comportava inoltre una violazione dell’art. 2 della Costituzione; l’art. 29 della Costituzione, nel rinviare all’istituto del matrimonio, non descriveva affatto le caratteristiche del matrimonio storicamente esistenti al momento dell’elaborazione del testo della Carta fondamentale, si limitava soltanto a riconoscere alla famiglia fondata sul matrimonio una speciale protezione a preferenza delle altre formazioni sociali di carattere affettivo, quali le convivenze; considerare eterosessuale il matrimonio di cui all’art. 29 Cost., perché tale era indefettibilmente al momento dell’elaborazione di quell’articolo, comportava adottare un’interpretazione della norma che prescindeva dal piano letterale, giacchè l’art. 29 Cost. non sanciva che il matrimonio potesse essere contratto esclusivamente da persone di sesso diverso, inoltre la riforma del 1975 aveva a tal punto modificato l’istituto del matrimonio che era evidente che la nozione di matrimonio accolta dall’art. 29 Cost. doveva essere costantemente aggiornata alla luce delle modificazioni legislative e dall’interpretazione delle norme vigenti; doveva essere poi considerato il valore intrinsecamente costituzionale rivestito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, siglata a Nizza nel dicembre 2000, la quale garantiva all’art. 9 il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia e dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo; negando il diritto al rispetto della vita privata del cittadino italiano e alla sua scelta di vita, consistente nel legarsi stabilmente con una persona del proprio sesso, si determinava una violazione del principio di non discriminazione, pure sancito dalla Carta di Nizza e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, incorporato nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 10 comma 2 Cost..

Chiedevano pertanto di “ordinare all’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Torino di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dalle ricorrenti, previa valutazione della rilevanza e non manifesta infondatezza della legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143 bis, 156 bis c.c., rispetto agli artt. 2, 3, 10 comma 2, 13, 29 Cost., al fine dell’eventuale rimessione degli atti alla Corte Costituzionale”.

Il Pubblico Ministero nulla opponeva.

Si costituivano il Sindaco del Comune di Torino, nella qualità di Ufficiale di Governo, e occorrendo il Ministero dell’Interno in persona del Ministro pro tempore, esponendo che: era inapplicabile alla fattispecie lo speciale procedimento di ricorso previsto dall’art. 98 c.c. per l’ipotesi di rifiuto dell’Ufficiale di Stato Civile di procedere alle pubblicazioni di matrimonio; detto particolare rimedio comportava infatti che, a fronte di un atto amministrativo, il Tribunale in sede di volontaria giurisdizione potesse operare un controllo volto non all’accertamento di diritti soggettivi, ma alla verifica della corretta attuazione delle proprie funzioni da parte dell’autorità amministrativa; nel caso in esame al contrario non si contestava che l’Ufficiale di Stato Civile avesse correttamente adempiuto agli obblighi del suo ufficio, ma l’accertamento della possibilità nel sistema ordinamentale italiano di celebrare un valido matrimonio tra nubendi dello stesso sesso; la domanda avrebbe dovuto essere proposta in sede di giurisdizione ordinaria, con tutte le conseguenze in punto di legittimazione passiva e di competenza; ne discendeva l’inammissibilità del ricorso in questa sede proposto dai ricorrenti; nel merito, l’evoluzione normativa e sociale presente in altri Paesi non poteva ritenersi traslata nell’ordinamento italiano, dove doveva ritenersi diritto vivente quello che considerava indispensabile e naturale la diversità di sesso per accedere ad un istituto tradizionale, quale è quello matrimoniale, le cui origini si rinvenivano ben prima del varo del codice civile; a riprova di quanto sostenuto, la Corte d’Appello di Firenze nel decreto 27 maggio 2008 aveva affermato che era incontrovertibile la circostanza che tutta la normativa positiva afferente all’istituto matrimoniale, sia quella codicistica, sia quella speciale, sia infine quella di rango costituzionale, facessero espresso riferimento all’unione tra persone di sesso diverso, così come era facilmente intuibile che né il legislatore del 1942 nè quello costituzionale né quello del 1975 per evidenti ragioni storiche, potessero raffigurarsi una disciplina positiva di unioni tra persone dello stesso sesso; affermata la natura pubblicistica dell’istituto matrimoniale, come tale sottratto ad un’interpretazione creatrice della giurisprudenza e la cui disciplina era riservata al potere legislativo, la stessa Corte ricordava che la previsione normativa da un lato non violava alcun diritto fondamentale del singolo cittadino e dall’altro non escludeva affatto de jure condendo che il leglsatore potesse farsi inteprete del mutato sentire del corpo sociale e legiferare nel senso auspicato dai reclamanti; il nostro legislatore, nonostante gli interventi di riforma, aveva ritenuto di conservare la terminologia di marito e moglie nella normativa relativa all’istituto matrimoniale e gli artt. 107, 108, 143, 143 bis, 143 ter, 156 bis, atteso il chiarissimo dato testuale, non potevano prestarsi ad interpretazione di sorta; un istituto di diritto positivo e di natura pubblicistica come quello in esame in tanto poteva essere applicato in quanto se ne rispettassero in limiti e i connotati previsti dal legislatore; peraltro la sussistenza di un divieto espresso di matrimonio tra persone dello stesso sesso era ritenuta principio di diritto vigente nel comune sentire e nella comune applicazione della relativa disciplina, come dimostrato tra l’altro dalla Circolare n.15100/397/0009861 del 18 ottobre 2007 del Ministero dell’Interno, ove si leggeva “si ricorda che in mancanza di modifiche legislative in materia, il nostro ordinamento non ammette il matrimonio omosessuale”; ricordava la citata pronuncia della Corte d’Apello di Firenze che la disciplina di ciò che non era previsto dalla normativa positiva non poteva essere disciplinata dal Giudice, attraverso una attività di vera e propria creazione, ma doveva essere riservata al legislatore; l’affermazione era pienamente coerente con la natura pubblicistica dell’istituto; del resto erano noti gli effetti del matrimonio su altri istituti fondamentali nella struttura ordinamentale come la filiazione, l’adozione, la materia successoria, le conseguenze penali di una condotta di bigamia, con la conseguenza che non era dubitabile la rilevanza di ordine pubblico interno dell’istituto in esame; non apparivano affatto rilevanti i richiami fatti dalla parte ricorrente ai diritti fondamentali della persona, considerato che nel caso in esame non erano in discussione diritti fondamentali dell’individuo, né poteva ritenersi violato il principio di uguaglianza essendo giustificata la scelta legislativa di predisporre un diverso trattamento giuridico per situazioni niente affatto uguali; non erano pertinenti né fondati i richiami alla legislazione sopranazionale e l’affermata violazione dell’art. 10 comma 2 Cost, in quanto la Comunità Europea si era ben guardata dal legiferare sul punto per tutti i Paesi membri; anzi, in senso contrario a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, poteva ricordarsi l’art. 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo secondo cui “A partire dall’età maritale, l’uomo e la donna hanno diritto di sposarsi e di formare una famiglia, secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di questo diritto”; detto articolo era stato interpretato dalla Corte di Giustizia (sentenza 30.6.1998) nel senso che il diritto di sposarsi garantito dall’art. 12 si riferiva al tradizionale matrimonio tra persone di opposto sesso biologico.

Chiedevano di “Dichiararsi inammissibile e in ogni caso rigettarsi il ricorso perché infondato”.

All’udienza del 6.4.2009 le parti richiamavano le istanze già formulate; parte ricorrente in via subordinata chiedeva la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale.

Le ricorrenti agiscono ai sensi degli artt. 98 codice civile e 95 DPR 396/2000 con ricorso avverso il rifiuto dell’Ufficiale di Stato Civile di effettuare le pubblicazioni matrimoniali.

In particolare l’Ufficiale dello Stato Civile del Comune di Torino, avendo ricevuto richiesta di procedere alle pubblicazioni con riferimento al matrimonio tra le ricorrenti, entrambe di sesso femminile, ha rifiutato la richiesta rilasciando il certificato 10.10.2008 ove il rifiuto è motivato nel senso che la pubblicazione di matrimonio con una cittadina dello stesso sesso non è prevista dalla legge italiana.

Il ricorso è ammissibile in quanto espressamente previsto dall’art. 98 del codice civile -“L’ufficiale dello stato civile che non crede di poter procedere alla publlicazione rilascia un certificato coi motivi del rifiuto. Contro il rifiuto è dato ricorso al tribunale, che provede in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero” – e dall’art. 95 del DPR n.396/2000 – “Chi intende …opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento”.

Il ricorso avverso il rifiuto a procedere alle pubblicazioni di matrimonio consente al Tribunale di accertare se l’Ufficiale di Stato Civile abbia agito legittimamente e in conformità alle norme dell’ordinamento giuridico.

In quest’ambito è ammissibile la domanda delle ricorrenti e sono altresì ammissibili l’esame e l’interpretazione delle norme concernenti l’istituto del matrimonio.

Nel merito, la domanda è infondata e viene rigettata.

L’Ufficiale di Stato Civile, rifiutando di procedere alle pubblicazioni di matrimonio richieste dalle ricorrenti, ha agito legittimamente e in conformità alle norme dell’ordinamento giuridico italiano.

La Circolare del Ministero dell’Interno n. 55 del 18.10.2007, non vincolante per il Tribunale ma avente effetti nei confronti dell’Ufficiale di Stato Civile, precisa che “in mancanza di modifiche legislative in materia, il nostro ordinamento non ammette il matrimonio omosessuale” e con riferimento al caso specifico di richiesta di trascrizione in Italia di matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso aggiunge che “la richiesta di trascrizione di un simile atto compiuto all’estero deve essere rifiutata perché in contrasto con l’ordine pubblico interno”.

La legislazione ordinaria italiana effettivamente non contempla il matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma esclusivamente il matrimonio tra persone di sesso diverso; una indicazione chiara e inequivocabile in tal senso è fornita dalla terminologia “marito e moglie” -applicabile con evidenza solo a due persone delle quali una di sesso maschile e una di sesso femminile- utilizzata dal legislatore ordinario in diverse norme relative all’istituto del matrimonio, prima fra tutte l’art. 107 del codice civile.

Tale articolo prevede la forma della celebrazione del matrimonio e dispone che l’ufficiale dello stato civile riceve da ciascuno degli sposi la dichiarazione che essi si vogliono prendere rispettivamente “in marito e in moglie”; pertanto solo in presenza di nubendi di sesso diverso, che possano dichiarare di volersi prendere rispettivamente in marito e in moglie, potrà essere celebrato il matrimonio; l’art. 108 c.c. richiama la dichiarazione degli sposi di prendersi rispettivamente “in marito e in moglie” per statuire che la stessa non può essere sottoposta a termine o a condizione; l’art. 143 c.c. relativo ai diritti e ai doveri dei coniugi dispone che con il matrimonio “il marito e la moglie” acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; l’art. 143 bis c.c. relativo al cognome della moglie dispone che la “moglie” aggiunge al proprio cognome quello del “marito”; l’art. 143 ter c.c., poi abrogato dalla legge n. 91/92, disponeva che “la moglie” conservava la cittadinanza italiana anche se per effetto del matrimonio o del mutamento di cittadinanza da parte del “marito” assumeva una cittadinanza straniera; l’art. 156 bis c.c. relativo al cognome, dispone che il giudice può vietare alla “moglie” l’uso del cognome del “marito”. Del pari fanno riferimento al “marito” e alla “moglie” le disposizioni relative alla filiazione (artt. 231 e ss. c.c.).

Tali disposizione legislative individuano inequivocabilmente gli sposi come due persone di sesso diverso; presuppongono pertanto con certezza una nozione di matrimonio riferita a persone di sesso diverso e non riferibile a persone dello stesso sesso.

A fronte di tali chiari indici normativi non rileva che il legislatore non abbia previsto espressamente la differenza di sesso tra i nubendi come condizione per contrarre matrimonio.

Il quadro legislativo delineato evidenzia che la diversità di sesso tra i nubendi è requisito minimo essenziale del matrimonio, in assenza del quale non è configurabile il matrimonio nell’ordinamento italiano.

L’orientamento della giurisprudenza è univoco in questo senso.

La Corte di Cassazione, nella sentenza n.7877 del 9.6.2000, ha statuito che “La categoria dell’inesistenza, per distinguerla da quella dell’invalidità, richiede necessariamente dei riferimenti ad aspetti fattuali e ricorre pertanto quando manchi “quella realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie” (Cass. 1808/76) e che nel matrimonio è ravvisabile in assenza dei requisiti minimi essenziali, costituiti dal fatto che due persone di sesso diverso abbiano manifestato la volontà matrimoniale davanti ad un ufficiale celebrante”.

La sentenza richiamata da tale pronuncia, n.1808 del 20.5.1976, ha ritenuto che l’inesistenza del matrimonio si ravvisa “solamente nella mancanza della realtà naturalistica della fattispecie, i cui requisiti minimi sono dati dalla presenza di due persone di sesso diverso, manifestanti la volontà matrimoniale all’ufficiale celebrante”.

Con pronuncia più recente la Corte d’Appello di Roma – decreto 13.7.2006 – ha deciso essere legittimo il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di trascrivere il matrimonio contratto all’estero da due cittadini italiani dello stesso sesso in quanto “tale unione non presenta uno dei requisiti essenziali per la sua configurabilità come matrimonio nell’ordinamento interno, cioè la diversità di sesso tra gli sposi”. Così come il Tribunale di Latina in primo grado – decreto 10.6.2005 – aveva ritenuto legittimo detto rifiuto dell’ufficiale di stato civile dovendo “tale negozio giuridico ritenersi inesistente per l’ordinamento italiano per difetto di un requisito naturalistico essenziale”.

La Corte d’Appello di Firenze con decreto 27.5.2008 ha respinto il reclamo avverso il decreto del Tribunale che – in causa analoga alla presente – aveva rigettato il ricorso contro il rifiuto dell’Ufficiale di Stato Civile di effettuare le pubblicazioni matrimoniali tra persone dello stesso sesso, ritenendo che “sia incontrovertibile la circostanza che tutta la normativa positiva afferente all’istituto matrimoniale, sia quella codicistica, sia quella speciale, sia infine quella di rango costituzionale, facciano espresso riferimento alla unione tra persone di sesso diverso; così come è facilmente intuibile che né il legislatore del 1942, né quello costituzionale, né quello del 1975, per evidenti ragioni storiche, potessero raffigurarsi una disciplina positiva di unioni fra persone dello stesso sesso”.

Lo stesso Tribunale di Venezia, nel recentissimo provvedimento del 4.2.2009, che ha trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale con decisione che sul punto non si condivide, ha comunque ritenuto che l’istituto del matrimonio, così come previsto nell’attuale ordinamento italiano, si riferisca indiscutibilmente solo al matrimonio tra persone di sesso diverso e che non sia possibile operare un’estensione dell’istituto del matrimonio anche a persone dello stesso sesso in quanto si tratterebbe di una forzatura non consentita ai giudici ordinari.

A fronte del quadro normativo evidenziato il Giudice non può pertanto consentire la celebrazione di un matrimonio tra persone dello stesso sesso, con un intervento “creativo” che solo il legislatore potrebbe attuare.

Esclusivamente il legislatore e non il Giudice può scegliere, prendendo atto dell’evoluzione dei costumi e del cambiamento della società, se attribuire rilevanza e in quale forma alle convivenze omosessuali.

Questo Tribunale non ravvisa profili di illegittimità costituzionale della legislazione ordinaria con riferimento alle norme che non consentono il matrimonio tra persone del medesimo sesso (nello stesso senso ha ritenuto la Corte d’Appello di Firenze nel decreto 27.5.2008 già citato).

Non sussiste alcun contrasto con l’art. 29 della Costituzione, che si limita a riconoscere i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, non definisce il matrimonio – pur essendo stato al momento dell’approvazione della Costituzione evidentemente preso in esame l’unico modello di matrimonio concepibile all’epoca, ovvero quello tradizionale tra persone di sesso diverso – e non riconosce in alcun modo il matrimonio tra persone dello stesso sesso né impone al legislatore di prevedere l’istituto del matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Non sussiste contrasto con l’art. 3 della Costituzione, che consente al legislatore di disciplinare in modo differente situazioni di fatto diverse, come nel caso delle convivenze omosessuali rispetto alla famiglia tradizionale fondata sul matrimonio tra persone di sesso diverso.

Non sussiste contrasto con l’art. 2 della Costituzione, non essendo in discussione i diritti fondamentali dell’individuo tutelati da tale norma, né con l’art. 13 non venendo in esame limitazioni della libertà personale.

Nel caso in esame la legislazione ordinaria non impone una limitazione o una compressione al diritto dell’individuo di effettuare scelte relative alla vita sessuale e affettiva corrispondenti alla sua natura omosessuale, non vieta di intrattenere relazioni omosessuali, non vieta di intraprendere convivenze omosessuali, né determina una restrizione della libertà personale.

Non sussiste infine contrasto con l’art. 10 della Costituzione, non esistento norme del diritto internazionale generalmente riconosciute che impongano al singolo Stato di prevedere il matrimonio tra persone dello stesso sesso; l’evoluzione normativa di alcuni Stati nel senso di consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso non può ritenersi in alcun modo vincolante per tutti gli altri Stati; né vi sono norme dell’Unione Europea che impongano ai Paesi membri di prevedere il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo citata dalle ricorrenti, lungi dal riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso, dispone all’art. 12 che uomini e donne, in età adatta, hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale; così come al diritto di sposarsi fa riferimento la Carta di Nizza.

La normativa sovranazionale non contempla un diritto al matrimonio omosessuale ma demanda ai singoli Stati di disciplinare l’istituto del matrimonio.

Le domande di parte ricorrente vengono pertanto rigettate.

Le spese del procedimento seguono la soccombenza e sono poste a carico di parte ricorrente.

P.Q.M.

Il Tribunale di Torino, respinta ogni diversa istanza, eccezione e deduzione,

– rigetta le domande proposte dalle ricorrenti;

– condanna la parte ricorrente a rifondere alla parte convenuta le spese del procedimento, che liquida in euro 1.800 di cui euro 690 per diritti, euro 1.110 per onorari, oltre IVA e CPA.

Così deciso nella Camera di Consiglio della settima sezione civile del Tribunale di Torino in data 18.5.2009.

IL GIUDICE ESTENSORE                                                                                                                                                                       IL PRESIDENTE

d.ssa Silvia Orlando