Categoria: commenti

Grande Chambre: nel Caso Macaté contro Lituania la Cedu affronta la questione della raffigurazione di coppie same sex in libri per bambini

di Lorenzo Micheleucci

 

La sentenza della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, nel caso Macaté c. Lituania (ricorso n. 61435/19), pubblicata il 23 gennaio 2023, presenta elementi di grande novità in materia di libertà d’espressione, per come sancita dall’art. 10 CEDU, con un’attenzione particolare alle restrizioni che la stessa può subire da parte degli Stati della Convenzione, in ragione di misure necessarie alla protezione della morale ai sensi del secondo paragrafo. Nel dettaglio, per la prima volta la Corte ha trattato di restrizioni imposte alla letteratura per bambini in caso di tematiche concernenti le relazioni tra persone dello stesso sesso, pronunciandosi per l’illegittimità di limitazioni della libertà di espressione adottate da uno Stato. Una scelta decisamente incisiva nella sfera parzialmente discrezionale del singolo Stato, rafforzata, oltretutto, dal voto unanime dei giudici di Strasburgo in merito alla piena violazione dell’articolo 10.

In breve, oggetto della vertenza è un libro per bambini in lingua lituana (tradotto in inglese “Amber Heart”) composto da diversi racconti, tra cui due aventi anche ad oggetto l’innamoramento tra due personaggi dello stesso sesso. L’autrice, Neringa Dangvydė Macatė, era una scrittrice professionista e specialista in letteratura per bambini, oltreché attivista per i diritti LGBTI+ apertamente omosessuale, purtroppo deceduta il 21 marzo 2020, prima di venire a conoscenza della pronuncia favorevole al suo ricorso.

Il libro di fiabe in questione, nonostante fosse il frutto di un progetto approvato con finanziamenti del Governo lituano e pubblicato dall’Università Lituana di Scienze della Formazione, a seguito di diverse polemiche da parte di esponenti politici e di indagini espletate da un’apposita autorità di vigilanza, veniva dapprima sospeso nella pubblicazione ed in un secondo momento censurato attraverso l’apposizione obbligatoria su ogni copia della dicitura “sconsigliato ai minori di anni 14”, sulla base di una legge sulla protezione dei minori che considera pericolose per i minori tutte le informazioni accessibili al pubblico che incoraggino forme di matrimonio o famiglia differenti da quelle previste dal Codice civile lituano o dalla Costituzione.

Analizzando nello specifico l’azione dello Stato lituano alla luce dell’art. 10 § 2 CEDU, la Corte ha ricostruito (more…)

Grande Chambre, Fedotova e altri c. Russia: riaffermato l’obbligo degli stati firmatari della CEDU di riconoscere le coppie dello stesso sesso

 

di Lorenzo Michelucci

Il 17 gennaio 2023, la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha emesso l’attesa sentenza nel caso Fedotova e altri c. Russia (n. 40792/10, 30538/14 e 43439/14), avente come fulcro principale il quesito sul se la Convenzione europea dei diritti dell’uomo comporti un obbligo positivo generale di fornire a coppie dello stesso sesso una forma di riconoscimento legale (che si tratti di matrimonio o – il più possibile – equivalente)

Sebbene il tema della tutela e riconoscimento giuridico delle same-sex couple non sia certo una novità per la Corte, questa è la prima volta in cui la stessa ha riposto direttamente ad un quesito così cruciale nella composizione di Grande Camera, con tutte le conseguenze, ben note, che comporterà in quanto sentenza pilota e massima espressione dell’interpretazione conforme alla Convenzione.

Per inciso, inoltre, questa è stata anche la prima decisione della Corte EDU nei confronti della Stato russo dopo che quest’ultimo ha cessato di essere parte della CEDU (16 settembre 2022) e membro del Consiglio d’Europa (16 marzo 2022).

Ebbene, con quattordici voti contro tre, la Corte ha accertato una violazione dell’art. 8 CEDU da parte della Federazione Russa in quanto non in grado di giustificare l’assenza di mezzi di riconoscimento giuridico disponibili per le coppie omosessuali a causa di motivi di interesse pubblico. La Russia si era infatti basata su motivi quali: l’importanza della “famiglia tradizionale”, le opinioni negative espresse dalla maggioranza dei russi e la protezione dei minori dalla promozione dell’omosessualità. Tuttavia, la Corte ha escluso di poter accettare tali giustificazioni in quanto rivelatesi nulla più di una generale disapprovazione morale nei confronti delle unioni omosessuali (cfr. par. 217, in cui la Corte ha affermato che non poteva «avallare politiche e decisioni che incarnavano un pregiudizio predisposto da parte di una maggioranza eterosessuale contro una minoranza omosessuale» e che «le tradizioni, gli stereotipi e gli atteggiamenti sociali prevalenti in un determinato paese non possono, da soli, essere considerati una giustificazione sufficiente»).

Inoltre, ad avviso della Grande Camera, la Russia ha mancato pure di identificare un danno oggettivo, individuale o sociale, causato dal riconoscimento delle unioni omosessuali: «Nel caso di specie, non vi è motivo di ritenere che il riconoscimento giuridico e la protezione delle coppie omosessuali in un rapporto stabile e impegnato possano di per sé danneggiare le famiglie costituitesi in modo tradizionale o comprometterne il futuro o l’integrità» (par. 212).

La Corte ha così riconosciuto inequivocabilmente l’esistenza di un obbligo generale positivo, scaturente appunto dalla portata intrinseca dell’art. 8 CEDU, con inevitabili ricadute di portata erga omnes ben oltre il caso in esame. In tal modo, è stato operato un consolidamento della giurisprudenza precedente, frutto anche di una «chiara tendenza in atto» (clear ongoing trend) volta ad un pieno consenso, da parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa (30 su 46 membri del CdE), al riconoscimento giuridico delle coppie formate da individui dello stesso sesso. Un punto, questo sul consenso, tra l’altro assente nella decisione adottata precedentemente dalla Terza Sezione della Corte europea.

In merito alla ricostruzione operata dai Giudici di Strasburgo, si legge come l’art. 8 vada ritenuto applicabile non solo nel suo senso tradizionale, ma anche quale diritto di condurre una «vita sociale privata», cioè il diritto di sviluppare la propria identità sociale (par. 143-144). La Corte descrive questo diritto come «la possibilità di avvicinarsi ad altre persone per stabilire e sviluppare relazioni» (ibid.). Se applicato alla situazione delle coppie dello stesso sesso, ciò equivale essenzialmente all’idea che l’orientamento sessuale ha non solo una dimensione privata ma anche pubblica e che le coppie dello stesso sesso dovrebbero essere, in linea di principio, libere e in grado di decidere come presentarsi alla società.

Tornando poi al punto sul consenso della maggioranza degli Stati, è interessante notare come il suo uso sia stato fortemente criticato dal giudice dissenziente Wojtyczek. Secondo il suo parere, la Grande Camera si è basata sul consenso per innescare un «importante cambiamento del paradigma della protezione dei diritti» e «aggiungere nuovi diritti» alla Convenzione, poiché il trattato era originariamente progettato per proteggere esclusivamente le coppie e le famiglie di sesso diverso (par. 3.3). Di conseguenza, a tale opera interpretativa si opporrebbe la necessaria condizione di modifica del Trattato, come ovvio non appannaggio della Corte.

Tuttavia, in Fedotova il consenso non sembra essere utilizzato come un presunto mezzo di modifica del Trattato. Infatti, la Corte ha iniziato la sua analisi esaminando la propria giurisprudenza maggioritaria, stabilendo come l’art. 8 «è già stato interpretato come obbligo per uno Stato contraente di garantire il riconoscimento e la protezione giuridica per le coppie dello stesso sesso, mettendo in atto un “quadro giuridico specifico”» (par. 164). Solo successivamente, la Corte si è concentrata sul consenso nazionale e internazionale per consolidare questi risultati. Pertanto, il consenso non è mai stata l’unica base, né la giustificazione principale per sancire il suddetto obbligo positivo.

Proprio al fine di evitare fraintendimenti, la Corte è stata casomai attenta ad evidenziare, nei paragrafi 179-180, che «questa interpretazione dell’articolo 8 è guidata dalla preoccupazione di garantire una protezione efficace della vita privata e familiare delle persone omosessuali» e dai «valori della società democratica come “pluralismo, tolleranza e apertura mentale”», e inoltre in linea con «lo spirito generale della Convenzione».

Dall’altra parte, in linea con la sentenza della Camera, la Grande Camera (more…)

La “liberalizzazione” della disciplina italiana sull’attribuzione del cognome ai figli: una riforma in chiave europea

di Francesco Deana*

 

1.

Lo scorso 27 aprile, con sentenza non ancora depositata ma anticipata dal Comunicato di pari data, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali le norme che nel nostro ordinamento regolano l’attribuzione del cognome ai figli, siano essi nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio o adottivi, incaricando poi il Legislatore di regolare tutti gli aspetti connessi alla decisione in questione.

L’oggetto della decisione è stato definito in virtù delle ordinanze di rimessione emesse dal Tribunale di Bolzano e dalla Corte di appello di Potenza, nonché dell’ordinanza di autorimessione con cui la stessa Consulta ha ampliato l’oggetto del suo giudizio ad una questione preliminare a quella sollevata dal Tribunale altoatesino. In particolare, la pronuncia riguarda due norme diverse, il cui contenuto non era dettato esplicitamente da alcuna specifica disposizione di legge, ma era desumibile dalla lettura sistematica delle norme sulla filiazione contenute in parte nel codice civile (artt. 237, 262 e 299) ed in parte nel d.P.R. n. 396 del 2000 in materia di ordinamento dello stato civile (artt. 33 e 34). La prima norma vieta, pur in presenza di accordo tra i genitori, l’attribuzione ai figli del solo cognome materno; la seconda impone automaticamente, in mancanza di accordo in senso diverso, l’attribuzione del solo cognome paterno.

La Corte è stata chiamata ad esaminare dette norme nella loro compatibilità a) con gli artt. 2 e 3 Cost., in quanto espressione del diritto all’identità personale e al riconoscimento dell’uguaglianza tra la donna e l’uomo; b) gli art. 11 e 117, comma 1, Cost., quali tramite tra l’ordinamento italiano e gli articoli 8 e 14 CEDU, rispettivamente espressione del diritto alla vita privata e familiare e del divieto di discriminazione); c) gli art. 11 e 117, comma 1, Cost., quali tramite tra l’ordinamento italiano e gli artt. 7 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), anch’essi intesi quali espressione, rispettivamente, del diritto alla vita privata e familiare e del divieto di discriminazione.

In esito alla pronuncia qui brevemente esaminata, i figli assumeranno di regola – e quindi automaticamente –  il cognome di entrambi i genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che questi ultimi non optino per l’attribuzione esclusiva del cognome materno o di quello paterno.

2.

L’ordinamento italiano si allinea, così, a quanto già previsto in molti Paesi membri dell’Unione europea e completa un percorso di progressiva “liberalizzazione” di una disciplina inizialmente fondata su un rigido criterio di attribuzione automatica del solo cognome paterno.

Dopo due vani tentativi esperiti nel 1988, quando, con le ordinanze n. 176 e 586, la Corte dichiarò inammissibili le questioni relative alle modalità di attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio, la sentenza n. 61 del 2006 rappresentò la prima occasione in cui i giudici costituzionali riconobbero espressamente l’incompatibilità della prevalenza del patronimico con il fondamentale principio di uguaglianza, definendo tale regola un «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia […] e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento». Nonostante l’accertata illegittimità, tuttavia, i giudici si astennero dal pronunziare l’incostituzionalità della disciplina, rinviando la questione alla discrezionalità del Legislatore; decidendo diversamente, infatti, si riteneva di esporre l’ordinamento ad un vuoto normativo in cui una pluralità rilevante di sistemi alternativi di attribuzione del cognome avrebbe potuto reclamare applicazione.

Dieci anni più tardi, con sentenza n. 286 del 2016, la Corte ebbe invece modo di mutare radicalmente convincimento – pur senza evidenziarne le ragioni giustificatrici – e dichiarare per la prima volta l’illegittimità costituzionale delle norme in materia, sebbene con limitato riferimento alla parte in cui esse non consentivano «ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche (ma non solo, NdA) il cognome materno». La pronuncia si limitava, dunque, ad introdurre un’opzione alternativa, l’attribuzione volontaria e congiunta di patronimico e matronimico fin dalla nascita, estendendola (in virtù dell’intervenuta riforma dello status filiationis operata con la legge n. 219 del 2012) ai figli nati fuori dal matrimonio e riconosciuti contemporaneamente da entrambi i genitori, nonché ai figli adottivi.

Con l’ultima e recentissima sentenza, invece, la Consulta si è spinta oltre e ha inteso tutelare i diritti costituzionali interessati non semplicemente affiancando alla regola del patronimico un ventaglio di opzioni alternative selezionabili su base volontaristica – cosa che sarebbe stata sufficiente ad ottener il risultato invocato dai ricorrenti nel procedimento a quo –, ma sancendo direttamente il definitivo superamento della regola vigente. La (nuova) regola diventa, quindi, l’attribuzione del doppio cognome, salvo diverso accordo tra i genitori.

3.

L’evoluzione giurisprudenziale culminata con la sentenza del 27 aprile abbraccia progressivamente i principi elaborati davanti alle giurisdizioni europee, in particolare la Corte EDU (già ampiamente citata nella sentenza del 2016 e solo in parte in quella del 2006), a dimostrazione di come il diritto europeo di famiglia si proponga sempre più quale catalizzatore di processi di riforma epocali nell’ambito dell’ordinamento italiano (si pensi al “peso” della sentenza Oliari e a. c. Italia rispetto all’approvazione della Legge n. 76/2016 sulle unioni civili).

La Corte di Strasburgo ha infatti da tempo pacificamente stabilito che, in quanto mezzo di identificazione personale e di collegamento con una famiglia, il cognome di una persona riguarda la sua vita privata e familiare protetta dall’articolo 8 della CEDU (casi Mentzen c. Lettonia (dec.); Henry Kismoun c. Francia). Sulla base di questa premessa e del principio di (more…)

Alla Corte Costituzionale l’impossibilità di convertire l’unione civile in matrimonio a seguito della sentenza di rettificazione di sesso di uno dei partner

 di Francesca Barbato*

 

Pubblichiamo l’ordinanza del Tribunale di Lucca del 14 gennaio 2022 con la quale sono state sollevate plurime questioni di legittimità costituzionale con riferimento a disposizioni centrali in ordine all’impossibilità di convertire l’unione civile in matrimonio in conseguenza della rettificazione di sesso di uno dei due componenti della coppia.

Il caso

Nella vicenda in esame XXX , presa piena coscienza della propria disforia di genere di tipo MtF (indicata erroneamente nell’ordinanza FtM) – così come risultante da una relazione psicologica eseguita dal consultorio transgenere di Torre del Lago -, identificandosi irrevocabilmente nel genere femminile, ha adito il Tribunale toscano chiedendo che venisse autorizzato l’intervento chirurgico strumentale alla riassegnazione del sesso da maschile a femminile con conseguente rettificazione dei dati anagrafici riguardanti il sesso, ed ordinato all’ufficiale di stato civile di iscrivere il matrimonio con il compagno in luogo dell’unione civile nel registro degli atti di matrimonio. XXX aveva, infatti, contratto un’unione civile nel 2019 con il proprio compagno ed entrambi intendevano conservare il vincolo familiare attraverso l’automatica conversione dell’unione civile in matrimonio a seguito della rettificazione anagrafica.

Nell’esaminare la domanda il Tribunale ha ritenuto rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale di cui al combinato disposto degli artt. 1, comma 26, L. 20 maggio 2016, n. 76; 31, commi 3 e 4 bis, D.Lgs. 1°settembre 2011, n. 150 e 70 octies, comma 5 D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, in relazione agli artt. 2, 3, 117 Cost. e 8 e 14 CEDU quali ai parametri interposti ai sensi dell’art. 117 Cost.

Il giudice di Lucca è partito dalla disamina dell’art. 1, primo comma, del D.P.R.  3 novembre 2000, n. 396 secondo cui “La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali” e dell’art. 31 del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150 in forza del quale “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il Tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”.

 Al riguardo il Tribunale ha richiamato gli approdi raggiunti dalla Cassazione e dalla Corte Costituzionale, in virtù dei quali la lettura sinottica delle norme de qua non deve portare a ritenere l’intervento chirurgico pre-condizione necessaria della pronuncia di mutamento di sesso, ma solamente un possibile mezzo strumentale a un pieno benessere psicofisico (Corte cost. n. 221/2015; Cass n. 15138/2015).

Di seguito il giudice ha chiarito come nella fattispecie in esame XXX non ha effettuato un intervento demolitivo-ricostruttivo degli organi sessuali, ma una terapia ormonale, chiedendo la rettifica dell’attribuzione di sesso nei registri di stato civile, dichiarando di aver acquisito l’identità di genere femminile attraverso un percorso psicologico comprovante la definitività e irreversibilità di tale orientamento, prescindendo dalle caratteristiche anatomiche degli organi sessuali.  Conseguentemente, in caso di riscontro positivo di quanto allegato nel corso del giudizio, XXX vanterebbe astrattamente l’aspettativa legittima di acquisire una nuova identità di genere anche in assenza di un intervento di adeguamento dei caratteri sessuali.

In siffatte circostanze XXX in una con la suddetta richiesta, deducendo di avere contratto con il proprio partner un’unione civile, ha domandato di ordinare all’ufficiale dello stato civile del Comune di Lucca di iscrivere nel registro degli atti di matrimonio l’unione matrimoniale in luogo di quella civile, in considerazione dell’assenza di un divieto in tal senso da parte dell’ordinamento a svantaggio della coppia in seguito all’acquisto di una nuova identità di genere di uno dei componenti.

Tuttavia il Tribunale ha osservato che “l’interdipendenza tra pronuncia di rettificazione e sorti dell’unione civile in precedenza contratta tra persone dello stesso sesso non forma oggetto di lacuna normativa” (così, p. 4).

Difatti viene ricordato come l’art. 1, comma 26, della L. n. 76 del 2016 preveda (more…)

Estensione dei legami di parentela dell’adottante in capo all’adottato nell’adozione in casi particolari: il sì del Tribunale per i Minorenni di Sassari

di Giulia Barbato*

Pubblichiamo la sentenza del Tribunale per i Minorenni di Sassari n. 1 del 2022 (per il cui invio ringraziamo l’avvocato Michele Giarratano) che ha disposto l’adozione in casi particolari da parte del genitore intenzionale della minore nata attraverso il ricorso alla gestazione per altri, ha ordinato la posposizione del cognome dell’adottante a quello della minore e, infine. ha riconosciuto il legame parentale tra la bambina e i parenti dell’adottante.

In primis il Tribunale sassarese accoglie la domanda di adozione in casi particolari proposta dal genitore sociale della minore, figlia del proprio compagno di vita – con cui ha condiviso fin dall’inizio il progetto genitoriale realizzatosi grazie ad un procedimento di gestazione per altri effettuato all’estero -, ed insieme ai quali convive, contribuendo affettivamente e finanziariamente al soddisfacimento delle esigenze della bambina al pari del padre biologico.

Nella pronuncia de qua, invero, viene ricordato come – sia ex lege (art. 44 lett. D l. 184/83), sia secondo giurisprudenza consolidata (Cass. 12962/2016) – “è l’adozione in casi particolari a rispondere a specifiche esigenze di riconoscimento legale di rapporti affettivi così intensi dal confinare con la genitorialità strettamente intesi [….] anche qualora l’adottante sia partner del genitore dell’adottando nell’ambito di una relazione omoaffettiva, la quale (come diffusi studi scientifici chiariscono) sotto il profilo del sentimento verso i figli in nulla differisce rispetto alle famiglie basate su unioni eterosessuali” (così, p. 2).

In secundis il Tribunale ritiene meritevole di accoglimento anche l’istanza di posposizione del cognome dell’adottante a quello già proprio della minore. Al riguardo viene considerata superata l’interpretazione giurisprudenziale tradizionale degli artt. 55 L. n. 184/83 e 299 c. c., secondo cui nelle fattispecie di adozione in casi particolari – così come avviene nelle ipotesi di adozione dei maggiorenni – il cognome dell’adottato è composto dal cognome dell’adottante e, a seguire, dal cognome della famiglia d’origine dell’adottato (Cass. Civ., Sez. I, 19/08/1996, n. 7618).

Nella decisione in esame, infatti, viene evidenziato come tale lettura, che equipara rispetto agli effetti sul cognome adottato maggiorenne (more…)

«Note verbali» e discriminazioni di genere. Un esempio di ingerenza diplomatica

di  Pierluigi Consorti*

Pubblichiamo la anticipazione dal prossimo numero del semestrale GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere www.geniusreview.eu

Questo contributo trae origine dalla «Nota verbale» invita dalla Santa Sede all’Italia per manifestare la sua contrarietà verso un disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati e ancora all’esame del Senato (DDL Zan contro l’omofobia). L’analisi si muove sul piano scientifico riassumendo in via preliminare i fatti, poi trattando i temi di carattere pattizio e infine toccando alcuni profili di merito. L’intento è quello di mettere in luce sia l’illegittimità giuridica dell’intervento diplomatico in considerazione del principio di non ingerenza negli affari interni di un altro Stato, sia la sua inappropriatezza sul piano della mancata protezione dei diritti delle persone LGBT+.

This essay originates from the «Verbal Note» that the Holy See sent to the Italian Government to express its opposition against a draft law approved by the Chamber of Deputies and still under examination by the Senate (DDL Zan against homophobia). The analysis moves on a scientific level by a preliminary brief history of events, it later deals with the issues of legal relations between State and Church, and finally examines some substantial profiles. The intent is to highlight both the legal illegitimacy of diplomatic intervention in the light of the principle of non-interference in the internal affairs of another State, and its inappropriateness in terms of the lack of protection of the rights of LGBT+ people. 

* Professore ordinario di diritto ecclesiastico e canonico, Università di Pisa

(contributo sottoposto a referaggio a doppio cieco pubblicato online first, destinato a GenIUS 2020-2)

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Omofobia: violenza, vulnerabilità e invisibilità

di Daniel Borrillo*

Pubblichiamo la anticipazione dal prossimo numero del semestrale GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere www.geniusreview.eu

La recente preoccupazione per l’ostilità nei confronti dei gay e delle lesbiche modifica il modo in cui la questione è stata finora affrontata. Invece di concentrarsi come in passato sullo studio del comportamento omosessuale in quanto deviante, l’attenzione viene ormai posta sulle ragioni che hanno portato a considerare come deviante proprio questa forma di sessualità: lo spostamento dell’oggetto d’analisi verso l’omofobia corrisponde ad un cambiamento tanto epistemologico che politico. Epistemologico, dal momento che non si tratta tanto di conoscere o di comprendere l’origine e il funzionamento dell’omosessualità, quanto di analizzare l’ostilità suscitata da questa specifica forma di orientamento sessuale. Politico, poiché non è più la questione omosessuale (in fin dei conti banale dal punto di vista istituzionale) ma proprio la questione omofobica che merita oggi di essere affrontata in quanto tale.

The recent concerning about hostility towards gays and lesbians impacts on the way the issue has been dealt with so far. Instead of focusing as in the past on the study of homosexual behavior as it is deviant, attention is now placed on the reasons that led to considering this form of sexuality as deviant: the shift of such a focus towards homophobia corresponds to an epistemological as well as a political change. An Epistemological matter, since it is not so much a question of knowing or understanding the origin and functioning of homosexuality, but to analyze the hostility aroused by this specific form of sexual orientation. A political matter, since it is no longer the homosexual question (ultimately banal from an institutional point of view) but precisely the homophobic question that deserves to be addressed as such today.

Sommario
1. Introduzione – 2. La questione omofobica – 3. La doppia dimensione dell’omofobia – 4. L’origine della violenza – 5. L’invisibilità come violenza – 6. L’omofobia interiorizzata – 7. Conclusione – 8. Bibliografia.

* Université de Paris X Nanterre

(contributo sottoposto a referaggio a doppio cieco pubblicato online first, destinato a GenIUS 2020-2)

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Cagliari e Roma: le prime due decisioni dopo le sentenze della Corte costituzionale

di Marco Gattuso

1.

La Corte d’appello di Cagliari, con decreto depositato il 29 aprile 2021 ha confermato la necessità di iscrivere anche la madre intenzionale nell’atto di nascita. Il tribunale di Roma con decreto del 18 aprile 2021 (per il cui invio si ringrazia l’avv. Michele Giarratano) per suo verso ha imposto al Comune di Roma di annotare l’atto con due mamme già formato da altro Comune.

L’importanza delle due decisioni risiede nell’essere le prime due emesse da giudici di merito dopo il deposito delle due sentenze n. 32 e 33 del 9 marzo 2021, contenenti come si rammenterà l’indicazione della inidoneità dell’adozione in casi particolari come strumento di tutela dei bambini nati da due donne a mezzo di pma eterologa oppure da coppie etero o omosessuali a mezzo di gpa, con un forte monito al legislatore di intervenire con urgenza.

Nelle more di un (allo stato inverosimile) intervento del Parlamento, la parola torna dunque ai giudici, i quali dinnanzi a un bambino che, in concreto, chiede tutela, non possono arrestarsi a un non liquet.

2.

La sentenza della corte cagliaritana si caratterizza, in particolare, per l’ampia e assai accurata motivazione, con cui ricostruisce e si confronta sostanzialmente con tutti i più recenti arresti della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, fornendo una precisa e condivisibile immagine del quadro normativo e dello stato dell’arte.

La Corte, in particolare, è molto precisa e netta nel distinguere i due piani, della valutazione delle condotte degli adulti e della tutela di bambini, per cui per un verso dà atto che la legislazione italiana – a differenza di molti altri paesi europei – non consente l’accesso delle coppie dello stesso sesso alla pma e neppure all’adozione di bambini in stato di abbandono, ma per altro verso dà pure atto che la legislazione vigente in materia di pma impone, a tutela del nato, di riconoscere come genitori i due membri della coppia che abbiano espresso, per fatti concludenti, il consenso.

Si tratta, dunque, dell’ennesima decisione di merito che conferma tale interpretazione del quadro normativo vigente, con un franco esame degli argomenti di segno contrario svolti dalla prima sezione della Corte di cassazione nelle sentenze n. 7668 del 3 aprile 2020 e n. 8029 del 22 aprile 2020, da cui la Corte cagliaritana dichiara di dissociarsi. Da questo punto di vista si tratta, dunque, di una sentenza, particolarmente accurata nella motivazione, che conferma un indirizzo già emerso in diverse altre decisioni.

In particolare il Tribunale di Cagliari (la cui decisione del 28 aprile 2020 viene così confermata), dava atto «che il dialogo tra giudici di merito (more…)

Spesso non binarie, sempre non conformi: la “piena depatologizzazione” delle soggettività trans

di  Francesca Saccomandi*

Pubblichiamo la anticipazione dal prossimo numero del semestrale GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere www.geniusreview.eu

L’attivismo trans e non binario italiano ha nel 2020 reso pubblicamente manifesta la richiesta di una completa riforma del diritto in materia di identità di genere, che passi per la piena e completa depatologizzazione dei generi non conformi. Il contributo evidenzia la necessaria connessione tra depatologizzazione e critica al binarismo di genere, interrogando le fonti del diritto italiano più rilevanti in materia.

The depathologization of gender non-conforming identities is a shared common ground for many Italian trans and non-binary collectives, associations, political bodies. Through the critical analysis of the Italian Constitutional case-law on the matter, this article investigates the possible meanings and the necessary conditions of this process.

Sommario

1. Introduzione – 2. La persona trans nella giurisprudenza costituzionale – 2.1. La sentenza 98/1979: i primi quesiti sulla “questione transessuale” – 2.2. Il mutato atteggiamento della Corte costituzionale: la sentenza n. 161/1985 – 2.3. L’adeguamento dei caratteri sessuali, da divieto a condizione necessaria – 3. La regola che costruisce l’eccezione: binarismo di genere e corpo trans – 3.1. La situazionalità storica della regola binaria – 3.2. Il genere come performance e i corpi trans come fuori copione – 3.2.1. Dove prima non c’era che una sequela di fatti, nasce il genere – 3.2.2. Opinio iuris atque necessitatis: il binarismo di genere – 3.2.3. Le sanzioni: violenza transfobica e patologizzazione – 3.2.4. Abolire il genere significa moltiplicarlo – 4. Conclusioni.

* Dottoressa in Giurisprudenza, Università degli Studi di Bologna

(contributo sottoposto a referaggio a doppio cieco pubblicato online first, destinato a GenIUS 2020-2)

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NH v Lenford: One Further Step in the Continuing Evolution of Sexual Orientation Non-Discrimination Rights Before the European Union

di Frances Hamilton*

Pubblichiamo la anticipazione dal prossimo numero del semestrale GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere www.geniusreview.eu

Il caso NH c. Lenford riguarda le dichiarazioni rilasciate da un avvocato nel corso un’intervista radiofonica, dalle quali si evinceva che egli non avrebbe mai assunto nel suo studio legale una persona omosessuale. La Corte di giustizia dell’Unione europea (“CGUE”) ha stabilito che quella condotta è contraria alla pertinente normativa europea che vieta la discriminazione sul lavoro, sebbene le dichiarazioni incriminate non fossero inerenti ad una procedura di assunzione effettivamente in corso. Sia la Corte di giustizia, sia successivamente la Corte di cassazione italiana (nel dar attuazione alle indicazioni provenienti dai giudici dell’Unione) hanno ritenuto che fosse rilevante il fatto che la persona che aveva rilasciato tali dichiarazioni esercitasse un’influenza rilevante sulla politica di assunzione dello studio e che un risarcimento fosse dovuto ai ricorrenti nel procedimento a quo – l’Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford (l’”Associazione”), una no profit che rappresenta gli interessi generali degli avvocati LGBTI – anche in assenza, nel caso in questione, di una vittima specifica. Contrariamente a quanto suggerito da alcuni autori, secondo cui l’orientamento sessuale occuperebbe uno degli ultimi posti nella gerarchia delle caratteristiche protette dalla normativa e dalla giurisprudenza dell’UE in materia di divieto di discriminazione, questo articolo sostiene che NH c. Lenford rappresenta un passo in avanti nella continua evoluzione della tutela delle persone LGBT rispetto al principio di non discriminazione nel diritto dell’Unione Europea. Un aspetto che l’articolo in ultimo approfondisce riguarda la situazione post-Brexit nel Regno Unito. Se infatti la normativa dell’UE pre-esistente e già trasposta nel corpo legislativo del Regno Unito sarà mantenuta, la legislazione dell’UE e le sentenze della CGUE successive non troveranno applicazione. Tuttavia, l’accordo commerciale e di cooperazione (“TCA”) raggiunto tra il Regno Unito e l’UE include la protezione dei diritti umani, una clausola di “non regressione” ed una di riequilibrio per quanto riguarda il lavoro e la politica sociale, e quindi, consentirà all’UE e al Regno Unito di continuare, anche se in modo limitato, a influenzarsi a vicenda.

The facts of NH v Lenford concerned statements made by a senior lawyer in a radio interview, which suggested that he would never hire a gay person to work in his law firm, nor wish to use the services of such a person. The Court of Justice of the European Union (‘CJEU’) determined that this contravened relevant legislation prohibiting discrimination in employment, even though the statements were made without a recruitment procedure being underway. The CJEU and the Italian Court of Cassation when implementing the CJEU judgment both found that the person making such statements was influential on the firm’s recruitment policy and that compensation was payable to the applicants – the Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI (the ‘Associazione’), a non-profit organization representing the general interest of LGBT lawyers – even in the absence of an individual victim. Contrary to the suggestion of other authors, that sexual orientation discrimination is low down the hierarchy of protected characteristics before the EU legislation and CJEU, this article argues that NH v Lenford demonstrates a further step in the continuing evolution of LGBT non-discrimination rights before the European Union. Following Brexit whilst existing EU laws already translated into the UK legislative cannon will be retained, further EU legislation and rulings from the CJEU will not apply to the UK. The Trade and Cooperation Agreement (‘TCA’) reached between the UK and EU includes protection of human rights, a ‘non-regression’ and re-balancing clauses with regards to labour and social policy, and thus, enables the EU and UK continuing, albeit limited, influence on each other.

* Associate Professor in Law, University of Reading

(contributo sottoposto a referaggio a doppio cieco pubblicato online first, destinato a GenIUS 2020-2)

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Della tratta di donne e ragazze nel diritto internazionale ed europeo: riflessioni sulla nozione giuridica di “sfruttamento sessuale” alla luce della sentenza S.M c. Croazia della Corte europea dei diritti umani

di Sara De Vido*

Pubblichiamo la anticipazione dal prossimo numero del semestrale GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere www.geniusreview.eu

L’obiettivo del presente contributo è di indagare sull’evoluzione della nozione “sfruttamento sessuale” dal punto di vista giuridico nella prassi internazionale ed europea, con specifico riguardo alla sentenza S.M. c. Croazia, decisa dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti umani il 25 giugno 2020. La sentenza propone una disarticolazione della nozione di sfruttamento sessuale a scopo di prostituzione da quella di tratta di esseri umani, per ricondurre entrambe nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 Cedu. Il contributo elaborerà infine una possibile definizione giuridica di sfruttamento sessuale, che tiene conto dell’elemento dell’assenza del consenso.

This Article aims at investigating the evolution of the concept “sexual exploitation” from a legal point of view in international and European practice. It specifically focuses on the judgment in the S.M. v. Croatia case, decided by the Grand Chamber of the European Court of Human Rights on 25 June 2020. In the judgment, sexual exploitation for the purpose of prostitution is disentangled from the concept of human trafficking, and both are deemed to fall under the scope of Article 4 ECHR. The Article will elaborate a possible legal notion of sexual exploitation, which takes into account the absence of consent.

* Professoressa Associata di Diritto Internazionale, Università Ca’ Foscari di Venezia

(contributo sottoposto a referaggio a doppio cieco pubblicato online first, destinato a GenIUS 2020-2)

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Le Sezioni Unite: sì alla trascrizione della adozione da parte di due papà

di Stefano Celentano*

Corte di cassazione, Sezioni Unite del 12 gennaio 2021 n. 9006 depositata il 31 marzo 2021

Con la pronuncia n. 9006/2021, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione tornano a delineare i limiti del concetto di ordine pubblico internazionale rispetto alla conformità ad esso di atti formati all’estero, che rappresentano genesi ed attestazione di rapporti filiali tra coppie omosessuali e minori. L’occasione è fornita dall’esame di un adoption order, provvedimento giurisdizionale emesso dalla Surrogate Court dello Stato di New York che attribuisce ad una coppia omosessuale lo status di genitori adottivi di un minore, dopo aver preventivamente acquisito il consenso del birth father e della birth mother, e dopo averne valutato in concreto l’idoneità alla adozione, al fine di verificare la conformità della stessa al best interest of the child.
Una volta chiarito che la valutazione della conformità dell’atto alla nozione di ordine pubblico internazionale è limitata agli effetti che esso è destinato a produrre nel nostro ordinamento (e non al suo contenuto, né alla conformità della legge estera a quella nostra interna regolativa dei medesimi istituti), e appurata la diversità della fattispecie rispetto alla differente ipotesi dello status filiationis connesso a pratiche di procreazione o di surrogazione, la Corte procede alla delimitazione del concetto di ordine pubblico internazionale al fine di compiere la valutazione di compatibilità o meno ad esso degli effetti dell’atto in esame.
Sulla scorta di consolidati orientamenti – per i quali tale nozione ha funzione sia di limite dell’applicazione della legge straniera, che di promozione e garanzia di tutela dei diritti fondamentali della persona – la Corte ribadisce che per ordine pubblico internazionale deve intendersi quel coacervo di principi provenienti dal diritto dell’Unione Europea, delle Convenzioni sui diritti della persona cui l’Italia ha prestato adesione e con il contributo essenziale della giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei diritti umani, oltre a quelli derivanti dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie che ne interpretano i valori. Trattasi dunque di un complesso armonico tra valori condivisi dalla comunità internazionale e gli ordinamenti giuridici unitamente all’impianto valoriale proveniente dalla Costituzione e dalle leggi che ad essa si ispirano.
Nella materia della filiazione, l’identità del concetto in parola è fornito da una serie di principi: 1) l’autodeterminazione e le scelte relazionali del minore e degli aspiranti genitori (art. 2 Cost.; art. 8 Cedu); 2) il preminente interesse del minore di origine convenzionale, ma ampiamente attuato in numerose leggi interne ed in particolare nella recente riforma della filiazione (legge delega n. 219 del 2012, d.lg.s n. 153 del 2013); 3) il principio di non discriminazione, rivolto sia a non determinare ingiustificate disparità di trattamento nello status filiale dei minori con riferimento in particolare al diritto all’identità ed al diritto di crescere nel nucleo familiare che meglio garantisca un equilibrato sviluppo psico-fisico e relazionale, sia a non limitare la genitorialità esclusivamente sulla base dell’orientamento sessuale della coppia richiedente; 4) il principio solidaristico che è alla base della genitorialità sociale sulla base del quale la legge interna (L.n. 184 del 1983 così come modificata dalla l. n.149 del 2001 e dalla recente legge sulla continuità affettiva n. 173 del 2015) ed il diritto vivente hanno concorso a creare una pluralità di modelli di genitorialità (more…)

I primi commenti alle sentenze della Consulta del 9 marzo sulle due mamme e i due papà

 Il convegno organizzato da Rete Lenford e Famiglie Arcobaleno sulle sentenze della Corte costituzionale n. 32 e 33 del 9 marzo 2021. La prima occasione di riflessione sul contenuto e le implicazioni delle due decisioni, con relazioni di Stefania Stefanelli, Alexander Schuster e Marco Gattuso. Un pomeriggio intenso e interessante, con oltre 1200 (!) persone collegate.

QUI LA REGISTRAZIONE INTEGRALE DEL CONVEGNO

Same-sex marriage e omissioni legislative al cospetto della giustizia costituzionale in Giappone

di Giacomo Giorgini Pignatiello*

La sentenza con la quale la Corte distrettuale di Sapporo in data 17 marzo 2021 ha censurato l’omissione del Legislatore nipponico, consistente nella mancata previsione di diritti e tutele giuridiche per le coppie dello stesso sesso equivalenti a quelli previsti per il matrimonio eterosessuale, per violazione del principio di eguaglianza (articolo 14 della Costituzione), costituisce un evento degno di nota nella storia dell’ordinamento giapponese[1]. Solo se si considera che nel Paese del Sol Levante l’attuale sistema di giustizia costituzionale, nato con la Costituzione eterodiretta del 1946 e disegnato sulla scorta del modello diffuso statunitense[2], è stato nei suoi oltre sessant’anni anni di attività accusato di “judicial passiveness” (tra il 1947 e il 2016 solamente in 10 casi la legge è stata infatti ritenuta incostituzionale)[3] ed è stato bollato da autorevole dottrina come “failed”[4], si può apprezzare la rilevanza della pronuncia in commento.
La decisione, infatti, avviene in un contesto di recente ma radicale trasformazione del tradizionale atteggiamento di deferenza osservato dalla Corte Suprema giapponese verso il potere legislativo della Dieta, il parlamento bicamerale nipponico, proprio in relazione a questioni sorte in materia antidiscriminatoria e di eguaglianza rispetto al sistema elettorale.

Il giudice Tomoko Takebe, redattore di una pronuncia destinata a far discutere per la propria portata rivoluzionaria, (more…)

Il letto di Procuste. Appunti per una grammatica della discriminazione

di Giacomo Viggiani*

Pubblichiamo la anticipazione dal prossimo numero del semestrale GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere www.geniusreview.eu

A fronte di un numero sterminato di articoli e saggi che hanno dissezionato il principio di uguaglianza e le sue innumerevoli declinazioni, meno attenzione è stata dedicata all’idea di discriminazione. In questo contributo si intende indagare i significati e le funzioni che il concetto di discriminazione può assumere nel contesto filosofico-giuridico. Dopo aver sgombrato il campo dai fraintendimenti che generalmente ne accompagnano la formulazione e l’interpretazione, si proporranno alcune prime riflessioni in materia al fine di gettare le basi per una futura grammatica della discriminazione.

While an endless number of articles and essays analysed the principle of equality and its countless variations, less attention was paid to the idea of discrimination. In this contribution we intend to investigate the meanings and functions that the concept of discrimination can assume in the legal philosophy. After clearing the field of the misunderstandings that generally accompany its formulation and interpretation, some initial reflections on the subject will be proposed in order to lay the foundations for a future grammar of discrimination.

* Ricercatore di Filosofia del diritto, Università degli Studi di Brescia

 

(contributo sottoposto a referaggio a doppio cieco pubblicato online first, destinato a GenIUS 2020-2)

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“Because of … sex”: Inspirations from the European Court of Justice for the United States Supreme Court in the First Transgender Rights Case Before It

 

di Turkan Ertuna Lagrand*

Pubblichiamo la anticipazione dal prossimo numero del semestrale GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere www.geniusreview.eu

Nell’estate del 2020, la Corte Suprema degli Stati Uniti si pronuncerà sul caso R.G. & G.R. Harris Funeral Homes Inc. v. Equal Employment Opportunity Commission, il primo caso relativo ai diritti dei transgender di cui la Corte sia mai stata investita. In assenza di leggi federali che proteggano le persone transgender dalle discriminazioni, la sentenza è destinata a diventare un punto di riferimento in materia, in particolare qualora la Corte dovesse rispondere affermativamente al quesito che le è stato posto, vale a dire se il Titolo VII del Civil Rights Act del 1964 proibisce le discriminazioni contro le persone transgender in base al loro status di transgender o agli stereotipi sessuali. La Corte di giustizia dell’Unione europea si è già occupata di analoga questione nel 1996, nella storica sentenza in P. c. S. e Cornwall County Council, in cui la Corte ha deciso che la Direttiva n. 76/207 del Consiglio relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne, che all’epoca – come oggi negli Stati Uniti – era l’unico atto legislativo disponibile, proteggeva le persone transgender da trattamenti discriminatori. Questo articolo intende offrire un contributo al dibattito sulla possibilità che il divieto di discriminare in base al sesso contenuto nel Titolo VII si applichi anche alle discriminazioni verso i transgender, analizzando la succitata pronuncia della Corte di giustizia e applicando i principi ivi utilizzati al caso pendente dinanzi alla Corte Suprema degli Stati Uniti.

In the summer of 2020, the United States Supreme Court will deliver its judgment on the first transgender rights case before it, R.G. & G.R. Harris Funeral Homes Inc. v. Equal Employment Opportunity Commission. In the lack of federal laws protecting transgenders from discrimination, the case will be a landmark, should it answer the question before it affirmatively, namely “whether Title VII [of the Civil Rights Act of 1964] prohibits discrimination against transgender people based on their status as transgender or sex stereotyping.’ The ECJ has dealt with the same issue in 1996 for its landmark decision of P. v S. and Cornwall County Council in which the European Court has decided that Council Directive 76/207 on the principle of equal treatment for men and women, which -like the US situation- was the only available piece of legislation at the time, protected transgender persons against discrimination. This paper offers a contribution to the debate around whether the prohibition contained in Title VII to discriminate “because of … sex” covers transgender discrimination by analyzing the said ECJ case, and applying the principles utilized therein to the case before the US Supreme Court.

* Senior Lecturer, Erasmus University Rotterdam

 

(contributo sottoposto a referaggio a doppio cieco pubblicato online first, destinato a GenIUS 2020-1)

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Transessualità e prenome d’elezione: Cass. Sez. I civ., ord. 3877/2020

di Giacomo Viggiani*

Lo scorso febbraio i supremi giudici hanno stabilito che chi avanza richiesta per la rettificazione anagrafica di sesso ex l. 164/1982 può scegliere liberamente il nuovo prenome, fatti salvi i limiti espressamente previsti dalla legge o i diritti di terzi.

La controversia trova la sua scaturigine dal ricorso presentato da O.A., la quale aveva ottenuto dalla Corte d’Appello di Torino la rettificazione anagrafica di sesso da maschio a femmina ex art. 164/1982, ma non aveva ottenuto soddisfazione in punto di onomastica. A fronte di un prenome eletto dalla richiedente la rettificazione, i giudici distrettuale avevano infatti ritenuto che la tutela dell’«interesse pubblico alla stabilità e ricostruibilità delle registrazioni anagrafiche» imponesse che il mutamento non potesse essere che la femminilizzazione del prenome attribuito alla nascita. Di conseguenza, accoglieva la richiesta di rettificazione, ma altresì rigettando qualsiasi prenome che non fosse quello derivante dalla mera femminilizzazione di quello precedente.

L’interessata presentava allora gravame avanti la Corte di Cassazione, argomentando come un prenome radicalmente diverso da quello fino a ora portava non fosse – come lo aveva qualificato la Corte distrettuale – un «voluttuario desiderio», ma anzi il punto estremo di gittata dell’atto autodeterminativo iniziato con la procedura di rettificazione. Si obiettava inoltre che l’automatismo di conversione non era sempre praticabile e che doveva essere assicurato anche un diritto all’oblio, inteso quale diritto ad una netta cesura con la precedente identità consolidatasi. (more…)

Il pettine sdentato. Il favoreggiamento della prostituzione all’esame di costituzionalità

 

di Tullio Padovani *

 

Pubblichiamo la anticipazione dal prossimo numero del semestrale GenIUS, Rivista di studi giuridici sull’orientamento sessuale e l’identità di genere www.geniusreview.eu

L’Autore commenta la sentenza della Corte Costituzionale del 7 giugno 2019 (ud. 6 marzo 2019), n. 141 in materia di favoreggiamento della prostituzione.

The Author provides a comment on the Constitutional Court decision issued on June 7th 2019 (hearing on March 6th 2019), n. 141 on abetting prostitution offence.

* Professore Ordinario a r., Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa

 

(contributo sottoposto a referaggio a doppio cieco pubblicato online first, destinato a GenIUS 2019-2)

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A dieci anni dalla sentenza costituzionale n. 138/2010

di Alexander Schuster

 

Ero in studio in università il 15 aprile 2010 quando ricevetti la notizia che la Corte costituzionale aveva deciso la questione del matrimonio fra persone dello stesso genere. Nell’estate precedente la Corte di appello di Trento aveva espresso i propri dubbi quanto alla compatibilità con la Costituzione del divieto a contrarre matrimonio. A denunciare la violazione dei loro diritti erano due coppie trentine, l’una composta da due donne, l’altra da due uomini. Non era la prima causa di questo tipo: alcuni mesi prima il Tribunale di Venezia aveva espresso analoghi dubbi. Nemmeno era questione sconosciuta ai giudici italiani in assoluto: il Tribunale di Roma già nel 1980 decise un ricorso proprio contro il rifiuto alle pubblicazioni chieste da una coppia di uomini.

La strategia di affrontare di petto il divieto non scritto di contrarre matrimonio rivolgendo una richiesta all’ufficiale di stato civile e intentando quindi un’azione giudiziaria non era nuova nel panorama mondiale. Il modello fu la cosiddetta “Aktion Standesamt”, ovvero la “Azione stato civile” che nel 1992 in Germania coinvolse ben duecentocinquanta coppie omosessuali. Anche in quel caso si giunse fino alla Corte costituzionale tedesca. Lo stimolo per l’Aktion Standesamt fu l’adozione da parte della Danimarca nel 1989 della prima legge al mondo che consentiva alle coppie di accedere ad una forma di unione registrata.

In Italia dovettero trascorrere molti anni prima di avviare un’iniziativa simile. Elementi scatenanti furono da una parte l’inerzia italiana rispetto agli sviluppi importanti sul fronte del matrimonio di altri Stati occidentali: si pensi alla riforma del matrimonio dei Paesi bassi nel 2001. Dall’altra occorre dare conto delle tanto penose quanto infruttuose discussioni in Parlamento per cercare di abbozzare qualcosa che potesse almeno pavidamente riproporre in salsa italica il PACS francese.

In questo contesto nascono e si alleano sul modello tedesco due associazioni, quella radicale Certi diritti e quella denominata Avvocatura per i diritti LGBT (ora LGBTI). Da lì nacque l’iniziativa di “Affermazione civile”, denominazione coniata dal radicale Sergio Rovasio. Fresco di una tesi di dottorato proprio su questi temi, aderii subito alla proposta di difendere un’idea di giustizia che ancora oggi rimane immutata. Il 23 marzo 2010 si tenne la pubblica udienza in Corte costituzionale. Eravamo presenti anche Francesco Bilotta ed io, quali avvocati delle tre coppie del cui amore e dei cui diritti si dibatteva. A parlare furono opportunamente solo gli avvocati professori universitari che sin da subito sposarono questa battaglia di civiltà: Vittorio Angiolini, Vincenzo Zeno-Zencovich e Marilisa D’Amico. Si trattò di un importante lavoro di squadra, forse così unico che non ebbi più modo di riscontrarne di simili negli anni successivi.

Sappiamo che la sentenza n. 138/2010 non garantì il diritto al matrimonio così come chiedevamo. Era un esito atteso, sì che quando mi venne comunicata, l’attenzione si rivolse non all’esito, ma alle motivazioni. La pronuncia non riconosceva la coppia omosessuale come famiglia, ma nemmeno negava che lo fosse. L’impiego di questo termine sarà apparso troppo audace ai quindici giudici di allora. Tuttavia, era significativo che «in relazione ad ipotesi particolari», fosse riconosciuta «la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». A quest’ultima era così concesso godere, ad esempio, della medesima tutela che era stata accordato alla – questa sì – «famiglia di fatto» eterosessuale. Ciò si evinceva dal richiamo ai precedenti della Corte pronunciati a tutela del convivente (more…)

In dubio, pro matrimonio. A proposito di due decisioni fra matrimonio, unione civile e rettificazione di sesso.

di Denise Amram*

A quasi cinque anni dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma che prevedeva l’obbligo di sciogliere il vincolo coniugale in caso di rettificazione anagrafica del sesso di uno dei due coniugi (Corte Cost. n. 170/2014, da cui artt. 2 e 4 l. 164/1982)[1], due decisioni di merito, pubblicate a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, sollecitano una rinnovata riflessione circa i rapporti intercorrenti tra identità di genere, matrimonio e unione civile.

I casi e le questioni.

Il caso deciso da Tribunale di Brescia, terza sezione civile, decreto del 17 ottobre 2019 n. 11990 concerne un matrimonio tra due persone dello stesso sesso contratto all’estero e trascritto quale unione civile in Italia, cui segue dichiarazione di rettificazione anagrafica del sesso di uno dei due partner e il contestuale sopravvenire del motivo di scioglimento dell’unione ai sensi dell’art. 1, comma 26, l.n. 76/2016[2].

L’ufficiale di stato civile rifiuta la richiesta della coppia che, costretta allo scioglimento del vincolo, chiede la conversione dell’unione civile in matrimonio sulla base del dato letterale dell’art. 70 octies del d.lgs. n. 396/2000 che dispone l’iscrizione nel registro delle unioni civili del vincolo tra persone unite in matrimonio in caso di passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione anagrafica del sesso di uno dei due coniugi, ma non il viceversa. Il Tribunale di Brescia ordina l’iscrizione del vincolo nel registro del matrimonio sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma alla luce del principio di uguaglianza.

Sulla stessa scia, si inserisce la sentenza  del Tribunale di Grosseto del 3 ottobre 2019, n. 740 che, nell’ambito di un giudizio volto ad autorizzare con sentenza non definitiva uno dei coniugi a sottoporsi a trattamento medico-chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali da maschili a femminili, affronta la questione relativa al mantenimento del vincolo matrimoniale laddove entrambi i coniugi, con tempi diversificati, stiano procedendo alla rettificazione anagrafica del sesso. Il Tribunale di Grosseto dispone che, nell’attesa di (more…)