Categoria: italia

Il punto di vista degli ufficiali di stato civile sulle iscrizioni e trascrizioni

di Luca Tavani*

Pubblichiamo la relazione tenuta da Luca Tavani, ufficiale di stato civile, al recentissimo convegno “Due genitori same sex dalla nascita. I sindaci in soccorso del diritto dei bambini alla bigenitorialità”, organizzato a Bologna il 18 giugno 2018 da Cassero Giuridico, Aiga, Gaylex, Famiglie Arcobaleno con il Patrocinio del Comune di Bologna

 

1. Introduzione

Pensiamo, con uno sforzo di immaginazione che vi richiedo, ad una delle figure più conosciute al mondo: Monna Lisa.

Malgrado non si sappia neppure per bene di chi si tratti – si dice una nobildonna fiorentina (tal Lisa Gherardini, la signora Lisa, moglie di Francesco Del Giocondo, da cui la Gioconda) o forse lo stesso Leonardo da Vinci addolcitosi sotto tratti femminili – non solo è una delle immagini più conosciute ma anche tra le più riconosciute, che da sempre ha stimolato la fantasia di altri artisti di ogni epoca che si sono divertiti ad intervenire modificando l’immagine originale.

Così fece Marcel Duchamp nel 1919, aggiungendo un paio di baffi e un pizzetto[1], altrettanto fece Luís Silva, un artista portoghese, che più recentemente nel 2011, volendosi occupare della violenza sulle donne l’ha raffigurata con un occhio nero e spegnendole il proverbiale sorriso[2].

Pensandoci bene, però, questi interventi cambiano poco del nostro sapere e del nostro relazionarci con quell’archetipo. Se dovessimo descrivere cosa vediamo parleremmo comunque sempre di una Monna Lisa, una volta con i baffi ed un’altra con un occhio nero: Monna Lisa resta Monna Lisa, nessun intervento e nessuno sviluppo, ci allontanano così tanto da non renderci più riconoscibile la radice.

La stessa cosa può accadere – abbandoniamo l’arte – quando parliamo di famiglia. Ciascuno di noi ha un proprio modello di riferimento (probabilmente quello in cui è cresciuto e che per questo motivo ritiene “normale” e lo assurge come paradigma per determinare relazioni e interazioni con le altre famiglie, che vediamo e valutiamo di conseguenza come uguali, simili o diverse) ma come per la Gioconda, tutte restano quella cosa lì, anche le più distanti, restano riconoscibili come famiglia: e ci sarà quella “capolavoro”, da museo e quella con un occhio nero ma sempre di famiglia si tratta.

Ben lo sa l’anagrafe che già quasi 30 anni fa, nel 1989, ha abbandonato ogni obbligatorio riferimento a vincoli di parentela o di dipendenza economica quale requisito per essere famiglia preferendo una formulazione ampiamente inclusiva, basata sulla autodeterminazione per cui è famiglia l’insieme delle persone conviventi e coabitanti[3].

Perché questa introduzione? Perché il tema richiesto con lo sviluppo di questo intervento è il punto di vista dell’ufficiale dello stato civile, che deriva necessariamente dall’assetto che egli assume, e dalla sua corretta collocazione nell’ambito ordinamentale discende l’angolatura del suo sguardo e il nostro ordinamento è questo: il terreno su cui innestiamo i diritti (e i doveri) di tutela costituzionale è oggi di questa natura. La formazione sociale familiare è quanto di più ampio e inclusivo si possa immaginare.

E così è (questa ricchezza non la perderemmo) anche se anziché ci riferissimo alla filiazione.

I glottologi più ricercati potrebbero considerare figlio una parola valigia, cioè un termine che contiene al proprio interno ulteriori sfumature. (more…)

Le famiglie arcobaleno… esistono, anche per il Tribunale di Roma

Pubblichiamo il decreto con il quale il Tribunale di Roma ha ordinato all’ufficiale di stato civile di rettificare l’atto di nascita di due gemelli, nati in California grazie alla gestazione per altri ed inizialmente registrati – a seguito di trascrizione dell’atto di nascita – con l’indicazione di uno solo dei due padri.

Il caso, seguito dall’avvocata Maria Antonia Pili, trae origine dalla richiesta dei due padri che – una volta prodotto il certificato di nascita recante l’indicazione di entrambi quali genitori – chiedevano la conseguente rettifica dell’atto di nascita già formato, con l’indicazione del secondo padre.

Il giudice romano, seguendo un percorso già inaugurato da altre Corti di merito (ricordiamo in particolare, tra le altre, analoga pronunce del Tribunale di Livorno) e seguito da alcune amministrazioni comunali, ha correttamente ritenuto che la rettificazione fosse dovuta in forza dell’applicazione della legge nazionale dei minori, cittadini statunitensi iure soli (e italiani iure sanguinis), che ne determina lo status filiationis ai sensi dell’art. 33 della legge n. 218/1995.

Allo stesso tempo, altrettanto correttamente ritiene il Tribunale che l’applicazione della legge dello stato di nascita non sia contraria all’ordine pubblico internazionale: come chiarito dalla Corte di cassazione nelle note sentenze n. 19599/16 e 14878/17, infatti, per un verso l’ordine pubblico internazionale è da intendersi quale il complesso dei valori essenziali dell’ordinamento (di rango costituzionale) da interpretarsi in armonia con quelli della comunità internazionale, ivi compresa l’istanza di protezione dei diritti fondamentali dell’uomo e la salvaguardia dell’interesse del minore. D’altro canto, e conseguentemente, il controllo di non contrarietà all’ordine pubblico internazionale non può tradursi in un controllo di conformità della disciplina straniera applicabile all’ordinamento interno, bensì appunto in un mero controllo di non contrarietà a tale complesso di principi e valori.

Degno di nota, inoltre, che il Tribunale ribadisca l’indifferenza della tecnica procreativa cui si sia fatto ricorso all’estero – e della sua conformità o meno al diritto italiano – rispetto alla valutazione della non contrarietà all’ordine pubblico e, soprattutto, rispetto alla salvaguardia dell’interesse del minore alla conservazione dello status filiationis legittimamente acquisito all’estero, al riconoscimento giuridico del rapporto con entrambi i padri e, infine, alla protezione della propria identità personale.

L’omogenitorialità a Palazzo della Consulta: osservazioni a prima lettura dell’ordinanza del Tribunale di Pisa del 15 marzo 2018

di Angelo Schillaci

 

  1. 1.

È stata pubblicata sulla G.U. n. 19 del 9 maggio 2018 l’ordinanza con la quale il Tribunale di Pisa ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma risultante dal combinato operare degli artt. 449 c.c., 29, comma 2, del D.P.R. n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), dell’art. 250 c.c. e degli artt. 5 e 8 della legge n. 40/2004 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consente all’ufficiale di stato civile di formare l’atto di nascita di un bambino, cittadino straniero, con l’indicazione di due genitori dello stesso sesso, qualora ciò sia corrispondente allo status a questo riconosciuto dalla sua legge nazionale, applicabile in base all’art. 33 della legge n. 218/1995.

In particolare, il Tribunale di Pisa era investito del ricorso avverso il diniego dell’ufficiale di stato civile del Comune di Pisa di ricevere la dichiarazione di riconoscimento congiunto del minore da parte di due donne – l’una madre gestazionale e cittadina statunitense, l’altra madre intenzionale e cittadina italiana – e conseguentemente formarne l’atto di nascita in conformità allo status filiationis sussistente nei confronti di entrambe ai sensi della legge nazionale del minore.

L’illegittimità costituzionale della norma è lamentata in relazione ad una serie di parametri, ed in particolare: agli artt. 2 e 3 Cost., sotto il profilo dell’illegittima restrizione del diritto a vedersi riconosciuto, in Italia, lo status di figlio acquisito sulla base della propria legge nazionale; all’art. 3, per l’irragionevole discriminazione rispetto alla analoga situazione del cittadino straniero, figlio però di genitori di sesso diverso, che tale status potrebbe vedersi invece riconosciuto; agli artt. 3 e 24, poiché la norma non consente al figlio di ottenere la prova precostituita della filiazione, che sussiste in base alla legge applicabile in assenza di motivi ostativi di ordine pubblico internazionale; agli artt. 3 e 30, sotto il profilo della illegittima restrizione del diritto del figlio di ricevere mantenimento e istruzione da entrambi i genitori, che siano tali secondo la sua legge nazionale; all’art. 117, comma 1, in relazione agli artt. 3 e 7 della Convenzione di New York del 1989, sotto il profilo del pregiudizio subito dall’interesse del fanciullo a veder riconosciuta anche in Italia la doppia genitorialità sussistente secondo la sua legge  nazionale; ancora all’art. 117, comma 1, in relazione all’art. 7 della medesima Convenzione di New York, sotto il profilo della lesione del diritto a vedere immediatamente riconosciuto in Italia lo status di figlio di entrambe le madri, legittimamente acquisito sulla base della legge nazionale.

Nel prospettare e motivare la questione di legittimità costituzionale, l’ordinanza muove dal presupposto – sul quale soltanto in questa sede si svolgeranno alcune (more…)

Comune di Torino sulla iscrizione di due mamme o papà negli atti di nascita: non è una forzatura giuridica

di Marco Gattuso

La sindaca di Torino ha annunciato ieri la volontà di iscrivere all’anagrafe i figli nati da coppie di due mamme o due papà.
La decisione è scaturita dal caso (riportato dalla stampa nei giorni scorsi ) di due mamme che avevano chiesto – non la trascrizione di un certificato estero ma – di iscrivere un certificato di nascita con due mamme per un bambino che è nato qui in Italia.
La questione delle trascrizioni di atti di nascita esteri é stata già affrontata e risolta positivamente da altri Comuni in casi ormai numerosi, in particolare grazie a due importanti pronunce della Corte di Cassazione (vedi qui e qui).
Il Comune di Torino si allinea a tale indirizzo e annuncia tuttavia oggi anche una scelta nuova, poiché qui non si tratta di ammettere un atto già formato all’estero (che come noto può essere trascritto sempre, anche se non conforme alle nostre leggi, purché non sia contrario all’ordine pubblico internazionale), ma di formare un atto di nascita con due mamme o due papà, in quanto lo si assume conforme alla nostra legge nazionale.
Si tratta di una scelta importante, perché segna il passaggio al riconoscimento che i bambini nati dalle “famiglie arcobaleno” possono godere di una tutela piena già secondo le leggi vigenti. Ben oltre la cd. stepchild adoption che lascia questi bambini privi di un genitore per anni, che dipende da una successiva scelta dei genitori, che deve essere sottoposta a un nuovo vaglio dei tribunali (spesso lungo, incerto e costoso) e che secondo alcuni non dà neppure effetti pieni.
Nel comunicato della sindaca di Torino si legge che vi è la sua “ferma volontà di dare pieno riconoscimento alle famiglie di mamme e di papà con le loro bambine e i loro bambini” per cui “da mesi stiamo cercando una soluzione compatibile con la normativa vigente” e che “la nostra volontà è chiara e procederemo anche forzando la mano, con l’auspicio di aprire un dibattito nel Paese in tema di diritti quanto mai urgente”.
Nel comunicato, la sindaca sottolinea dunque come questa svolta sia diretta, innanzitutto, a riaprire il dibattito politico sulla questione dell’omogenitorialità.
Non è questa evidentemente la sede per discutere le implicazioni e gli effetti politici di questa scelta, mentre può essere utile riflettere sulle sue implicazioni strettamente giuridiche e, soprattutto, sul fondamento giuridico di questa decisione.

La sindaca, dunque, afferma che procederà senz’altro alla formazione degli atti di nascita, che il suo ufficio sta “cercando una soluzione compatibile con la normativa vigente” e che comunque non è neppure esclusa la eventualità di “forzare la mano”.
È ovvio che il sindaco, quando agisce quale ufficiale di stato civile, debba tenere (more…)

Associazioni, democrazia e il principio “una testa un voto”

di Marco Gattuso

1.

Ha fatto molto discutere l’esito del recente congresso di una associazione lgbti italiana, per cui sono stati sostanzialmente riconfermati i vertici e la linea politica. Pur non volendo entrare nel merito della discussione politica in corso e, men che meno, nella vita interna della stessa associazione, della quale si ignorano peraltro elementi di dettaglio che possono rivelarsi dirimenti, non essendo note al momento informazioni certe con riguardo alle specifiche modalità di formazione dell’organo congressuale e di voto (in particolare allo stato non risultano pubblici né i verbali del congresso né le modalità di composizione dello stesso), la vicenda e il dibattito che ne è conseguito, soprattutto con riguardo alle modalità di determinazione delle delibere associative, appare buona occasione per qualche riflessione più in generale in materia di associazioni non a scopo di lucro e principio di democraticità.

La questione dell’effettività della democrazia interna delle associazioni, infatti, è ritornata e ritorna a più riprese nella storia dei movimenti per i diritti civili italiani, anche lgbti, nessuna formazione associativa e nessuna parte politica o culturale essendo esente da tentativi di forzature e, quindi, dalla necessità di chiarimenti costanti con riguardo ai principi giuridici che reggono la vita associativa.

Dunque, senza nulla volere aggiungere in relazione a vicende specifiche per cui, come detto, mancano allo stato specifici elementi di giudizio, può essere questa l’occasione per alcune precisazioni sulla non sempre facile relazione fra la libertà di associazione, da tutelare nei confronti di poteri esterni, pubblici e privati, e la libertà nella associazione, intesa come diritto di contribuire alla vita associativa, da tutelare rispetto alla eterna tentazione umana di precostituire egemonie politiche mediante la manipolazione delle regole interne, sempre possibile con mere modifiche statutarie.

2.

È noto, innanzitutto, che le associazioni cd. “non riconosciute” godono di ampia libertà con riguardo alla regolamentazione dei loro rapporti interni, atteso che sono sottratte a un rigido controllo statuale e sono regolamentate sulla base di scelte discrezionali degli associati e delle associate, in esercizio della loro libera autonomia negoziale (e per tale ragione tale forma associativa “non riconosciuta”, che nelle intenzioni del legislatore del 1942 era destinata a realtà minori e di scarso rilievo, è stata da subito preferita rispetto alle “associazioni riconosciute” tanto dai partiti politici, che dai sindacati, che dalla grandissima maggioranza delle associazioni senza scopo di lucro).

Per opinione quasi unanime, le associazioni, infatti, hanno innanzitutto la forma giuridica di un contratto plurilaterale, sicché vale per le stesse il principio della piena libertà dei contraenti di scegliere liberamente il tipo contrattuale che più si adatta alle loro esigenze, di derogare alle regole predisposte dal legislatore e, secondo un’opinione, anche di determinare forme contrattuali atipiche (anche chi contesta la qualificazione quale “contratto”, in ragione della non patrimonialità del suo oggetto e della discrasia fra lo “scopo comune” che caratterizza l’associazione e lo schema di scambio che sottende al contratto, tende comunque a parlare di “negozio giuridico”, con l’effetto di considerare comunque applicabili le regole generali in materia di formazione del consenso, autonomia negoziale ecc..).

Ciò non di meno, è noto che anche l’autonomia negoziale incontra un limite nella necessità di rispettare le norme imperative, inderogabili, poste dall’ordinamento a protezione di interessi pubblici o diritti individuali inviolabili.

Alla forma giuridica contrattuale si accompagna, invero, la concezione dell’associazione come formazione sociale e organizzazione collettiva attraverso la quale una pluralità di individui che versino nelle medesime condizioni sociali concorrono al perseguimento di ideali comuni, alla cui tutela è preposto l’articolo 18 della Costituzione, che protegge la (more…)

Corte d’appello di Genova: riconoscimento automatico di adozione omogenitoriale nazionale straniera

di Guido Noto La Diega* 

Con ordinanza n. 1319 del 1 Settembre 2017, la Corte d’Appello di Genova si è pronunciata in tema di trascrizione della sentenza straniera concedente l’adozione a una coppia di coniugi del medesimo sesso e trascrizione del certificato di nascita del minore adottato. Il collegio genovese dichiara l’efficacia della sentenza straniera e ordina la trascrizione della stessa e del certificato di nascita nei registri dell’Ufficio di Stato Civile sulla base di tre considerazioni. Innanzitutto la vicenda è regolata dalla legge n. 218/1995 (nel prosieguo anche ‘legge sul diritto internazionale privato’ o ‘legge d.i.p.’) e non dalla legge n. 184/1983 (nel prosieguo anche ‘legge sulle adozioni’). Ne segue che la regola è il riconoscimento automatico dell’adozione da parte dell’ufficiale dello stato civile, mentre il vaglio del Tribunale dei Minorenni previsto dalla legge sulle adozioni è eccezionale e limitato alla c.d. adozione internazionale. Quest’ultima si ha quando una coppia residente in Italia adotta un minore in stato di abbandono e residente all’estero. In secondo luogo, i provvedimenti de quibus vanno obbligatoriamente riconosciuti al ricorrere di quattro condizioni: competenza dell’autorità che li ha emessi, efficacia nell’ordinamento estero considerato, non contrarietà all’ordine pubblico e rispetto dei diritti di difesa. La detta non contrarietà è la condizione principale è sul punto la Corte d’Appello è cristallina nello statuire che la limitazione dell’adozione alle coppie unite in matrimonio non è una norma fondamentale, di talché la sua violazione non attiva il limite dell’ordine pubblico internazionale, il quale negli anni è andato significativamente erodendosi per via pretoria. Il nucleo di questo limite è nel rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, che, in subiecta materia, prendono il volto del prevalente interesse del minore. In quest’ultimo si sostanzia il terzo ordine di considerazioni del collegio. L’interesse del minore deve valutarsi in concreto, alla luce del diritto alla continuità delle relazioni affettive e al tranquillo godimento dello status filiationis. L’importanza dell’interesse del minore è tale che, un provvedimento che potrebbe prima facie sembrare in contrasto con l’ordine pubblico, non è da considerarsi tale perché riflette l’interesse del minore. In conclusione, l’ordinanza annotata consolida e chiarifica il diritto vivente sotto almeno tre profili. Anzitutto, le coppie omogenitoriali integrano a pieno titolo il concetto di famiglia, il che si riverbera sul fatto che è nell’interesse del minore crescere nel suddesto consesso familiare. Un secondo profilo attiene alla conferma dell’ordine pubblico internazionale come norma ad applicazione eccezionale e interpretata in modo tale da assicurare la massima apertura possibile agli ordinamenti stranieri. Terzo, con più diretto riguardo al caso di specie, si conferma quanto statuito dalla Corte d’Appello di Milano con ordinanza del 5 Ottobre 2016 in tema di riconoscimento e trascrizione di provvedimenti stranieri di adozione a favore di coppie omogenitoriali (v. M.M. Winkler, Riconoscimento e trascrizione di un’adozione straniera da parte di una coppia same-sex: la pronuncia della Corte d’Appello di Milano). In pari tempo, la sentenza può essere vista come un passo avanti rispetto al decreto del Tribunale per i Minorenni di Firenze che, il 7 Marzo 2017, pur riconoscendo l’efficacia di un’adozione omogenitoriale di due cittadini italiani residenti nel Regno Unito, non aveva riconosciuto la natura schiettamente internazionalprivatistica della vicenda, applicando invece il meno favorevole regime dell’art. 36, comma 4 legge sulle adozioni (v. il commento di A. Schillaci, “Una vera e propria famiglia”: da Firenze un nuovo passo avanti per il riconoscimento dell’omogenitoritalità).

Il fatto

Con sentenza del 10 Marzo 2016, il Tribunal de Justiça di uno stato nel Brasile concedeva la adopção di minore a un cittadino italo-brasiliano e uno franco-brasiliano uniti in matrimonio. Col provvedimento straniero (more…)

Il dialogo fra le corti minorili in materia di stepchild adoption

di Marco Gattuso* e Angelo Schillaci**

 

1. Palermo, Bologna, Venezia: tre punti di vista sulla stepchild adoption

Nelle ultime settimane sono state depositate tre sentenze in materia di adozione coparentale (Tribunale per i minorenni di Venezia del 31 maggio 2017, depositata il 15 giugno; Tribunale per i minorenni di Palermo del 30 luglio 2017; Tribunale per i minorenni di Bologna del 20 luglio 2017, depositata il 31 agosto), le quali – ad un anno dalla decisione con cui la Cassazione (con la nota sentenza n. 12962 del 24 maggio 2016) l’ha ammessa in caso di conviventi anche dello stesso sesso – rappresentano tre diversi atteggiamenti dei tribunali italiani sulla questione che tanto ha agitato il dibattito pubblico durante l’iter della legge sull’unione civile: la c.d. stepchild adoption applicata alle coppie omosessuali.

Tutti e tre i tribunali aderiscono in linea di principio all’indirizzo della Cassazione, potendosi ritenere così verosimilmente accantonato quell’orientamento di netta contrapposizione seguito dai Tribunali per i minorenni di Torino e Milano (Torino 11 settembre 2015; Milano, 17 ottobre 2016 in Articolo29 con nota S. Stefanelli, che divergevano con varia motivazione dall’interpretazione evolutiva del tribunale per i minorenni di Roma avallato dalla Cassazione), le cui decisioni sono state poi riformate dalle rispettive Corti di appello (Torino 27 maggio 2016; Milano 9 febbraio 2017).

In nessun caso, inoltre, viene negato che una volta ammessa l’applicabilità dell’art. 44 lettera d) legge n. 184/83 (d’ora in poi, legge adoz.) al convivente del genitore legalmente riconosciuto, la stessa debba essere estesa anche nell’ambito delle coppie omosessuali. Sul punto valga il richiamo alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani che vieta ogni distinzione fra coppie conviventi eterosessuali e omosessuali anche in materia di adozioni[1]. Sulla idoneità genitoriale delle coppie dello stesso sesso valga inoltre il rimando all’unanime presa di posizione delle organizzazioni degli psicologi, degli psicoanalisti e dei pediatri, quali si desumono dai loro statements ufficiali[2], e la costante giurisprudenza europea[3],  internazionale[4] e della nostra Corte di cassazione[5] e di merito[6].

Ciò nonostante, il Tribunale per i minorenni di Palermo giunge a conclusioni che annullano ogni pratico effetto giuridico all’indirizzo della Suprema Corte (tant’è che il ricorso viene rigettato), mentre la decisione veneziana, pur favorevole per la ricorrente, appare dissonante nella motivazione.

Di tutt’altro segno la decisione del Tribunale per i minorenni bolognese (la quale segue alcune sentenze analoghe depositate in luglio, contenenti interessanti e innovative affermazioni con riguardo alla natura familiare delle relazioni e agli effetti in materia della legge n. 76/2016 istitutiva  dell’unione civile fra persone dello stesso, per cui si rimanda ad altro commento in questo sito[7] ), a nostro avviso del tutto condivisibile ed assai accurata, la quale contiene una precisa e chiara risposta alla sollecitazione palermitana, in un interessante e singolare dialogo fra le nostre corti minorili.

Da un lato, pertanto, le decisioni in commento confermano che l’orientamento inaugurato dal Tribunale per i minorenni di Roma nel 2014 e confermato dalla Corte di cassazione (more…)

La rettificazione anagrafica del sesso e l’intervento medico-chirurgirco tra istanza personale e certezza sociale

di Ilaria Rivera*

1. La sentenza n. 2176 del 2017 del Tribunale di Bologna e la facoltà di ricorrere all’intervento medico-chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica del sesso

Con la sentenza n. 2176/2017 del 7 giugno 2017 il Tribunale di Bologna, sezione I civile, autorizza congiuntamente la rettificazione anagrafica del sesso richiesta dalla parte attrice e la sottoposizione ad intervento chirurgico di modificazione dei caratteri sessuali primari.

La pronuncia ricostruisce previamente il quadro normativo nazionale entro cui si inserisce la vicenda in esame, che trova la principale fonte di sviluppo nella legge n. 164 del 1982[1], che, ai sensi dell’art. 1, stabilisce che la rettificazione anagrafica del sesso debba aversi sulla base dell’accertamento giudiziale, passato in giudicato, che attribuisca alla persona interessata un sesso diverso da quello attribuitegli all’atto di nascita a seguito delle intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali.

Tale norma, ad ogni modo, va letta in combinato disposto con il successivo art. 3, attualmente confluito nell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011, a mente del quale il tribunale autorizza il trattamento medico-chirurgico “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali”.

Ad un’analisi sommaria delle disposizioni sopra richiamate, sembrerebbe emergere che la regola riposa nella necessità di sottoporsi, al fine dell’ottenimento della rettificazione anagrafica del sesso, all’intervento medico-chirurgico modificativo o demolitorio dei caratteri sessuali primari, che potrebbe escludersi solamente nell’ipotesi in cui risultasse sufficiente il trattamento medico ormonale.

Con un’operazione ermeneutica originale e – in buona misura – ragionevole, il giudice bolognese riconosce la facoltà e non già la necessità del trattamento chirurgico come precondizione della rettificazione anagrafica del sesso, innanzitutto sulla base del dettato letterale della legge, il cui art. 1 non specifica in alcun modo se il riferimento sia ai caratteri sessuali primari e sessuali ma soprattutto non implica lo stretto richiamo ai soli caratteri sessuali primari, perché anche i caratteri secondari potrebbero essere suscettibili di interventi modificativi, anche incisivi. In secondo luogo, proseguendo nel ragionamento, si escluderebbe la necessità del trattamento chirurgico anche in ragione dell’evoluzione della società, della progressione delle innovazioni scientifiche e, soprattutto, della modificazione degli stilemi culturali relativi alle questioni attinenti al transessualismo. (more…)

Riconoscimento e trascrizione di un’adozione straniera da parte di una coppia same-sex: la pronuncia della Corte d’Appello di Milano

di Matteo M. Winkler*

Con l’ordinanza del 5 ottobre 2016 (dep. nel giugno 2017), la Corte d’Appello di Milano si è pronunciata in tema di riconoscimento e trascrizione di provvedimenti stranieri di adozione a favore di coppie di genitori dello stesso sesso, facendo il punto su alcuni interessanti profili di ordine processuale e sostanziale. Si conferma così l’ormai consolidato orientamento delle corti di merito che, accogliendo positivamente realtà omogenitoriali straniere, finisce per prendere atto di esperienze familiari che esistono anche nel nostro Paese.

Il caso

Nel caso sottoposto alla Corte d’Appello di Milano un padre, cittadino italiano naturalizzato americano, domandava il riconoscimento e la trascrizione di un order of adoption con il quale la Surrogate’s Court di New York aveva pronunciato l’adozione di un bambino a favore suo e del marito, anch’egli cittadino americano. A New York, infatti, l’adozione congiunta da parte di coppie omosessuali è da tempo possibile, e il matrimonio tra persone dello stesso sesso è legale grazie al Marriage Equality Act del 2011.

Rivoltosi inizialmente all’ufficio di stato civile del comune di ultima residenza, il ricorrente si era visto rigettare l’istanza con la motivazione che sarebbe stato necessario un intervento del tribunale per i minorenni ai sensi dell’art. 36, co. 4, della Legge 4 maggio 1984, n. 183 (Diritto del minore ad una famiglia).

Diversamente, la Corte d’Appello di Milano ha ritenuto di dover accogliere il ricorso, e ciò sulla base di tre ragioni. Anzitutto, sotto il profilo processuale il ricorso deve inquadrarsi nelle norme della Legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) che consentono l’immediata efficacia dei provvedimenti stranieri di adozione. In secondo luogo, la Corte afferma che un provvedimento di adozione rilasciato a favore di una coppia dello stesso sesso non può essere contrario all’ordine pubblico internazionale, con ciò seguendo l’orientamento della Corte di Cassazione (sent. 30 settembre 2016, n. 19599). In terzo luogo, viene effettuata la classica valutazione della conformità della soluzione al preminente interesse del bambino, come prescrive l’art. 57 della Legge 184/1983. (more…)

Riconoscimento dell’atto di nascita da due madri, in difetto di legame genetico con colei che non ha partorito. Nota a Cass. civ., sez. I, 15 giugno 2017, n. 14878.

di Stefania Stefanelli*

 

La Cassazione torna a pronunciarsi sulla rettificazione o sostituzione dell’atto di nascita formato all’estero con indicazione di due madri, originariamente trascritto nei registri dello stato civile italiano come figlio della sola partoriente (Cass., sentenza n. 14878 del 26 ottobre 2016, depositata il 15 giugno 2017) . La fattispecie oggetto del giudizio si distingue da quella cui la stessa prima sezione dedicò la decisione n. 19599/2017 in quanto difetta qualsiasi legame biologico tra il bambino e la seconda madre, legata alla partoriente da matrimonio celebrato all’estero.

Al pari del richiamato precedente e di Cass. 12962/2017, in tema di adozione in casi particolari del figlio del/la partner, il Collegio ribadisce che non si tratta di questione da sottoporre alle sezioni unite per il solo fatto di riferirsi a diritti fondamentali o a questioni nuove, spettando la funzione nomofilattica anche alle sezioni semplici.

Ritenuto ammissibile il ricorso avverso l’ordinanza emessa in sede di reclamo, in materia di volontaria giurisdizione, in quanto provvedimento privo di specifico rimedio, avente carattere decisorio e definitivo, incidenza su diritti soggettivi attinenti allo status ed all’identità delle persone, la Corte principia l’esame del merito affrontando “seppur incidentalmente”, la questione della contrarietà o meno all’ordine pubblico del matrimonio o della convivenza tra persone dello stesso sesso, e la risolve ricordando il proprio orientamento che, superata la nozione di inesistenza, ha concluso per l’inefficacia del matrimonio same sex celebrato all’estero (Cass. 4184/2012).

Unione civile e adozione coparentale

Si apre di seguito il primo dei passaggi della motivazione degni di particolare rilievo, essendo questa la prima occasione in cui la Corte si pronuncia ex professo circa la compatibilità della l. 76/2016, istitutiva dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, con la disciplina della filiazione: i precedenti citati avevano, invece, evitato di statuire in merito al comma 20 della legge, perché non applicabile ratione temporis.

Ritiene il Collegio che, in ragione dell’esclusione della disciplina delle adozioni dalla clausola di equivalenza di cui al primo periodo del citato comma 20, “non si potranno (more…)

Rettificazione di sesso: un’unica sentenza a tutela della identità personale

2015-02-10-00-16-53di Anna Maria Tonioni*

Il procedimento giudiziale ex art. 31 D.Lgs 150/2011 deve accertare la modalità attraverso la quale il cambiamento di genere è avvenuto ed il suo carattere definitivo e, verificate la sussistenza di tali condizioni, ove la parte istante abbia richiesto sia la rettificazione dell’atto di nascita sia l’autorizzazione ad eseguire un intervento chirurgico, deve concludersi con una unica sentenza divisa in due capi decisori: uno che dispone la rettificazione degli atti di stato civile, consentendo il cambiamento dei documenti di identità con la correzione del sesso e del nome in modo conforme allo stato di fatto; l’altro che, al contempo, autorizza l’intervento chirurgico richiesto. Intervento che la persona interessata potrà eseguire nei tempi imposti dalle strutture sanitarie pubbliche.

1. I presupposti per la rettificazione giudiziale del sesso e del nome.

Ai sensi dell’art. 1 della L. 164/1982 il presupposto per la rettificazione giudiziale del sesso e del nome enunciato nell’atto di nascita è costituito dalla intervenuta modificazione dei caratteri sessuali della persona interessata. Tale principio, già riconosciuto da tempo da vari giudici di merito (Tribunale di Roma 31.5.2013 n. 271; Tribunale Roma 6.8.2013 n. 374; Tribunale di Roma 11.2.2014 n. 32; Tribunale di Rovereto 3.5.2013 n.194; Tribunale di Siena 12.6.2013 n. 412), è stato affermato anche dalla Corte di cassazione con sentenza 20.07.2015 n. 15138 e avvalorato dalla Corte costituzionale con sentenza 05.11.2015 n. 221. Sicché laddove dispone che il Tribunale autorizza l’intervento chirurgico ove necessario, la legge richiede di verificare che l’operazione richiesta dalla persona interessata occorra ad assicurarle uno stabile equilibrio psicofisico, ma non postula né la necessità dell’adeguamento dei caratteri sessuali mediante l’operazione chirurgica, né che il Tribunale verifichi l’avvenuta esecuzione dell’intervento autorizzato in funzione di garanzia del diritto alla salute della persona.

La Suprema Corte in particolare ha statuito che, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata e conforme alla giurisprudenza della CEDU dell’art. 1 L. 1982/164 e del successivo art. 3 della medesima legge, ora art. 31 comma 4 D.Lgs. 2011/150, per ottenere la rettificazione del sesso nei registri dello stato civile non è obbligatorio l’intervento chirurgico demolitorio e/o modificativo dei caratteri anatomici primari, quando venga accertata la serietà, univocità e definitività del percorso di transizione scelto dall’individuo. La Corte costituzionale ha definitivamente chiarito che “la legge ha escluso la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali” e ha affermato che è invece necessario “un rigoroso accertamento giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento è avvenuto e del suo carattere definitivo. Rispetto ad esso il trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona”.

Secondo la più risalente ed ormai ripudiata interpretazione, (more…)

Anche da Milano, dopo la Cassazione, Roma e Torino, semaforo verde per l’adozione coparentale

imagedi Marco Gattuso

Pubblichiamo la sentenza della Corte d’appello di Milano del 9 febbraio 2017 con la quale viene riformata la sentenza emessa dal tribunale di Milano il 13.9.2016 (e depositata il 17.10.2016) che rigettava come noto l’istanza di ammissione all’adozione in casi particolari ai sensi della lettera d) della legge adozioni da parte della madre sociale evidenziando la ritenuta impossibilità di utilizzare tale disposizione al fine di dare riconoscimento giuridico a tale relazione di fatto, come invece ritenuto dalla Corte di cassazione con la nota sentenza n. 12962 del 2016. In seguito a tale sentenza della Suprema Corte, il tribunale di primo grado aveva prospettato una diversa lettura del quadro normativo, peraltro revocando il proprio precedente indirizzo di cui a sentenza del 28 marzo 2007 con cui aveva già ammesso l’utilizzabilità dell’art. 44 lettera d) a tutela del figlio convivente con una coppia (eterosessuale) non coniugata. Secondo il tribunale per i minorenni ogni problema di discriminazione tra i minori che vivono con coppie di fatto eterosessuali ed omosessuali sarebbe così agevolmente superato, posto che l’adozione del figlio biologico del convivente dovrebbe ritenersi preclusa sia a coppie omosessuali che eterosessuali (i giudici d’appello ricordano al riguardo che il tribunale di primo grado così facendo “nega in radice la possibilità di adozione speciale del figlio del convivente, accedendo alla interpretazione restrittiva della norma in esame che peraltro lo stesso Tribunale per i Minorenni di Milano, già a partire dal 2007, aveva invece superato, pronunziandosi più volte favorevolmente, con diversi Collegi, in casi di adozione ex art. 44 lettera d) del figlio del convivente”).

I giudici di appello, su conforme parere favorevole della Procura generale, hanno respinto tale proposta interpretativa dei giudici di primo grado, osservando in particolare come non risulti condivisibile l’assunto del tribunale per cui le ipotesi di cui all’art. 44 lettere a), c) e d) si riferirebbero tutte a situazioni che hanno alla base “l’abbandono o gravi carenze delle figure genitoriali”, circostanza che non si riscontrerebbe nella specie in quanto il bambino era perfettamente accudito dalla mamma biologica. Come noto tale impostazione era stata severamente criticata in (more…)

Il brutto pasticcio sul cognome dell’unione civile

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  di Marco Gattuso*

 1.La decisione

Pubblichiamo l’ordinanza del Tribunale di Lecco, prima sezione civile, del 2 aprile 2017, con la quale il giudice, confermando il decreto emesso il 9 marzo inaudita altera parte, ha inibito al Sindaco del Comune di Lecco di annullare l’annotazione anagrafica del cognome comune scelto da due donne unite civilmente, trasmesso peraltro anche alla bambina nata dopo la celebrazione dell’unione.

Soltanto poche settimane fa, al momento della presentazione dei decreti attuativi della legge n. 76 del 2016 (Legge Cirinnà), sul portale Articolo29 era stato evidenziato il brutto pasticcio sulla questione del cognome dell’unione civile fra persone dello stesso sesso. Avevamo rilevato la verosimile illegittimità costituzionale della norma contenuta nel decreto attuativo n. 5 del 19 gennaio 2017 (articolo 3, comma 1, lettera c), n. 2), in quanto il Governo delegato a dare attuazione alla Legge Cirinnà aveva, a nostro avviso, sostanzialmente derogato ad un principio espresso dalla stessa legge, senza tuttavia averne il potere: dunque un eccesso di delega. Avevamo anche detto che la parte più clamorosa del pasticcio era contenuta nella norma (articolo 8: Disposizioni di coordinamento con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 23 luglio 2016, n. 144), davvero peculiare, con cui il Governo aveva ordinato ai sindaci di cancellare “entro trenta giorni” il cognome anagrafico delle coppie gay e lesbiche che si erano unite civilmente tra l’entrata in vigore della legge Cirinnà (5 giugno 2016) e l’entrata in vigore del decreto “attuativo” (gennaio 2017). Avevamo ipotizzato che verosimilmente quelle coppie non avrebbero accettato che la propria identità personale potesse essere modificata con un tratto di penna, con un provvedimento amministrativo emesso (peraltro senza contraddittorio) in attuazione di una norma fortemente sospetta d’essere incostituzionale.

Non era dunque difficile prevedere che tale diritto a scegliere e mantenere il cognome comune previsto dal comma 10 dovesse essere assicurato dall’Autorità giudiziaria ordinaria.

Ebbene, il primo tribunale adito con una procedura cautelare d’urgenza ex art. 700 c.p.c, ha dato ragione alla prima di queste coppie. Senza neppure affrontare il tema della illegittimità costituzionale del decreto attuativo, il tribunale di Lecco ha “disapplicato” la norma di cui all’articolo 8 che cancellava i cognomi già scelti (il giudice scrive «art. 4, comma 2» ma alla luce della motivazione si tratta di un evidente refuso), ravvisando una violazione dei principi di diritto europeo che tutelano il diritto al cognome. Dall’ordinanza si trae che il primo Decreto attuativo transitorio (il cd. Decreto ponte del luglio 2016) aveva dato corretta attuazione al principio contenuto nella legge, consolidando un diritto soggettivo delle persone unite civilmente al mantenimento del cognome anagrafico comune, mentre il successivo decreto che avrebbe voluto cancellare tale diritto soggettivo è invece illegittimo in quanto contrasta con il diritto alla identità personale sancito anche da fonti di diritto europeo. Richiamati i principi generali, propri anche del diritto europeo, in materia di protezione del nome e di salvaguardia della identità personale anche dei minori (è menzionato, in particolare, l’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali) il Tribunale ha riconosciuto il diritto a mantenere il cognome scelto, assumendo che «l’avvicendamento di norme ha senz’altro prodotto nella fattispecie in esame una lesione della dignità della persona e dell’interesse supremo del minore, che trovano tutela nei sopra richiamati principi fondamentali dell’Unione europea».

2.Il brutto pasticcio

Il provvedimento del tribunale lombardo, come detto, non affronta la questione (more…)

Ecco le formule definitive per la costituzione e la trascrizione delle unioni civili: commento al decreto ministeriale del 27 febbraio 2017

 campidoglio-rome-private-toursdi Luca Tavani*

Il formulario: si pronuncerà il fatidico “sì”

Il Ministro dell’interno, con l’emanazione del decreto 27 febbraio 2017, completa il quadro normativo necessario per dare piena operatività alle unioni civili approvate con la legge 20 maggio 2016, n. 76.

In particolare – con sensibile anticipo anche rispetto al tempo assegnatogli dall’art. 4 del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 5 – il decreto interviene a modificare il precedente decreto ministeriale 27 febbraio 2001 che si preoccupa di disciplinare la tenuta dei registri cartacei dello stato civile in attesa dell’operatività dell’archivio informatico: in questo modo anche i registri delle unioni civili (persa la connotazione di provvisorietà che avevano avuto dal DPCM di luglio) verranno gestiti amministrativamente come tutti gli altri registri dello stato civile.

La seconda parte del decreto, invece, è destinata all’aggiornamento del principale strumento operativo degli ufficiali dello stato civile: il formulario, un repertorio di formule e annotazioni utili per la redazione degli atti di stato civile.

Sono molte le novità introdotte nel formulario, che  risolvono alcuni punti controversi, che avevano già visto l’intervento dei primi giudici chiamati a risolvere questioni di palese discriminazione attuate nei confronti delle unioni civili rispetto al matrimonio.

La formula ministeriale, ad esempio, oggi è chiara nell’affermare che l’unione civile – e non poteva essere diversamente, sia per la sostanziale equiparazione tra i due istituti assicurata dal comma 20 della legge 76/2016, sia per la necessaria pubblicità di una procedura modificativa degli status personali – deve costituirsi, come il matrimonio, in una sala aperta al pubblico.

Dopo la previsione (nella nuova formulazione dell’art. 70 del regolamento dello stato civile) che l’ufficiale celebrante indossa la fascia tricolore, ed a seguito di questa espressa indicazione del luogo in cui l’unione prende forma (la sala aperta al pubblico), si tratta ora da un punto di vista formale di due procedure del tutto identiche.

La lettura della formula dell’unione (riportata nell’allegato 2, richiamato dall’art. 2 del decreto ministeriale), poi, fa superare di fatto anche la distinzione lessicale spesso rimarcata tra i matrimoni – che vengono “celebrati” – e le unioni – che sono invece “costituite” –, quasi ad assegnare in questi ultimi casi all’ufficiale dello stato civile un ruolo di mera “assistenza” di fronte alle dichiarazioni costitutive dell’unione.

Ora infatti – anche solo nella forma procedimentale – l’unione civile è a tutti gli effetti una celebrazione, visto che l’ufficiale dello stato civile deve interrogare le parti sulla volontà di unirsi (esse, dunque, pronunceranno il fatidico “sì”) e chiude l’atto con una sua dichiarazione di costituzione dell’unione. (more…)

Due padri, i loro figli: la Corte d’Appello di Trento riconosce, per la prima volta, il legame tra i figli e il padre non genetico

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di Angelo Schillaci*

Pubblichiamo l’ordinanza con la quale la Corte d’Appello di Trento, in data 23 febbraio 2017, ha disposto il riconoscimento di efficacia giuridica al provvedimento straniero che stabiliva la sussistenza di un legame genitoriale tra due minori nati grazie alla gestazione per altri – nel quadro di un progetto di genitorialità in coppia omosessuale – ed il loro padre non genetico.

Si tratta di una pronuncia di assoluta rilevanza, in quanto per la prima volta un giudice di merito applica, in una coppia di due padri, i principi enunciati dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 19599/2016, in tema di trascrizione dell’atto di nascita straniero recante l’indicazione di due genitori dello stesso sesso.

L’ordinanza richiama alcuni capisaldi della decisione della Corte di legittimità, ed in particolare: a) in merito al giudizio di compatibilità tra il provvedimento straniero e l’ordine pubblico, la necessità di far riferimento ad un concetto di ordine pubblico dai contorni larghi, al fine di valutare non già se il provvedimento straniero applichi una disciplina della materia corrispondente a quella italiana, bensì piuttosto se esso appaia conforme alle esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo (in questo caso, del minore) come garantiti dalla Costituzione italiana e dai principali documenti internazionali in materia; b) l’esigenza di salvaguardare il diritto del minore alla continuità dello status filiationis nei confronti di entrambi i genitori, il cui mancato riconoscimento non solo determinerebbe un grave pregiudizio per i minori, ma li priverebbe di un fondamentale elemento della loro identità familiare, così come acquisita e riconosciuta nello stato estero in cui l’atto di nascita è stato formato; c) l’assoluta indifferenza delle tecniche di procreazione cui si sia fatto ricorso all’estero, rispetto al diritto del minore al riconoscimento dello status filiationis nei confronti di entrambi i genitori che lo abbiano portato al mondo, nell’ambito di un progetto di genitorialità condivisa.

A tale ultimo riguardo, sempre limitandosi a sintetiche notazioni a prima lettura, merita di essere sottolineato un passaggio, nel quale la Corte d’Appello di Trento fa giustizia della pretesa esclusività del paradigma genetico/biologico nella costituzione dello stato giuridico di figlio (e correlativamente di genitore). Secondo la Corte, infatti, l’insussistenza di un legame genetico tra i minori e il padre non è di ostacolo al riconoscimento di efficacia giuridica al provvedimento straniero: si deve infatti escludere “che nel nostro ordinamento vi sia un modello di genitorialità esclusivamente fondato sul legame biologico fra il genitore e il nato; all’opposto deve essere considerata l’importanza assunta a livello normativo dal concetto di responsabilità genitoriale che si manifesta nella consapevole decisione di allevare ed accudire il nato; la favorevole considerazione da parte dell’ordinamento al progetto di formazione di una famiglia caratterizzata dalla presenza di figli anche indipendentemente dal dato genetico, con la regolamentazione dell’istituto dell’adozione; la possibile assenza di relazione biologica con uno dei genitori (nella specie il padre) per i figli nati da tecniche di fecondazione eterologa consentite” (pp. 17-18).

In questo senso, molto interessante anche la lettura della recente sentenza Paradiso e Campanelli c. Italia della Corte europea dei diritti dell’uomo, del 24.1.2017: in particolare, la Corte d’Appello mette in luce l’assoluta peculiarità del caso deciso dalla Corte di Strasburgo, specie sotto il profilo della pluralità di elementi che avevano condotto la Corte alla pronuncia negativa (e dunque, non solo l’assenza di legame biologico, ma anche e soprattutto la breve durata della relazione familiare di fatto in quel caso stabilitasi tra il bambino e i genitori intenzionali nonché la precarietà dei legami dal punto di vista giuridico), così escludendo che il decisum di Strasburgo possa rappresentare un ostacolo al riconoscimento del legame tra i minori ed il loro padre non genetico.

Dalla Corte d’Appello di Trento giunge così una significativa conferma – per la prima volta a proposito di una famiglia omogenitoriale con due padri, e sempre mettendo al centro la salvaguardia dell’interesse del minore – che madri e padri si diventa non soltanto grazie al corpo, o ai geni ma anche e soprattutto grazie all’intenzione, dunque al desiderio che sappia tradursi in consapevole assunzione di responsabilità.

* Ricercatore RTDB Università di Roma “Sapienza”

Furto di identità: che fine ha fatto il cognome dell’unione civile?

magritte  di Marco Gattuso*

 

1. Premessa: le mele avvelenate.

L’11 di febbraio è entrato in vigore il d.lgs. n. 5 del 19 gennaio 2017 con il quale il Governo dà attuazione alla delega contenuta nel comma 28 della Legge sull’unione civile in materia di stato civile.

Il decreto contiene due norme in materia di cognome che appaiono fortemente sospette di illegittimità costituzionale per eccesso di delega. Con la prima il legislatore delegato impone una sostanziale abrogazione del comma 10 della Legge. Con la seconda si prevede addirittura la cancellazione dei cognomi già scelti dalle parti in questi primi sette mesi di vigore della norma, con una procedura amministrativa de plano e senza contraddittorio.

A queste mele avvelenate del decreto governativo è dedicato questo breve studio.

2. Il cognome della famiglia: una vera novità per il diritto di famiglia italiano.

L’introduzione del cognome comune rappresenta il più innovativo effetto personale dell’unione civile. La dottrina ne ha segnalato l’evidente rilevanza simbolica, in quanto la previsione di un cognome comune dell’unione ne sottolinea la natura familiare e ne rimarca l’unità, conferendo rilevanza esterna e visibilità all’unione. La disciplina del cognome dell’unione civile appare inoltre assai più egualitaria di quella del matrimonio e rappresenta, pertanto, uno di quei passaggi del testo legislativo che sono stati indicati dalla migliore dottrina come più moderni rispetto alla stessa disciplina del matrimonio, suggerendo una sorta di competizione in positivo fra i due istituti.

Come noto, la legge rimette alle parti la scelta di un cognome comune mentre l’articolo 143 bis del codice civile prevede che la moglie aggiunga al proprio cognome quello del marito, con la conseguenza che il solo cognome del maschio vale a identificare la famiglia e con l’ulteriore effetto, stabilito non da una specifica disposizione ma da una norma desumibile da un insieme di disposizioni, che tale cognome del marito, assunto quale cognome della famiglia, viene trasmesso ai figli nati nel matrimonio. La disposizione matrimoniale dopo l’entrata in vigore della Legge sull’unione civile, è stata finalmente colpita, ma solo parzialmente, da pronuncia di illegittimità costituzionale[1]. La Corte costituzionale è intervenuta difatti su un particolare aspetto della disciplina del cognome, particolarmente odioso e discriminatorio, dichiarando l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che impedivano ai genitori, anche in caso di accordo fra loro, di dare al figlio un doppio cognome (formato con i cognomi dei due genitori).

Nonostante l’intervento della Consulta, la norma matrimoniale sul cognome resta sostanzialmente discriminatoria (com’è attestato dal fatto che per dare al figlio anche il cognome della donna è comunque necessario l’assenso dell’uomo). Anche in caso di apertura del matrimonio, dunque, sarebbe stata necessaria una disposizione come quella del comma 10, poiché la regola patriarcale del cognome del marito non sarebbe stata applicabile alle coppie dello stesso sesso.

La disciplina del cognome nell’unione civile subisce, invece, l’evidente influenza del modello tedesco (more…)

Ancora in tema di interpretazione dell’art. 44 della legge sulle adozioni: nota a Trib. minorenni di Milano, 17 ottobre 2016, n. 261

43di Stefania Stefanelli*

Con sentenza del Tribunale per i minorenni di Milano del 17 ottobre 2016 n. 261, che si allontana non solo dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità – segnatamente Cass. civ., sez. I, n. 12962/2016 – ma anche da quella dello stesso tribunale minorile[1], il collegio meneghino ha ritenuto che non sia «possibile accedere ad una interpretazione della lettera d) [dell’art. 44 l. adozione] estendendo la possibilità dell’adozione relativa ai casi di impossibilità di affidamento preadottivo ad ogni caso di impossibilità ‘anche giuridica’ di ricorrere alla adozione legittimante e quindi alla sola valutazione dell’interesse del minore». Da tale interpretazione deriva il rigetto delle domande di adozione “incrociata” avanzata da ciascuna donna nei confronti del figlio biologico dell’altra, nell’ambito di un’unione civile e di un progetto di genitorialità condivisa, realizzato all’estero con l’inseminazione artificiale delle madri col seme del medesimo donatore.

Sebbene la relazione del Servizio Adozioni attestasse «un positivo legame tra le due ricorrenti», e che le bambine apparissero «serene nella relazione con entrambe, curiose e riflessive sulla situazione famigliare, notando differenze rispetto ad altri nuclei, complessivamente serene, anche dalle informazioni assunte, nel contesto familiare e sociale», i giudici hanno ritenuto che l’adozione in questione «si può pronunciare anche in casi in cui non sussistano le condizioni di abbandono previste dall’art. 8 (come ad es. nella lett. b) ovvero in altri casi peculiari, in cui il legislatore ha ritenuto che, pur sussistendo la situazione di abbandono […] per la peculiarità della situazione non sia opportuno procedere all’adozione legittimante al fine di favorire il permanere del minore in un contesto famigliare che sia però sostitutivo della famiglia di origine proprio per garantirgli i due ‘genitori’ che altrimenti non avrebbe»[2].

Così argomentando, la decisione in commento finisce per allontanarsi – col discutere di una sostituzione del nucleo familiare adottivo a quello di origine – anche dall’orientamento giurisprudenziale più risalente e dall’opinione dottrinale che pur richiama, a sostegno dell’esclusione dall’ambito dell’impossibilità di affidamento preadottivo, di cui all’art. 44 lett. d) l. n. 184/1983, di quella che sia giuridica (integrata nella specie dall’essere il bambino idoneamente accudito da un genitore, e quindi non si possa far luogo alla dichiarazione di adottabilità per difetto di stato di abbandono), e non invece di fatto[3].

L’argomento incentrato sulla sostituzione del nucleo familiare adottivo a quello di origine non convince, perché contrario all’esplicito dettato dell’art. 300 c.c., espressamente richiamato dall’art. 55 l. adozione, a mente del quale l’adottato conserva lo status familiae originario, e non acquista legami di parentela né speranze successorie (art. 304 c.c.) nei confronti dei parenti dell’adottante. È anzi proprio la conservazione dei rapporti con la famiglia di origine, e con essi del relativo cognome, a connotare in termini di “specialità” la formula adottiva in questione,  e costituisce l’alternativa all’adozione che si diceva legittimante, prima dell’abrogazione della filiazione legittima, ed oggi si può definire parentale, perché consente il pieno inserimento dell’adottato nel gruppo parentale adottivo, mentre quella in oggetto è genitoriale, perché lo status si costituisce nei soli confronti dell’adottante[4]. In altri termini, l’ordinamento vigente distingue due forme di adozione, entrambe finalizzate alla garanzia del best interest del minore: quella disciplinata dal titolo I presuppone che il bambino versi in stato di abbandono morale e materiale da parte dei suoi genitori e dei parenti più prossimi, oppure che lo status filiationis non si sia costituito[5], di conseguenza sia stato dichiarato adottabile e abbia avuto esito positivo l’affidamento preadottivo a coppia avente i requisiti di idoneità prescritti dall’art. 22 ss., e costituisce al bambino lo status di figlio matrimoniale degli adottanti, cui conseguono ex art. 74 c.c. il rapporto di parentela con le loro famiglie ed i diritti alla loro successione intestata; quella disciplinata dal titolo IV, invece, consegue a presupposti meno rigorosi, perché può difettare la dichiarazione di adottabilità e sono ammesse ad adottare anche le persone singole e le coppie non coniugate, ma produce anche effetti più limitati, escludendo l’inserimento dell’adottato nel gruppo familiare esteso. Lo ha insegnato la Corte Costituzionale, statuendo che «è evidente allora che, nelle ipotesi considerate, il legislatore ha voluto favorire il consolidamento dei rapporti tra il minore ed i parenti o le persone che già si prendono cura di lui, prevedendo la possibilità di un’adozione, sia pure con effetti più limitati rispetto a quella “legittimante”, ma con presupposti necessariamente meno rigorosi di quest’ultima. Ciò è pienamente conforme al principio ispiratore di tutta la disciplina in esame: l’effettiva realizzazione degli interessi del minore»[6].

Che il rapporto tra i due paradigmi adottivi sia di alternatività – e non di residualità come argomenta il tribunale meneghino – è dimostrato dall’art. 11 comma 1 l. adozione, con riferimento all’orfano di entrambi i genitori che versi in stato di abbandono, in quanto gli difetta altresì la cura dei parenti entro il quarto grado che abbiano con lui rapporti significativi [7]. Di questo minore potrebbe dichiararsi l’adottabilità con procedura semplificata, poiché non è (more…)

Tar Lombardia: perché le celebrazioni delle unioni civili e dei matrimoni debbono essere uguali

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di Marco Gattuso

Pubblichiamo la decisione del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sezione di Brescia, del 29 dicembre 2016, sulle modalità di costituzione delle unioni civili fra persone dello stesso sesso, con cui è stata dichiarata l’illegittimità di una delibera del Comune di Stezzano, del 27 settembre 2016, nella parte in cui disponeva che le unioni civili fossero costituite in una stanza, adiacente all’ufficio anagrafe, diversa dalla sala di rappresentanza del municipio riservata alla celebrazione dei matrimoni civili.
La sentenza é particolarmente importante in quanto rappresenta la prima decisione di merito sulla celebrazione del rito (dopo il provvedimento cautelare del TAR Veneto, di cui abbiamo dato conto poche settimane fa) e contribuisce in modo univoco a delineare il quadro conseguente all’approvazione della legge n. 76 del 2016 sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Com’è noto, nei primi mesi di vigore della legge e nelle more dell’emanazione da parte del governo dei definitivi decreti attuativi (che dovrebbero arrivare entro il 5 marzo), mentre la stragrande maggioranza dei comuni ha preso atto che la legge estende alle unioni civili tutte le leggi ed i provvedimenti amministrativi (quindi anche quelli comunali) in materia di matrimonio, ed hanno dunque correttamente applicato alle unioni le delibere adottate per i matrimoni, alcuni sindaci, invero assai pochi e tutti di una determinata area politica, hanno tentato di emanare disposizioni”speciali” in materia di unioni civili, differenziandone il trattamento rispetto al matrimonio.
La sentenza del Tar della Lombardia, che accoglie il ricorso proposto dagli avvocati di Rete Lenford, Avvocatura per i diritti lgbti, chiarisce oggi quanto era in verità chiarissimo nella legge e indiscusso in dottrina, e fa giustizia di ogni tesi “riduzionista” o scettica, diretta a mettere in dubbio la perfetta equivalenza giuridica fra matrimonio e unione civile. Com’è noto, infatti, il legislatore con la cd. “clausola generale di equivalenza” di cui al comma 20 (un potente dispositivo che non era previsto neppure nella legge tedesca sul partenariato di vita, che pure é stata assunta quale modello della legge italiana) ha stabilito che matrimonio e unione civile siano sottoposti alla medesima disciplina ed abbiano gli stessi effetti, salvo che per alcune disposizioni di dettaglio contenute nel codice civile (per lo più relative ad istituiti arcaici come le pubblicazioni, il matrimonio inconsumato, l’errore sulle deviazioni sessuali, il matrimonio riparatore per i minorenni, la separazione, il cognome del marito imposto quale cognome della famiglia) e salvo che per la presunzione di concepimento (evidentemente ritenuta, nella sua regolamentazione codicistica, troppo legata alla presunzione di una procreazione mediante rapporto sessuale fra i coniugi) ed alle norme riferite ai coniugi contenute nella legge sulle adozioni (il noto “dazio” pagato ad una componente della maggioranza, salva comunque l’indicazione che “resta fermo” quanto già “consentito”).
La decisione del giudice amministrativo, richiamato tale chiaro quadro normativo, si contraddistingue peraltro per diversi, interessanti, aspetti.
Fra i tanti argomenti sviluppati dalle difese dei ricorrenti, il tribunale amministrativo regionale della Lombardia ha correttamente ritenuto rilevante esclusivamente quello fondato sul mancato rispetto del disposto del comma 20 della L. 76/2016. In forza di tale disposizione, infatti, è stato recepito dal legislatore ordinario il principio di non discriminazione e di parità di trattamento fra le coppie omosessuali che (more…)

In claris non fit interpretatio: unioni civili, pensione di reversibilità e comma 20 della legge n. 76/2016

di Angelo IMG_4308 (1)Schillaci*

Pubblichiamo il messaggio diffuso dalla Direzione centrale Pensioni dell’INPS, che conferma la già pacifica estensione alle coppie unite civilmente di tutti i diritti legati alle prestazioni pensionistiche e previdenziali già previste per le coppie coniugate, ivi compresa la reversibilità della pensione.

Tale equiparazione è fatta discendere, opportunamente, dal chiaro disposto dell’art. 1, comma 20, della legge 20 maggio 2016, n. 76 che, come noto, reca una clausola generale di equiparazione tra unioni civili e matrimonio: tale clausola opera attraverso una regola di equivalenza terminologica, a mente della quale le disposizioni che si riferiscono al matrimonio o che contengono la parola “coniuge”, “coniugi” o espressioni equivalenti si applicano anche alle parti dell’unione civile, con l’unica eccezione delle disposizioni del codice civile non espressamente richiamate dalla legge n. 76/2016 e delle sole disposizioni riferite al matrimonio (o che presuppongano lo status di coniuge), contenute nella legge n. 184/1983 in materia di adozione. Lo stesso comma 20 precisa peraltro, a tale ultimo riguardo, che in materia di adozione resta fermo quanto previsto e consentito dalla legge: dunque, possono pacificamente applicarsi alle parti dell’unione civile tutte le disposizioni della legge n. 184/1983 che non si riferiscano al matrimonio o non presuppongano lo status di coniuge, come ad esempio l’art. 44, in tema di adozione in casi particolari (ciò che è stato confermato da Cass. civ., sez. I, 26 maggio 2016, n. 12962).

Si tratta di una norma con evidente funzione antidiscriminatoria che, seppur contenuta in una legge che fonda il riconoscimento della vita familiare omosessuale su premesse costituzionali diverse da quelle che presidiano il riconoscimento dell’istituto matrimoniale, rappresenta un vero e proprio “anticorpo” volto a garantire – nella massima estensione possibile – la piena effettività dell’art. 3 Cost. e dunque la parità di trattamento tra coppie coniugate e coppie unite civilmente.

La portata antidiscriminatoria del comma 20 della legge n. 76/2016, pur con i limiti indicati, è stata sottolineata dalla dottrina unanime, che ha ribadito, altresì, la portata autoapplicativa della disposizione in esame, ora riconducendola ad una vera e propria norma di produzione giuridica, ora ad una norma sull’interpretazione e sull’applicazione di altre norme.

Anche la giurisprudenza e la prassi intervenute nel vigore della legge n. 76/2016 confermano tale assunto, anche con riguardo all’ambito dei diritti previdenziali e assistenziali. Si pensi, anzitutto, all’importante affermazione (more…)

Il Tribunale di Napoli ordina la trascrizione di un atto di nascita straniero con due madri

di Angelo Schillaci*image

Pubblichiamo, con alcune indicazioni di lettura, il decreto dell’11 novembre 2016 (depositato in data 6 dicembre 2016), con il quale il Tribunale di Napoli ha ordinato all’Ufficiale dello stato civile di Napoli di trascrivere l’atto di nascita di un minore, formato in Spagna, con l’indicazione di entrambe le madri, cittadine italiane coniugate tra loro e residenti in Spagna.

La decisione interviene a pochi mesi dalla fondamentale pronuncia della Suprema Corte di cassazione, sez. I, n. 19599/2016, che aveva provveduto in modo analogo, dettando una corposa serie di principi di diritto idonei – come dimostra proprio la decisione che oggi pubblichiamo – a guidare gli orientamenti della giurisprudenza in tema di trascrizione degli atti di nascita formati all’estero, recanti l’indicazione di due genitori dello stesso sesso.

La decisione napoletana si pone nel solco del recente arresto della Corte di legittimità, specie sul punto della declinazione del concetto di ordine pubblico non in termini di compatibilità con l’ordinamento italiano ma nei termini, più larghi, di compatibilità con le esigenze di tutela dei diritti fondamentali desumibili dalla Costituzione, dal diritto primario e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, nonché dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (cd. ordine pubblico internazionale). Come avvenuto nel caso deciso dalla Cassazione, peraltro, è proprio questa accezione del concetto di ordine pubblico a consentire di ritenere non ostativi alla trascrizione tanto il principio di cui all’art. 269, comma 3, c.c., secondo cui è madre colei che partorisce, quanto la circostanza che l’ordinamento italiano non contempli (per ora) che “persone dello stesso sesso possano essere entrambe genitori dello stesso figlio” (p. 6).

Rispetto alla decisione della Corte di cassazione, tuttavia, la pronuncia napoletana presenta taluni (more…)