Corte costituzionale, sentenza n. 237 del 15 novembre 2019

SENTENZA N. 237

ANNO 2019

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 250 e 449 del codice civile, degli artt. 29, comma 2, e 44, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), e degli artt. 5 e 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), promosso dal Tribunale ordinario di Pisa, nel procedimento vertente tra D.E. R. e altri e il Sindaco del Comune di Pisa, con ordinanza del 15 marzo 2018, iscritta al n. 69 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti gli atti di costituzione di D.E. R. e altra, dell’avvocato David Cerri, quale curatore speciale del minore R.G.R. R.G., nonché l’atto di intervento ad adiuvandum dell’Avvocatura per i diritti LGBTI, e gli atti di intervento ad opponendum del Centro Studi “Rosario Livatino” e della libera associazione di volontariato “Vita è”;

udito nell’udienza pubblica del 9 ottobre 2019 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli;

uditi gli avvocati Stefano Chinotti per l’Avvocatura per i diritti LGBTI, Simone Pillon per la libera associazione di volontariato “Vita è”, Francesca Salvadorini per l’avvocato David Cerri, quale curatore speciale del minore R.G.R. R.G., e Alexander Schuster per D.E. R. e altra.

Ritenuto in fatto

1.– Nel corso di un giudizio civile – nel quale una cittadina statunitense e una cittadina italiana, «in proprio e nella dichiarata qualità di genitori del figlio minore» (nato a Pontedera), lamentavano che «l’ufficiale dello stato civile del Comune di Pisa si era rifiutato di ricevere la dichiarazione di nascita espressa congiuntamente dalla ricorrente cittadina statunitense quale madre gestazionale, e dalla ricorrente cittadina italiana quale madre intenzionale, in forza del consenso alla fecondazione eterologa (avvenuta in Danimarca)» – l’adito Tribunale ordinario di Pisa, sezione civile, in composizione collegiale, ritenutane la rilevanza al fine del decidere, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, «questione di legittimità costituzionale della norma che si desume» dagli artt. 449 del codice civile; 29, comma 2, e 44, comma 1 (omesso in dispositivo ma indicato in motivazione), del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127); 250 cod. civ.; 5 e 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), «nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile in base all’art. 33 legge 218/95».

Il giudice a quo premette in fatto che, nella specie, il minore è, come la propria madre biologica, cittadino del Wisconsin, Stato per il quale «la madre intenzionale, che […] è sposata con la madre gestazionale, e ha dato per iscritto il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, è genitore del minore».

Ritiene poi, però, che la norma, che si desume dal combinato disposto delle disposizioni denunciate, impedirebbe di formare in Italia un atto di nascita che riconosca al minore la doppia genitorialità same sex, cui egli avrebbe diritto come cittadino statunitense, sulla base della legge nazionale che dovrebbe viceversa trovare applicazione anche in Italia, ex art. 33 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).

Da qui il sospettato suo contrasto:

«1) con gli artt. 2 e 3, Cost., perché in modo irragionevole limita il diritto di persone che, in base alla legge straniera applicabile, sono legate da un rapporto di genitorialità-filiazione di vedere riconosciuta pienamente in Italia la loro formazione sociale;

2) con l’art. 3, Cost., per irragionevole discriminazione con la situazione in cui il cittadino di nazionalità straniera abbia due genitori intenzionali di sesso diverso, nel qual caso la formazione dell’atto di nascita sarebbe possibile, con ciò ponendo in essere una discriminazione basata sul sesso;

3) con gli artt. 3 e 24, Cost., perché irragionevolmente non consente al figlio di ottenere la prova precostituita della filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile, in assenza di motivi di ordine pubblico internazionale che ostino alla sua applicazione in Italia;

4) con gli artt. 3 e 30, Cost., dal quale ultimo si desume il diritto del figlio di ricevere mantenimento e istruzione dai genitori (che tali siano in base alla legge applicabile al rapporto di filiazione), e quindi, prima di tutto, anche secondo un criterio di ragionevolezza, di vedere riconosciuta formalmente la filiazione;

5) con l’art. 117, [primo comma,] Cost., per contrasto con gli artt. 3 […] e 7 […] della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge 176/1991, in quanto non consente di garantire l’interesse superiore del fanciullo, imponendogli di non vedere formalmente riconosciuta una genitorialità che sussiste in base alla legge straniera applicabile, e ponendo ostacoli alla realizzazione della sua aspirazione a vivere con due genitori;

6) con l’art. 117, [primo comma,] Cost., in relazione all’art. 7 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989, ratificata con legge 176/1991, in quanto non consente di vedere riconosciuta [al fanciullo] immediatamente alla nascita la sua filiazione che sussiste in base alla legge straniera applicabile».

2.– Nel giudizio innanzi a questa Corte si sono costituite le due ricorrenti nel procedimento principale.

La difesa delle quali ha preliminarmente eccepito la inammissibilità della sollevata questione.

Ciò, in primo luogo, perché, nel porla, il rimettente «muove[rebbe] da un’errata interpretazione del contesto giuridico italiano e dei principi in materia di filiazione derivata dall’applicazione di tecniche di fecondazione assistita». Principi, che – diversamente da quelli che regolano la filiazione nel peculiare e diverso contesto del matrimonio − condurrebbero necessariamente a «costituire uno stato di filiazione fra l’adulto che con le proprie decisioni ha determinato la nascita di un bambino e quest’ultimo», il quale, «in forza del consenso alle tecniche medico-riproduttive già prestato anche dalla madre intenzionale», diverrebbe «ipso iure alla nascita […] figlio di entrambe».

In secondo luogo, e in subordine, «per errata interpretazione delle disposizioni di diritto internazionale privato» in ordine a «ciò che costituisce una norma di applicazione necessaria nel contesto dello stato civile».

«Norme di applicazione necessaria», concernenti i poteri dell’ufficiale di stato civile, sarebbero, infatti, solo quelle di carattere formale e procedurale, e cioè quelle relative alla “tipicità degli atti” che detto organo dello Stato può formare, ma non anche le norme che disciplinano il contenuto (non del pari tipico) degli atti medesimi, le quali non debbono «necessariamente rispecchiare il diritto sostanziale italiano».

La stessa difesa ha poi anche depositato memoria integrativa, nella quale sottolinea, tra l’altro, come la Corte di cassazione – in particolare con la sentenza della sezione prima del 15 giugno 2017, n. 14878, richiamata, in senso adesivo, dalle Sezioni unite nella più recente sentenza 8 maggio 2019, n. 12193 – abbia escluso la contrarietà all’ordine pubblico internazionale della trascrizione in Italia di atto di nascita straniero che menzioni due madri.

3.– Si è costituito anche il curatore speciale del minore, nominato nel giudizio a quo, per il quale la questione sarebbe irrilevante – «potendo il Tribunale emettere il provvedimento richiesto, con una interpretazione adeguatrice e costituzionalmente orientata dell’ordinamento e previa l’eventuale disapplicazione delle norme in apparente contrasto» – ovvero sarebbe, in subordine, fondata. Ciò che – come ulteriormente argomentato dallo stesso curatore con successiva memoria –, in caso di accesso al merito, dovrebbe comunque condurre a «dichiarare incostituzionali le disposizioni riportate nell’ordinanza di rimessione».

4.– Non si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri.

5.– Hanno, infine, spiegato intervento in questo giudizio incidentale il Centro Studi “Rosario Livatino”, che ha anche depositato memoria integrativa, la libera associazione di volontariato “Vita è” e l’Avvocatura per i diritti LGBTI: per sostenere, rispettivamente, il primo, la manifesta infondatezza, la seconda, la inammissibilità o comunque la non fondatezza della questione; per rassegnare, la terza associazione, opposte conclusioni, nel senso della sua fondatezza.

Considerato in diritto

1.– Chiamato a decidere sulla legittimità, o meno, del rifiuto, opposto dall’Ufficiale di stato civile di Pisa, alla richiesta di riconoscimento congiunto di un minore nato in Italia (a Pontedera) – richiesta presentata da una coppia di donne (coniugate per effetto di matrimonio contratto negli Stati Uniti), l’una cittadina americana (del Wisconsin), quale madre gestazionale, e l’altra, cittadina italiana, quale «madre intenzionale», in forza del consenso prestato alla fecondazione eterologa (della prima) avviata in Danimarca – l’adito Tribunale ordinario di Pisa, sezione civile, in composizione collegiale, ha sollevato, con l’ordinanza di cui si è in narrativa detto, «questione di legittimità della norma che si desume» dall’art. 449 del codice civile, che prescrive che i registri dello stato civile siano tenuti «in conformità delle norme contenute nella legge sull’ordinamento dello stato civile»; dall’art. 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), concernente le indicazioni contenute nell’atto di nascita, fra cui le generalità dei genitori; dall’art. 44, comma 1 (omesso in dispositivo ma indicato in motivazione), dello stesso d.P.R., in tema di riconoscimento del nascituro da parte del padre; dall’art. 250 cod. civ., che, ai fini del riconoscimento del minore nato fuori dal matrimonio, fa riferimento alla «madre» e al «padre»; e dagli artt. 5 e 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), per i quali l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (d’ora in poi: PMA) è consentito solo a coppia maggiorenne «di sesso diverso».

Norma, quella così “desunta” dal giudice a quo, che dà, appunto, luogo al sospetto di illegittimità costituzionale, «nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile in base all’art. 33 legge 218/95».

E ciò per contrasto, secondo il rimettente: con gli artt. 2 e 3 della Costituzione, sotto il profilo dell’illegittima restrizione del diritto – di persone che, in base alla legge straniera applicabile, sono legate da un rapporto di genitorialità/filiazione – a vedere riconosciuta in Italia la loro formazione sociale; con l’art. 3 Cost., per l’irragionevole discriminazione rispetto alla analoga situazione del cittadino straniero, figlio però di genitori di sesso diverso, che tale status potrebbe vedersi, invece, riconosciuto; con gli artt. 3 e 24 Cost., poiché la norma non consente al figlio di ottenere la prova precostituita della filiazione, che sussiste in base alla legge straniera applicabile, in assenza di motivi ostativi di ordine pubblico internazionale; con gli artt. 3 e 30 Cost., sotto il profilo della illegittima restrizione del diritto del figlio di ricevere mantenimento e istruzione da entrambi i genitori, che siano tali secondo la sua legge nazionale; con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, sotto il profilo del pregiudizio subito dall’interesse del fanciullo a veder riconosciuta anche in Italia la doppia genitorialità, sussistente secondo la sua legge nazionale; ancora con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 7 della medesima Convenzione, sotto il profilo della lesione del diritto a vedere immediatamente riconosciuto in Italia lo status di figlio di entrambe le madri, legittimamente acquisito sulla base della legge nazionale.

1.1.– Nel motivare la questione così sollevata il Tribunale ordinario di Pisa muove da una ferma, e sotto più profili argomentata, premessa: quella per cui nel nostro ordinamento è «allo stato escluso che genitori di un figlio possano essere due persone dello stesso sesso».

Il che, a suo avviso, non impedirebbe che un atto di nascita formato all’estero, che riconosca la filiazione con genitori dello stesso sesso, possa essere trascritto in Italia, ove se ne escluda la contrarietà con l’ordine pubblico.

Diverso – egli aggiunge – è però il caso cui l’atto di nascita debba essere “formato in Italia”.

In questo caso, l’ufficiale di stato civile non potrebbe «applicare […] disposizioni straniere», ostandovi, appunto, la norma che lo stesso Tribunale “desume” dal combinato contesto delle plurime disposizioni denunciate e che presuppone essere «di applicazione necessaria», quale norma interna che debba essere applicata nonostante il richiamo alla legge straniera, ai sensi dell’art. 17 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).

Ciò che poi induce il rimettente a sospettare il contrasto della norma così desunta con i parametri costituzionali evocati, con riguardo ad una fattispecie – come quella sub iudice – in cui la madre biologica ed il minore sono cittadini di uno Stato (lo Stato federato degli Stati Uniti d’America del Wisconsin) per il quale «la madre intenzionale, che […] è sposata con la madre gestazionale, e ha dato per iscritto il proprio consenso alla procreazione medicalmente assistita, è [anch’essa] genitore del minore». Per cui in base alla propria legge nazionale – che dovrebbe trovare applicazione anche in Italia, ex art. 33 della predetta legge n. 218 del 1995 – quel minore avrebbe diritto alla genitorialità delle due donne che hanno consensualmente avviato e portato a compimento il progetto di fecondazione eterologa che ha dato luogo alla sua nascita.

2.– Preliminarmente va confermata l’allegata ordinanza, pronunciata in udienza, con la quale è stata esclusa l’ammissibilità degli interventi del Centro Studi “Rosario Livatino”, della libera associazione di volontariato “Vita è” e dell’Avvocatura per i diritti LGBTI.

3.– In via ancora preliminare vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità − ostative, in tesi, all’esame del merito della questione − rispettivamente formulate dalle due ricorrenti nel procedimento principale e dall’ivi nominato curatore speciale del minore.

3.1.– Precede, sul piano logico, l’eccezione con cui la difesa delle suddette ricorrenti sostiene l’erroneità della interpretazione da cui muove il rimettente, relativamente al «contesto giuridico italiano e [ai] principi in materia di filiazione derivata dall’applicazione di tecniche di fecondazione assistita».

Non pertinentemente – sostiene detta difesa – il Tribunale pisano avrebbe richiamato le disposizioni codicistiche che disciplinano la filiazione nell’ambito del matrimonio, poiché sarebbe solo in quello specifico contesto che i figli non possono che avere un «padre» e una «madre», mentre non sarebbe possibile «[senza] compiere una petizione di principio dedurre […] che ogni figlio [comunque nato] debba avere un padre e una madre […]». Atteso che «[i]l matrimonio senz’altro mantiene delle peculiarità quanto alle regole di accesso alla genitorialità […]. Tuttavia non ne mantiene più il monopolio».

Con riguardo alle nuove tecniche procreative l’ordinamento italiano imporrebbe, infatti, «un chiaro principio di responsabilità genitoriale, che dipende dalla sostanza (la responsabilità di determinare con la propria volontà la generazione di una vita, senza possibilità di resipiscenza) e non dalla forma».

In applicazione di un tale principio il rimettente avrebbe dovuto direttamente riconoscere che il diritto interno non impedisce la dichiarazione di nascita espressa congiuntamente dalle due donne, che a torto, dunque, l’ufficiale di stato civile avrebbe rifiutato di accogliere. Dal che l’irrilevanza della questione sollevata.

3.1.1.– L’eccezione non è fondata.

È pur vero che la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di PMA è legata anche al “consenso” prestato, e alla “responsabilità” conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa.

Tanto, infatti, si desume sia dall’art. 8 della legge n. 40 del 2004 – per cui, appunto, i nati a seguito di un percorso di fecondazione medicalmente assistita hanno lo stato di «figli nati nel matrimonio» o di «figli riconosciuti» della coppia che questo percorso ha avviato – sia dal successivo art. 9 della stessa legge che, con riguardo alla fecondazione di tipo eterologo, coerentemente stabilisce che il «coniuge o il convivente» (della madre naturale), pur in assenza di un suo apporto biologico, non possa, comunque, poi esercitare l’azione di disconoscimento della paternità né l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.

Ma tutto ciò sempreché quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie «di sesso diverso». Per quanto espressamente disposto dall’art. 5 della predetta legge n. 40 del 2004, le coppie dello stesso sesso non possono accedere alle tecniche di PMA.

Con la recente sentenza n. 221 del 2019, questa Corte – nel respingere le censure di illegittimità costituzionale rivolte al predetto art. 5 e all’art. 12, commi 2, 9 e 10, nonché gli artt. 1, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 40 del 2004, per asserito contrasto con i parametri di cui agli artt. 2, 3, 11, 31, secondo comma, 32, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e con altre disposizioni sovranazionali – ha, tra l’altro, affermato che «[l]’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è […] fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull’orientamento sessuale». Ha, inoltre, ricordato come in questo senso si sia espressa la Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all’inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 15 marzo 2012, Gas e Dubois contro Francia).

Ha, conclusivamente, quindi, considerato come la scelta espressa dal legislatore del 2004 si riveli «non eccedente il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce in subiecta materia, pur rimanendo quest’ultima aperta a soluzioni di segno diverso, in parallelo all’evolversi dell’apprezzamento sociale della fenomenologia considerata».

Ad opposte conclusioni neppure può poi condurre la successiva legge 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso – non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore.

Dal rinvio che il comma 20 dell’art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano, infatti, escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l’adozione legittimante.

Resiste, dunque, a censura l’affermazione, assunta in premessa dal Tribunale pisano, che «allo stato», nel nostro ordinamento, è «escluso che genitori di un figlio possano essere due persone dello stesso sesso».

3.2.– Sotto altro subordinato profilo, la stessa difesa delle ricorrenti sostiene che il Tribunale ordinario di Pisa – nel ritenere che all’ufficiale di stato civile, che forma un atto di nascita, sia preclusa la possibilità di applicare leggi di altro Stato – sia incorso in una «errata interpretazione della interazione delle norme internazionalprivatistiche con quelle sostanziali che reggono l’ordinamento dello stato civile».

«Il vulnus dell’interpretazione proposta dal giudice rimettente risiede[rebbe] nella ricostruzione non condivisibile di ciò che costituisce una norma di applicazione necessaria». Tale infatti sarebbe quella che definisce la tipologia degli atti che l’ufficiale di stato civile può compiere, e la procedura correlativa, mentre, quanto al contenuto dell’atto, questo dipenderebbe da norme sostanziali, anche di provenienza straniera, quando ne ricorrano i presupposti secondo le norme di diritto internazionale privato.

3.2.1.– Questa seconda eccezione – sostanzialmente replicata anche dal curatore speciale del minore − resta assorbita, poiché, con riguardo al rapporto tra norma interna e norma di diritto internazionale privato, sussistono motivi di inammissibilità che attengono alla stessa individuazione dell’oggetto della questione, prima ancora che ad una erroneità delle sue premesse interpretative.

Il collegio rimettente, pur, infatti, ritiene che «alla luce del diritto vivente […], si deve escludere che l’applicazione della legge del Wisconsin sia contraria all’ordine pubblico internazionale».

Afferma anche che «il giudizio sulla contrarietà all’ordine pubblico della legge straniera non è diverso a seconda che si tratti di recepire un atto straniero, o di fare diretta applicazione della legge straniera».

Ma dalle plurime disposizioni (di fonte anche meramente regolamentare), che elenca in dispositivo, desume poi – come detto – una “norma di applicazione necessaria” che impedirebbe che, nell’atto di nascita di un minore in Italia, possa farsi applicazione di una legge straniera, ancorché legge nazionale del minore stesso.

«Norme di applicazione necessaria», per testuale definizione dell’art. 17 della legge n. 218 del 1995, sono appunto le «norme italiane che, in considerazione del loro oggetto e del loro scopo, debbono essere applicate nonostante il richiamo alla legge straniera».

Il Tribunale ordinario di Pisa non chiarisce, però, se la “norma desunta” – della quale auspica la caducazione, «nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitori di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, quando la filiazione sia stabilita sulla base della legge applicabile in base all’art. 33 legge 218/95» − sia: (a) la stessa norma interna sulla eterogenitorialità, di cui egli presupponga, e chieda a questa Corte di rimuovere, la necessaria applicabilità in sede di formazione (ma non anche, peraltro, di trascrizione) dell’atto di nascita di un minore cittadino straniero; ovvero (b) una norma sulla “azione amministrativa”, regolatrice dell’attività dell’ufficiale di stato civile, che gli impedirebbe di formare l’atto di nascita di un minore straniero in cui si riconosca al medesimo uno status previsto dalla sua legge nazionale, ma non da quella italiana.

A rendere non superabile tale irrisolta alternatività dell’oggetto della questione sta poi il fatto che il rimettente si limita a denunciare il solo frammento – ritenuto in contrasto con i parametri evocati – di una norma virtuale che, però, non indica nella sua interezza e che potrebbe, nella sua parte residua, essere appunto egualmente ricondotta sia all’una che all’altra delle due ipotesi normative sopra considerate.

Mentre, per di più, le disposizioni, maggiormente attinenti al tema dell’incidente di costituzionalità, con le quali il legislatore ha individuato le norme di applicazione necessaria nella specifica materia della filiazione (artt. 33, comma 4, e 36-bis della legge n. 218 del 1995), non sono prese in esame dal giudice a quo.

Da qui appunto l’inammissibilità della questione.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della «norma che si desume» dagli artt. 250 e 449 del codice civile; 29, comma 2, e 44, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127); 5 e 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, 30 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, sollevata dal Tribunale ordinario di Pisa, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Mario Rosario MORELLI, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 15 novembre 2019.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA

Allegato:

Ordinanza Letta All’udienza Del 9 Ottobre 2019

ORDINANZA

Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale introdotto dal Tribunale ordinario di Pisa, sezione civile, in composizione collegiale, con ordinanza del 15 marzo 2018 (r. ord. n. 69 del 2018), avente ad oggetto la norma risultante dal combinato disposto degli artt. 250 e 449 del codice civile, 29, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), 5 e 8 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui non consente di formare in Italia un atto di nascita in cui vengano riconosciute come genitrici di un cittadino di nazionalità straniera due persone dello stesso sesso, quando la filiazione sia stabilita in base alla legge applicabile ai sensi dell’art. 33 della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato).

Rilevato che sono intervenuti nel giudizio davanti a questa Corte, con separati atti ad opponendum, depositati il 28 maggio 2018 e il 29 maggio 2018, il Centro Studi “Rosario Livatino” e la libera associazione di volontariato “Vita è” e, con atto ad adiuvandum, depositato il 29 maggio 2018, l’Avvocatura per i diritti LGBTI, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore.

Considerato che i detti soggetti non sono stati parti nel giudizio a quo;

che la costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, sentenze n. 13 del 2019, n. 217 e n. 180 del 2018; ordinanze allegate alle sentenze n. 141 del 2019, n. 194 del 2018, n. 29 del 2017, n. 286, n. 243 e n. 84 del 2016) è nel senso che la partecipazione al giudizio di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle Norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale);

che a tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura;

che, pertanto, l’incidenza sulla posizione soggettiva dell’interveniente non deve derivare, come per tutte le altre situazioni sostanziali governate dalla legge denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimità costituzionale della legge stessa, ma dall’immediato effetto che tale pronuncia produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio principale;

che nel presente giudizio il Centro Studi “Rosario Livatino”, la libera associazione di volontariato “Vita è” e l’Avvocatura per i diritti LGBTI non sono titolari di interessi direttamente riconducibili all’oggetto del giudizio stesso, sebbene di meri indiretti, e più generali, interessi, connessi ai loro scopi statutari;

che, pertanto, gli interventi delle suddette associazioni devono essere dichiarati inammissibili.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili gli interventi del Centro Studi “Rosario Livatino”, della libera associazione di volontariato “Vita è” e dell’Avvocatura per i diritti LGBTI.

F.to Giorgio Lattanzi, Presidente