Tribunale di Napoli, sezione civile I bis, ordinanza del 25 ottobre 2013

Proc. n. 36178 del 2012 RGAC Ruolo Procedimenti sommari di cognizione

Il Tribunale di Napoli – sezione civile I bis – in composizione monocratica nella persona del giudice dott. Stefano Celentano ha pronunciato la seguente

 ORDINANZA

nel procedimento in epigrafe indicato, riservato in decisione all’udienza del 14.10.2013 avente ad oggetto:

ricorso ex artt. 19 del d.lgs. 150/2011 e 35 d.lgs. 25/2008 avverso decreto della Commissione Territoriale di Caserta, emesso in data 23.10.2012 e notificato in data 23.11.2012, contenente il diniego al riconoscimento della protezione internazionale, vertente

TRA

xx, nato in Nigeria il 20.6.1985

rappresentato e difeso dall’avv. Luigi Migliaccio, ed elettivamente domiciliato presso il suo studio, in Napoli, alla Piazza cavour 139

RICORRENTE

E

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato presso la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Caserta

RESISTENTE CONTUMACE

NONCHE’

Il PUBBLICO MINISTERO presso il Tribunale di Napoli

INTERVENTORE

RAGIONI IN FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE

1.  Con ricorso depositato in data 21.12.2012 ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c.  l’odierno ricorrente proponeva opposizione avverso il provvedimento del Ministero dell’Interno – Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di Caserta – sopra indicato, con il quale era stata rigettata la sua richiesta di riconoscimento dello status di protezione internazionale.

Lamentava l’erroneo apprezzamento dei fatti da parte della Commissione territoriale e deduceva la sussistenza dei presupposti, in primis, per il riconoscimento dello status di rifugiato, in subordine per la protezione sussidiaria; ancora in subordine per il diritto alla protezione umanitaria, e, in via ulteriormente subordinata, il diritto di asilo ex art. 10 Cost.

2. Il Ministero non si costituiva benché il ricorso fosse stato notificato ritualmente. All’udienza del 14.10.2013, acquisite le conclusioni del PM che erano contrarie all’accoglimento delle domande avendo la ricorrente già beneficiato di protezione umanitaria, il Giudice si riservava sul provvedimento richiesto.

3. La materia inerente al riconoscimento della protezione internazionale è disciplinata nell’art. 2 comma 1 lett. e) e f) del d.lgs. del 19.11.2007 n. 251 (con il quale è stata attuata la direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione ai cittadini di Paesi terzi ed apolidi della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), che prevede diverse forme di protezione internazionale.

3.1. Tale decreto definisce “rifugiato” il cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese, oppure se apolide che si trovi fuori dal territorio nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni su citate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, ferme le cause di esclusione di cui all’art. 10. Tali disposizioni sono poi riportate in maniera identica nell’art. 2 comma 1 lett. d)  ed e) del d.lgs. 28.1.2008 n. 25, che ha attuato la direttiva 2005\85\CE, con l’unica specificazione relativa alla necessaria non appartenenza dello straniero ad un Paese dell’Unione Europea.

Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, inoltre, gli artt. 7 e 8 del menzionato decreto legislativo contengono la definizione di atti di persecuzione e dei motivi della persecuzione. In particolare, gli atti di persecuzione devono – alternativamente – essere: a) sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali; b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).

Gli atti di persecuzione di cui al comma 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di: a) atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; b) provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; d) rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’art. 10 comma 2; f) atti specificamente diretti contro n genere sessuale o contro l’infanzia.

I motivi di persecuzione sono individuati con riferimento alle seguenti ipotesi: a) razza, riferita in particolare a considerazioni inerenti al colore della pelle, alla discendenza o all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico; b) religione, che include le convinzioni teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte; c) nazionalità, non riferita esclusivamente alla cittadinanza, all’assenza di cittadinanza,  ma designa in particolare l’appartenenza ad un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o la sua affinità con la popolazione di un altro stato; d) particolare gruppo sociale, ed è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, ovvero quello che possiede un’identità distinta nel Paese di origine, perché vi è percepito come diverso dalla società circostante. In funzione della situazione nel Paese di origine, un particolare gruppo sociale può essere individuato in base alla caratteristica comune dell’orientamento sessuale, fermo restando che tale orientamento non includa atti penalmente rilevanti ai sensi della legislazione italiana; e) opinione politica, riferita in particolare alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori di cui all’articolo 5 e alle loro politiche od ai loro metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti.

3.2  L’art. 2 comma 1 lett. g) e h) del d.lgs. n. 251\2007, conformemente a quanto previsto anche dall’art. 2 comma 1 lett. f) e g) del d.lgs. n. 25\2008, definisce “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il cittadino straniero il quale non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o nel caso di apolide se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole, avvalersi della protezione di detto Paese; lo “status di protezione sussidiaria” è il riconoscimento da parte dello Stato di uno straniero quale persona ammissibile a detta protezione.

Il “danno grave” viene individuato dall’art. 14 del citato decreto legislativo nella: a) condanna a morte o esecuzione della pena di morte; b) tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine; c) minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Il nuovo sistema di protezione internazionale, ha quindi introdotto una nuova misura, la protezione sussidiaria che deve essere riconosciuta quando esiste il rischio effettivo di essere sottoposto a pena di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti. Il riscontro positivo di questa condizione non costituisce più una condizione idonea soltanto al rilascio di un permesso di natura umanitaria, di natura temporanea, garantito dall’obbligo di osservare il divieto stabilito nell’art. 3 CEDU, nella lettura fornitane dalla Corte di Strasburgo, rilasciato dal Questore D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, ma dà diritto ad una misura di protezione internazionale, stabile, accompagnata dal permesso di soggiorno triennale e dalla fruizione di un complesso quadro di diritti e facoltà (accesso al lavoro, allo studio alle prestazioni sanitarie), direttamente scrutinato dalle Commissioni territoriali.

3.3. L’art. 5 del d.lgs. n. 251\2007, altresì, identifica come responsabili della persecuzione o del danno grave lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio o ancora i soggetti non statuali, se i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione, ai sensi dell’art. 6 comma 2, contro persecuzioni o danni gravi.

3.4. Connesso a tale tema è quello del diritto alla protezione umanitaria, concretizzantesi nel permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5 comma 6 del d.lgs. 286/1998.

Anche tale controversia rientra infatti nella giurisdizione del Giudice ordinario, sia nel caso in cui si tratti di impugnazione del diniego di permesso di soggiorno del Questore (Cass. SS.UU. 19.5.2009, n. 11535) sia nel caso in cui si tratti di controversia sulla domanda di accertamento della protezione internazionale e in subordine del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari (Cass. SS.UU. 9.9.2009, n. 19393), come nel caso di specie.

Trattasi in ogni caso di controversia devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto la situazione giuridica soggettiva dello straniero ha natura di diritto soggettivo, che va annoverato tra i diritti umani fondamentali che godono della protezione apprestata dall’art. 2 della Costituzione e dall’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, e non può essere degradato ad interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservato esclusivamente al legislatore.

L’art. 5, c. 6, del D.Lgs. n. 286/98, che appunto disciplina l’ipotesi della sussistenza di esigenze di protezione umanitaria, prevede che “Il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” (art. 5 comma 6 D.Lgs. 286/98).

L’uso della disgiuntiva evidenzia come i motivi di carattere umanitario non debbano trovare fondamento in obblighi specifici previsti dalla Costituzione o da fonti internazionali, potendo trovarlo invece anche nella clausola generale dell’art. 2 della Costituzione; si tratta insomma di una clausola di salvaguardia del sistema volta  a consentire che sia data tutela anche a situazioni non rientranti in alcuna delle disposizioni citate.

La disposizione normativa non enuncia in via esemplificativa quali debbano essere considerati i seri motivi, pertanto, è suscettibile di ampia interpretazione, e possono esservi ricondotti situazioni soggettive come i bisogni di protezione a causa di particolari condizioni di vulnerabilità dei soggetti, quali per esempio motivi di salute o di età, ma anche oggettive (cioè relative al paese di provenienza) e quindi una grave instabilità politica, episodi di violenza o insufficiente rispetto dei diritti umani, carestie, disastri naturali o ambientali o altre situazioni similari.

Le disposizioni in materia di protezione umanitaria previste dall’ordinamento interno possono peraltro trovare applicazione anche laddove nei confronti della persona interessata sussista comunque un concreto pericolo di essere sottoposto a torture e/o a pene o trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rientro nel Paese d’origine (art. 3 Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

3.5. Da un punto di vista processuale occorre osservare che con la domanda di protezione internazionale, ancorché indistinta, il richiedente ha diritto all’esame delle condizioni di riconoscimento delle due misure di protezione internazionale, previste nelle Direttive, ma senza escludere la possibilità del rilascio di un permesso sostenuto da ragioni umanitarie o da obblighi internazionali o costituzionali diversi da quelli derivanti dal citato art. 3 CEDU (ormai ricompreso espressamente nella protezione sussidiaria) o da quelli indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno od internazionale): vedi Cass. 24.3.2011, n. 6480.

Per quanto concerne l’onere probatorio, l’art. 3 del d.lgs. n. 251/2007 stabilisce che il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda; tuttavia, qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione della eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile.

La giurisprudenza ha poi precisato che in detta materia vi sono profonde divergenze rispetto alle regole generali del processo civile; ed infatti il giudice, attraverso i propri poteri ufficiosi, potrà e dovrà cooperare nell’accertamento delle condizioni che legittimano l’accoglimento del ricorso, acquisendo anche d’ufficio le informazioni necessarie a conoscere l’ordinamento giuridico e la situazione del paese di origine (cfr. Cass. SS.UU. 17.11.2008 n. 27310). Del resto tale intervento è stato pienamente recepito dal legislatore delegato che all’art. 19 comma 8 del d.lgs. 150/2001 espressamente prevede che “il giudice può  procedere  anche  d’ufficio  agli atti di istruzione necessari per la definizione della controversia”.

Complementare a tale affermazione è quella secondo cui in tema di accertamento del diritto ad ottenere una misura di protezione internazionale, il giudice non può formare il proprio convincimento esclusivamente sulla base della credibilità soggettiva del richiedente e sull’adempimento dell’onere di provare la sussistenza del “fumus persecutionis” a suo danno nel paese d’origine, essendo, invece, tenuto a verificare la condizione di persecuzione di opinioni, abitudini, pratiche sulla base di informazioni esterne e oggettive relative alla situazione reale del paese di provenienza, mentre solo la riferibilità specifica al richiedente del “fumus persecutionis” può essere fondata anche su elementi di valutazione personale quali, tra i quali, la credibilità delle dichiarazioni dell’interessato (Cass. 23.12.2010, n. 26056; Cass. 27.7.2010, n. 17576).

Sul giudice incombe quindi il dovere di ampia indagine, di completa acquisizione documentale anche officiosa e di complessiva valutazione anche della situazione reale del Paese di provenienza, dovere imposti dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 (emanato in attuazione della direttiva 2005/85/CE), norma alla stregua della quale ciascuna domanda deve essere esaminata alla luce di informazioni aggiornate sulla situazione del Paese di origine del richiedente asilo, informazioni che la Commissione Nazionale fornisce agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative.

4. Premesso il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, occorre esaminare le doglianze avanzate con riferimento al provvedimento emesso dalla Commissione. Tutte le doglianze di natura formale vanno esaminate congiuntamente al merito.

Occorre infatti evidenziare il recente arresto della giurisprudenza di legittimità, conforme del resto all’orientamento assunto da questo Tribunale, secondo cui “il giudizio introdotto dal ricorso dell’interessato avverso il rigetto dell’istanza di protezione internazionale da parte dell’apposita Commissione, non ha ad oggetto il provvedimento amministrativo, bensì il diritto soggettivo dell’istante alla protezione invocata. E infatti la legge (d.lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 10 cit.) stabilisce che la sentenza del tribunale può contenere, alternativamente, il rigetto del ricorso ovvero il riconoscimento dello status di rifugiato o di persona cui è accordata la protezione sussidiaria, e non anche il puro e semplice annullamento del provvedimento della Commissione” (cfr. Cass., ord. 9.12.2011 n. 26480). Conseguentemente esso non può concludersi con il mero annullamento del diniego in sede amministrativa della protezione stessa, ma deve pervenire alla decisione sulla spettanza o meno del diritto.

Ne deriva che l’eventuale nullità del provvedimento amministrativo, emesso dalla Commissione territoriale, per esempio, per omessa traduzione in una lingua conosciuta dall’interessato o in una delle lingue veicolari o comunque per altri vizi formali, non esonera il giudice adito dall’obbligo di esaminare il merito della domanda.

5. Nel merito il ricorrente ha dichiarato: a) di essere stato organizzatore e promotore di un gruppo a sostegno delle tematiche inerenti i diritti degli omosessuali, di essere anch’egli omosessuale e di essere stato costretto ad espatriare per la propria incolumità atteso che dal 2007 l’omosessualità in Nigeria è punita come reato penale, con la reclusioni sino a 15 anni; b) che egli aveva ben spiegato alla Commissione territoriale di Caserta tali evidenze, riferendo altresì che la sua condizione di omosessuale era ben conosciuta nel suo paese; c) di aver subito  violenze durante una manifestazione promossa da un’ organizzazione per i diritti LGBT, mostrando delle cicatrici sul capo, e di esser scappato dal suo paese sin dal 2008, e dunque un anno dopo l’entrata in vigore della legge contro gli omosessuali.

Ciò premesso, si osserva che la domanda è stata presentata dopo un anno e mezzo dall’ingresso in Italia (quindi non molto tempo dopo); fin dall’inizio il richiedente ha evidenziato che la domanda era proposta per motivi legati alla sua omosessualità ed alle conseguenti persecuzioni patite nel paese d’origine,  ed ha dichiarato di essere membro di un’organizzazione dal nome LGBT (Lesbian, Gay, Bisex, Transgender), di cui ha prodotto copia della tessera di appartenenza.

Va altresì evidenziato che il ricorrente ha prodotto in copia gli articoli di legge che vietano l’omosessualità e la reprimono censurandola con la pena carceraria sino a 14 anni; inoltre, il rapporto di Amnesty International per l’anno 2012 (in atti), attesta la presenza in Nigeria di violazioni di diritti umani contro le persone sospettate di relazioni omosessuali, e l’approvazione di un disegno di legge che prevede per esse la reclusione sino a 14 anni. Analoghe sanzioni carcerarie sono disposte ai danni dei promotori, fiancheggiatori o sostenitori  di gruppi omosessuali, e di manifestazioni a difesa dei loro diritti.

Ciò posto, valgono le considerazioni che seguono.

L’omosessualità del ricorrerete non risulta dubitabile, attesa l’appartenenza al gruppo LGBT, riscontrata dalla produzione della tessera agli atti, e quanto dallo stesso narrato con riferimento alla sua permanenza in Italia, ed alla relazione affettiva che allo stato intrattiene con un cittadino italiano; il suo racconto, sia in sede di audizione dinanzi alla commissione territoriale di Caserta, che nel corso del presente giudizio è nel complesso ampio ed estremamente analitico, plausibile, non smentito da elementi di segno contrario, nonchè narrato con coraggio e dignità nel rivendicare il proprio diritto ad una serenità affettiva e nel ricordare le violenze subite (sul punto, cfr. Cass. 994/12 e 20912/11).

Deve altresì rilevarsi, quanto alle specifiche motivazioni addotte a sostegno dell’istanza, che secondo la giurisprudenza recente della Corte di Cassazione “la circostanza per cui l’omosessualità sia considerata un reato dall’ordinamento giuridico del paese di provenienza (nella specie, Nigeria), è rilevante, costituendo una grave ingerenza nella vita privata dei cittadini omosessuali, che compromette grandemente la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la protezione richiesta”; sul punto, non può non rilevarsi come la minaccia di una sanzione penale determinata dalla propria naturale condizione affettiva e sessuale costituisce un gravissimo motivo di timore per la propria vita e di seria ed intollerabile compromissione della più naturale delle sfere interiori e relazionali dell’individuo, e cioè di quella affettiva.

Alla luce di quanto indicato risultano quindi soddisfatte le condizioni previste dall’art. 3 del d.lgs. n. 251\2007; come si è visto esso stabilisce che il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessari a motivare la medesima domanda ; recita ancora la disposizione che “tuttavia, qualora taluni elementi o aspetti delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere ritiene che: a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda”: nel caso di specie l’audizione risulta essere durata diverso tempo e caratterizzata da una narrazione circostanziata e mai contraddittoria; ed ancora che “b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione della eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone”: dalla relazione emerge chiara la sussistenza di forme di intollerabile persecuzione dei cittadini omosessuali, e del conseguente pericolo per gli stessi di essere ristretti in vinculis, o comunque di non poter liberamente vivere la propria dimensione affettiva; “d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto giustificato motivo per ritardarla”: il richiedente ha presentato la domanda dopo poco più di un anno dall’ingresso in Italia; “e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile” (il racconto è riscontrato, come sopra visto, da quanto descritto dalla Commissione Nazionale; inoltre non risultano significative contraddizioni nel racconto reso).

Ciò premesso nel caso di specie si ritiene che nei fatti sopra descritti siano ravvisabili persecuzioni per motivi riconducibili a quelli elencati nell’art. 8 del d.lgs. 251/2008 (razza, religione, nazionalità, particolare gruppo sociale, opinione politica) come disciplinati dalla lettera D; ed infatti il ricorrente ha documentato la sua appartenenza ad un gruppo a sostegno dei diritti delle persone LGBT, nonché la sua omosessualità, e per tali motivi – atteso il tenore letterale del punto d) dell’art. 8 decreto lgs 251/08, il quale recita “in funzione della situazione nel paese d’origine, un particolare gruppo sociale può essere individuato in base alla caratteristica comune dell’orientamento sessuale, fermo restando che tale orientamento non includa atti penalmente rilevanti ai sensi della legislazione italiana”, nonché l’esistenza nel paese d’origine di atti di persecuzione contro gli omosessuali (valutabili sotto la specie di azioni giudiziarie o sanzioni penali di natura discriminatoria – lett. C) art. 7 d. lgs. 251/08), e dandosi comunque atto che qualsiasi forma di persecuzione o discriminazione legate all’ identità di genere della persona, soprattutto in campo affettivo e sessuale, mina il suo armonico sviluppo individuale e relazionale nonché l’indiscutibile diritto  a vivere liberamente la propria condizione, atteggiandosi dunque a pregiudizio di estrema gravità – al ricorrente deve essere attribuita la tutela massima concedibile sulla base della norma in oggetto, e dunque lo status di rifugiato, ricorrendone i presupposti in fatto ed in diritto (in senso conforme, cfr. Corte Appello Bari, sent. 299 del 15.4.2013)

8. Per quanto concerne il riconoscimento del diritto di asilo politico, giova sottolineare che, secondo l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza (cfr. Cass. 1.9.2006 n. 18940; Cass. 23.8.2006 n. 18353), in mancanza di una legge organica sull’asilo politico che, in attuazione del dettato costituzionale, ne fissi le condizioni, i termini, i modi e gli organi competenti in materia di richiesta e concessione, detto diritto deve intendersi come diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di esperire la procedura per ottenere lo status di rifugiato politico e non ha un contenuto più ampio del diritto di ottenere il permesso di soggiorno temporaneo ex art. 1 quinto comma del d.l. 30.12.1989 n. 416, convertito con modifiche nella legge 28.2.1990 n. 39. Dunque, nel caso in esame, tale diritto risulta garantito attraverso il procedimento espletato per il riconoscimento dello status di rifugiato politico.

9. Sussistono giusti motivi di compensazione delle spese stante la natura delle questioni trattate; le spese dell’interprete trattandosi di patrocinio a spese dello Stato sono regolare come da separato decreto.

P.Q.M.

 Il Tribunale di Napoli, sezione civile I bis, definitivamente pronunciando sulla domanda in esame, così provvede:

dichiara il diritto di xxxx, nato in Nigeria il 20.6.1985

lo status di rifugiato politico  cui agli artt. 2 ss. d.lgs 251/2007;

–                 manda alla Cancelleria di procedere a notificare la presente sentenza al ricorrente e al Ministero dell’interno, presso la Commissione nazionale ovvero presso la competente Commissione territoriale, e di procedere a comunicare la stessa alla Procura della Repubblica di Napoli.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti.

Napoli, 25.10.2013.                                              Il Giudice

                                                                Dott. Stefano Celentano