Ufficio di sorveglianza di Firenze, ordinanza del 23 aprile 2012

Il Magistrato di sorveglianza

a scioglimento della riserva

visti ed esaminati gli atti:

visto il reclamo avanzato da TELLINI Daniele nato a Firenze il 22.3.1952 detenuto nella

Casa Circondariale di Firenze;

ritenuto di dovere procedere giurisdizionalmente e, quindi, di essere legittimato a sollevare

eccezione di incostituzionalità di una disposizione di legge, e, cioè, del comma 2 dell’art.

18 della legge 26/7/1975, n. 354; e ciò in relazione all’art. 35, comma 1, n. 2, come

interpretato dalla sentenza costituzionale 11 febbraio 1999 n. 26;

ritenuto che l’art. 35 dell’Ordinamento penitenziario prevede che “i detenuti e gli internati

possono rivolgere istanze o reclami, orali o scritti”, a varie autorità, fra le quali, al n. 2, è

previsto anche il magistrato di sorveglianza. La Corte costituzionale, con sentenza n.

26/1999, ha dichiarato la illegittimità costituzionale di questo articolo nella parte in cui non

prevede una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione

penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà

personale. La sentenza costituzionale ha lasciato impregiudicate le modalità di tale tutela,

di competenza comunque del magistrato di sorveglianza, che la Corte di Cassazione, con

sentenza Sezioni Unite 26/2/2003 n. 25079, ha individuato nel reclamo di cui all’art. 14ter,

Ordinamento penitenziario, che è richiamato anche dall’art. 69, stessa legge, nelle materie

dei reclami al magistrato di sorveglianza (v. le conclusioni su tale punto al n. 17 di tale

sentenza);

ritenuto, conclusivamente, che si possa procedere nelle forme indicate, che sono

giurisdizionalizzate:

Osserva

A. PREMESSA.

1. – Affettività e sessualità.

Sono ammessi, anche nel nostro regime penitenziario, rapporti affettivi stabili con

altre persone, in particolare con i familiari. La corrispondenza epistolare è prevista senza

censura, salvo non sia specificamente disposta e, anzi, tale corrispondenza non è limitata

neppure nei confronti di terzi. E’ prevista la corrispondenza telefonica, una volta alla

settimana, anche per questa con la possibile estensione a terzi, se ricorrano ragionevoli motivi.

E sono previsti i colloqui, sei al mese, con i familiari, e anche con terzi, sempre se

ricorrano ragionevoli motivi. Non è utile scendere a esaminare le eccezioni a queste

regole.

In verità, la legge penitenziaria inserisce fra gli elementi del trattamento

l’agevolazione dei rapporti con la famiglia ed uno specifico articolo dispone che

“particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei reclusi con

le famiglie” (art. 28 L.26/7/1975, n. 354).

Questa “particolare cura” è specificata nel regolamento di esecuzione alla legge

penitenziaria, nella concessione di colloqui, oltre quelli ordinari e nella autorizzazione alle

“visite” che consentono di trascorrere, insieme a coloro che sono ammessi ai colloqui,

parte della giornata in appositi locali o all’aperto e di consumare un pasto insieme, fermo

restando il controllo visivo del personale di sorveglianza: v. art. 61 del regolamento:

“Rapporti con la famiglia e progressione nel trattamento”.

Si potrebbe osservare che già la “visita” è un colloquio sui generis in quanto, ferme

le esigenze di controllo, che la legano al colloquio, realizza un momento di familiarità,

sempre lontano da rapporti affettivi intimi con il proprio partner (coniuge o stabile

convivente), intimità che sembra ed è un passo ulteriore, che non si vuole compiere.

Pertanto, le concessioni ai rapporti affettivi con i familiari del nostro regime

penitenziario non consentono di risolvere il problema della affettività e, all’interno di

questo, quello della sessualità, diversamente da quanto accade in altri regimi penitenziari

di altri paesi europei e non europei. Spesso, nella realtà del nostro paese, le modalità dei

colloqui in spazi ristretti ed affollati limitano fortemente anche la sola espressione di affetto

fra le persone. Uno sforzo è stato effettuato in vari istituti, in aderenza alle indicazioni del

regolamento di esecuzione, con la realizzazione di aree all’aperto – le aree verdi – ma di

rado tali spazi hanno l’ampiezza propria di alcuni quali Rebibbia nuovo complesso, il

Giardino degli incontri a Firenze-Sollicciano, in cui resta comunque, il controllo attraverso

telecamere da parte del personale. Si conferma quindi, sia negli spazi chiusi e ristretti, sia

nelle aree verdi piccole o grandi che siano, il controllo visivo del personale di sorveglianza

e il conseguente impedimento all’espressione naturale e completa dell’affettività e,

all’interno di essa, dell’espressione completa della sessualità con il partner.

In sostanza, nella maggior parte delle realtà del nostro paese anche il semplice

colloquio è limitato e limitante (come dimostrano le lunghe code, lunghe per i tempi e per i

numeri) e determina il rischio dell’inaridimento dei rapporti con il resto della famiglia.

Le testimonianze su tale situazione sono numerose e frequenti sono i casi nei quali i figli

minori non vengono portati ai colloqui per le modalità con cui gli stessi si svolgono.

E’ opportuno affrontare la questione anche attraverso l’analisi di due testi generali:

. – la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo: L. 4/8/1955 n, 848;

. – le nuove regole in materia penitenziaria del Consiglio d’Europa.

Ovviamente tali disposizioni (n. 2) o raccomandazioni (n. 3) saranno sempre

inserite nel quadro della disciplina costituzionale, che sarà di volta in volta dichiarata.

2. La Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo di cui alla L.

4/8/1955, n. 848.

Di tale atto legislativo interessano, in particolare, le norme seguenti:

– Art. 3 – Divieto della tortura: Nessuno può essere sottoposto a torture, né a pene o

trattamenti inumani e degradanti.

– Art. 8, comma 1, prima proposizione 1: Ogni persona ha diritto al rispetto della sua

vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.

3. Le nuove regole in materia penitenziaria del Consiglio d’Europa.

Ai fini di una analisi concreta di tali regole, appare opportuno procedere da quelle

del Consiglio d’Europa, approvate dal Comitato dei Ministri dei 46 Stati europei (aderenti al

Consiglio), iniziando ad esaminare le prime, quelle che fanno riferimento alla

Raccomandazione 1340/1997, per poi passare a quelle più recenti dell’11/1/2006,

entrambe preparate ed approvate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, organo

decisivo in ragione della presenza al suo interno di tutti gli stati membri al livello più alto.

Raccomandazione n.1340/1997: art. 6:

a) “L’assemblea raccomanda che il Consiglio dei Ministri inviti gli stati membri:

(punto VI°): migliorare le condizioni previste per le visite da parte delle famiglie, in

particolare mettendo a disposizione luoghi in cui i detenuti possano incontrare le famiglie

da soli”.

Raccomandazione 11/1/2006: regola n. 24, comma 4: “Le modalità delle visite

devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile

normali”.

Tale regola è commentata in calce con queste parole: “La regola 24.4 mette in

rilievo l’importanza particolare delle visite per i detenuti, ma anche per le loro famiglie. Ove

possibile, devono essere autorizzate visite familiari prolungate (fino a 72 ore, ad esempio,

come avviene in numerosi paesi dell’Europa dell’Est). Dette visite prolungate consentono

ai detenuti di avere rapporti intimi con il proprio partner. Le “visite coniugali” più brevi

autorizzate a questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner.”

Questa regola, quindi, non solo avverte che il problema sessuale del detenuto deve

trovare soluzione, ma che la deve trovare proprio in un quadro affettivo familiare normale,

attraverso visite prolungate e non, invece, con visite intime brevi, controindicate per

l’effetto umiliante che possono produrre.

Si può quindi affermare che la scelta della soluzione soltanto sessuale, per così dire, viene

valutata come umiliante.

Il documento contestuale che accompagna le “Regole” 2006, riferisce la realtà di

vari paesi europei nei quali si è affermato un vero e proprio diritto all’affettività in carcere

così affrontando e risolvendo anche il problema della sessualità.

Esemplificando sempre sulla base del documento citato:

– in Croazia sono previsti colloqui non controllati di 4 ore con il coniuge o il partner; così

anche in Albania, con frequenza settimanale;

– in alcuni lander della Germania sono predisposti piccoli appartamenti in cui i detenuti

condannati a lunghe pene possono incontrare i propri cari;

– in Olanda, Norvegia, Danimarca, soluzioni analoghe, con camera matrimoniale, servizi e

cucina, senza limiti relativi alla posizione giuridica; stessa soluzione anche in Finlandia, se

non è possibile l’ammissione a permessi all’esterno;

– in Francia e Belgio vi sono sperimentazioni in appartamenti per periodi prolungati, fino a

48 ore, con la imputazione dei costi ai parenti dei detenuti;

– in Svizzera iniziative analoghe sono in atto in Canton Ticino ed in altri cantoni della

confederazione;

– in Spagna sono previste visite familiari/intime brevi per tutti i detenuti, quale che sia la

posizione giuridica;

– in alcuni paesi dell’Europa dell’Est sono consentite visite in appositi appartamentini o

strutture mobili, in cui può trovare accoglienza la famiglia in tutte le sue componenti.

Fuori Europa non mancano iniziative analoghe. In Canada, le soluzioni più ampie,

con incontri fino a tre giorni in prefabbricati, siti nel perimetro degli istituti: è assicurata,

ovviamente, la più completa intimità. Anche negli USA, che vantano il primato mondiale

per numero dei detenuti, sono previsti, in alcuni Stati, programmi di visite coniugali o familiari:

i detenuti possono incontrare, ogni due settimane, il coniuge e, ogni mese, tutta

la famiglia, in una casa mobile posta all’interno del carcere, per tre giorni consecutivi. Vi

sono esperienze anche in Messico, Brasile e Venezuela.

Si tratta di un elenco certamente incompleto.

Da quanto sopra detto deriva che la soluzione del problema sessuale, per le

indicazioni del Consiglio d’Europa, deve passare attraverso il riconoscimento più ampio e

naturale della affettività: la concessione di permessi più ampi alla intera famiglia per

trascorrere, all’interno del carcere e senza controllo visivo del personale, uno o più giorni,

evita le ammissioni al solo sesso fra partner, che viene considerato invece umiliante.

A questo punto dobbiamo chiederci quale sia l’efficacia di tali disposizioni: ebbene

esse sono disposizioni emanate da un organo, il Comitato dei Ministri del Consiglio

d’Europa, che, nel quadro della convenzione internazionale che lo ha costituito, invita ogni

membro a tenere conto delle regole decise insieme. L’invito è valido ed efficace, anche se

si possono consentire tempi di attuazione diversi. L’indicazione di dove però deve tendere

il regime penitenziario è chiara.

Occorre poi ricordare un ulteriore atto approvato dal Parlamento Europeo in data

9/3/2004, finalizzato a raccomandare al Consiglio d’Europa un sistematico elenco dei

diritti dei detenuti (di cui le regole del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa in data

11/1/2006 sembrano essere attuazione), fra le quali, alla lettera 1c, appare “il diritto ad una

vita affettiva e sessuale, prevedendo misure e luoghi appositi”.

In conclusione, l’opzione in questa materia della disciplina europea è evidente.

4. Il problema del sesso nella realtà del carcere.

Proviamo a ricostruire la realtà del nostro carcere nel quale vigono regole

proibizioniste ed alcuna soluzione è prevista del problema sessuale all’interno o meno di

quello affettivo.

Si ha, da un lato, il sesso immaginato, come provano le immagini che ricoprono i

muri degli spazi interni delle celle (che ove rimosse dai responsabili dell’istituto vengono

rapidamente sostituite): il sesso immaginato e negato ha come esito il sesso solitario .

Si ha dall’altro lato, un’omosessualità ricercata o imposta, sia che la coazione

consegua alla violenza o alla minaccia sia che derivi da un consenso rassegnato alla

situazione.

E’ chiaro, comunque, che è decisamente improbabile una scelta di continenza da

parte di un numero significativo di detenuti, così che residuano le due scelte sopra indicate

– masturbazione o omosessualità, indotte dalla situazione – che hanno una evidente

caratteristica di innaturalità oltreché di degrado e avvilimento personale, pesantemente

avvertito da chi vi è costretto. Una dinamica, contraria, all’evidenza, a percorsi di

riabilitazione.

Conclusione di questa premessa. L’inibizione del sesso col partner, sia nel quadro

della affettività, sia come consenso alla diretta consumazione dell’atto sessuale con il

partner medesimo, è previsto come regola generale del Consiglio d’Europa

(raccomandazioni n. 1340/1997 e raccomandazione 11/1/2006 e,infine, raccomandazione

Parlamento Europeo al Consiglio d’Europa del 9/3/2004) e viene attuato in molti paesi

europei con una preferenza espressa, nelle regole ricordate per la attuazione, del

riconoscimento della affettività nel senso più ampio e senza controllo visivo del personale.

5. Permessi. La opzione sicuramente migliore per rispondere al problema

sessualità/affettività è quella dei permessi fuori dal carcere, perché riporta la sessualità in

una situazione di libertà con il ritorno nei propri ambiti personali e sociofamiliari.

Come è noto tale possibilità è prevista dall’Ordinamento penitenziario, all’art. 30ter,

con i permessi premio e può collegarsi anche ai permessi per gravi motivi familiari previsti

dall’art. 30, sia pure per eventi eccezionali. Ma la stessa possibilità non può riguardare tutti

i detenuti, perchè nel nostro regime attuale sono inammissibili ai permessi-premio, oltre

tutti i detenuti giudicabili (oggi sono il 41,8% del totale), anche una percentuale molto

elevata dei detenuti definitivi, percentuale in deciso aumento per le limitazioni delle

concessioni da parte degli stessi magistrati di sorveglianza, nonché per effetto della legge

5/12/2005, n. 251, c.d. ex-Cirielli, che riduce sensibilmente i benefici penitenziari per i

recidivi (per i permessi premio l’art. 30quater Ord. Penit. richiede periodi di pena,

presofferta prima della concessione, sempre più elevati man mano che la pena e la

necessità (per il protrarsi della astinenza forzata) aumentano. La quota restante dei

detenuti, astrattamente ammissibile, ne fruisce in misura senz’altro minoritaria.

6. L’equiparazione rapporto di coniugio/rapporto di convivenza.

L’equiparazione vige per i colloqui: la complessità, casomai, riguarda la modalità di

accertamento della convivenza stabile, che si ritiene provata dall’annotazione anagrafica

della convivenza e delle sue conseguenze: i figli e la famiglia che così ne risulta.

In ogni caso, ulteriori specificazioni sulla formazione di un nucleo familiare potrebbero

essere desunte da informazioni degli uffici di servizio sociale penitenziario (UEPE).

Ed ancora: è noto che con il termine famiglia di fatto ( anche definita convivenza

more uxorio) si indica genericamente “l’unione stabile e la comunione di vita tra due

persone, non fondata sul matrimonio. La famiglia di fatto si contraddistingue per il

carattere di stabilità, che nasce come espressione della libera scelta del singolo individuo

di non costituire un vincolo formale, ma di fondare il rapporto solo sul sentimento di affetto

e di amore”.

Pertanto, si possono individuare quali “elementi essenziali della convivenza more

uxorio:

– la comunità di vita;

– la stabilità temporale;

– l’assenza del legame giuridico del matrimonio.

Il regolamento anagrafico di cui al D.P.R. 30/5/1989 prevede d’altronde, all’art.5, la

convivenza anagrafica.

Al momento in cui si va oltre il colloquio e la sua ottica, per le ragioni che

dovrebbero determinarne il superamento (che sono tutte quelle che si spiegheranno

successivamente), si deve inevitabilmente mantenere quella equiparazione del

trattamento che informa i colloqui. Altrimenti si finirebbe per dare rilievo al solo rapporto di

coniugio, stabilendo una disuguaglianza rispetto ad una condizione carceraria identica.

Naturalmente, come già detto, potrebbe essere previsto che questa stabilità del

rapporto possa trovare adeguati accertamenti da parte del Servizio sociale penitenziario,

come ante evidenziato.

7. La limitazione delle varie eccezioni ai soli gruppi familiari.

Una riflessione, in proposito appare necessaria perché, a ben guardare, molti dei

motivi di incostituzionalità potrebbero riguardare tutti i detenuti. La violazione dei diritti

dell’uomo e delle sue protezioni e promozioni negli artt. 2 e 3 della Cost., l’art. 3 – tutto il

testo – della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo, lo stesso art. 27 Cost.,

prima proposizione che afferma che le pene non possono consistere in trattamenti contrari

al senso di umanità ed è evidentemente, la premessa dell’art. 3 della Convenzione per la

salvaguardia dei diritti dell’uomo), nonché l’art. 29 Cost., che prevede il diritto alle attività

necessarie per la promozione della famiglia e il parallelo art. 8, primo comma, della

convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che ne impone il rispetto, possono

essere prese in considerazione per la affermazione della incostituzionalità della scelta

negazionista sull’ammissibilità della soluzione del problema affettivo in carcere, nei

confronti di tutti i detenuti.

La questione può essere superata agevolmente. La soluzione che viene qui

sostenuta del riconoscimento della affettività riguarda il rapporto detenuto/famiglia e la

soluzione dentro l’affettività del problema sessuale fra detenuto e coniuge o convivente

stabile (specie se tale convivenza è sfociata nella creazione di una famiglia) vale soltanto

quando quel rapporto sussista. E’ chiaro che, quando invece il legame familiare non

esiste, non è possibile la soluzione della affettività e all’interno di quella la soluzione del

problema sessuale del detenuto col proprio partner. Va solo chiarito che, in assenza del

rapporto del detenuto col partner, resta a consentire la affettività il rapporto con la famiglia

di provenienza, attraverso il quale, pur senza la soluzione del problema sessuale,

l’ammissibilità alla affettività pura e semplice si può allargare ad altri detenuti.

B. LA SCELTA NEGAZIONISTA DEL NOSTRO CARCERE

La scelta negazionista del nostro sistema penitenziario è desumibile dal comma 2

dell’art.18: E’, infatti, il comma 2 dell’art. 18 della L. 26/7/1975, n.354, che esige “il

controllo a vista ………del personale di custodia” sui colloqui e che quindi impone

l’astinenza sessuale.

L’ottica del colloquio è vincolata dalla legge: in sostanza l’unico contatto fra familiari

e detenuti è il colloquio e questo è anche il massimo accettabile. Ed è un’ottica fortemente

riduttiva rispetto allo stesso art. 28 della legge, perché il solo colloquio, riportato alle

condizioni in cui si svolge, in ambienti affollati da una umanità in condizioni critiche, che fa

lunghe code per arrivare a quel momento, rende precari e difficili i rapporti familiari e

certamente non utili per “mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti o degli

internati con le famiglie”.

Si tratta ovviamente di una inibizione indiretta, ma chiaramente sufficiente ed

efficace. C’è anche da osservare che nello stesso colloquio e, più ancora, nell’istituto della

“visita” (con consumazione del pasto allo stesso tavolo fra i familiari), previsto dal nostro

art. 61, comma 2, lettera b), Reg. esecuzione Ordinamento Penitenziario, che sempre

richiama, però, l’art. 18, comma 2, della legge, si conferma l’ottica negazionista. Nel caso

della “visita” è possibile che i gesti affettuosi siano maggiori ed il controllo di queste

affettuosità più intense è lasciato al personale di custodia con tensioni notevoli fra detenuti

e familiari, da un lato, e personale di sorveglianza, dall’altro. Potrebbe essere questa

un’altra ragione che consiglia più spazio alla soluzione del problema nella sua portata

generale (conseguente ovviamente all’accoglimento, se possibile, delle presenti eccezioni)

per non doverlo affrontare anche in questi aspetti di minor rilievo, ma comunque gestiti in

modo inevitabilmente discutibile e possibili fonte di tensione all’interno di ciascun istituto.

Le motivazioni della scelta negazionista che è quella del nostro diritto vigente,

possono essere criticate sotto due aspetti:

.- quello della inibizione del diritto;

.- quello della insostenibilità del divieto. 1. L’inibizione del diritto.

Torniamo alle regole approvate dal Comitato dei ministri dei 46 Stati aderenti al

Consiglio d’Europa e in particolare alla regola della Raccomandazione 1340/1997, art. 6,

comma VI°, nonché alla regola 24, comma 4, della deliberazione 11/1/2006 dello stesso

organo. La prima è chiarissima: i detenuti devono “incontrare le famiglie da soli”; la

seconda è altrettanto chiara: “La modalità delle visite deve permettere ai detenuti di

mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”. L’espressione “più

possibile normale” è significativa e fa riferimento a una completezza che attiene alla

normalità maggiore possibile e che quindi non può ignorare gli aspetti intimi del rapporto

che lega il detenuto al partner nell’ambito della famiglia legale o di uno stabile rapporto di

convivenza. E’ conseguente il commento della stessa fonte che ha prodotto la regola e la

sottolinea con queste parole: “La regola 24.4 mette in rilievo l’importanza particolare delle

visite per i detenuti, ma anche per le loro famiglie. Ove possibile, devono essere

autorizzate visite familiari prolungate (fino a 72 ore, ad esempio, come avviene in

numerosi paesi dell’Europa dell’Est). Dette visite prolungate consentono ai detenuti di

avere rapporti intimi con il proprio partner. Le “visite coniugali” più brevi autorizzate a

questo fine possono avere un effetto umiliante per entrambi i partner.” Queste

considerazioni richiamano l’attenzione sul fatto che non è solo la condizione detentiva che

preoccupa il Consiglio, ma è anche quella delle famiglie, coinvolte a pieno titolo nel

discorso complessivo. Come ben si nota il richiamo alla naturalezza e alla completezza del

rapporto è il passo avanti compiuto rispetto alla regola del 1997, che esigeva il semplice

incontro dei detenuti con la famiglia da soli. Nella regola 2006 ci si preoccupa che tutto

questo avvenga nel modo più normale possibile.

Questa regola, quindi, non solo avverte che il problema sessuale del detenuto deve

trovare soluzione, ma che la deve trovare proprio in un quadro affettivo familiare normale,

(“il più possibile normale”), attraverso visite prolungate e non, invece, con visite intime

brevi, controindicate per l’effetto umiliante che possono produrre. La scelta della soluzione

soltanto sessuale, per così dire, viene valutata umiliante.

Nel secondo comma dell’art. 18 citato, siamo lontani da questa ottica che contrasta

varie norme sulle quali torneremo e che è l’ottica costituzionale. Si può convenire che le

regole approvate dal Comitato dei ministri dei 46 stati europei l’11/1/2006 e quelle

precedenti del 1997, non sono immediatamente vincolanti nei confronti dell’Italia, ma

conviene riportare e sottolineare qui ciò che era stato detto in precedenza: che il Comitato

dei Ministri del Consiglio d’ Europa è un organo, che, nel quadro della convenzione

internazionale che l’ha costituito definisce, nell’assemblea dei vari stati, delle regole da

osservare in carcere, invitando poi i vari stati con un provvedimento che prende il nome di

“raccomandazione”, ad osservare le regole stesse. Conclusione: l’invito è valido ed

efficace, anche se si può consentire una certa flessibilità di conformazione. La indicazione

di dove tende il regime penitenziario europeo è in ogni caso chiara.

Vale la pena di richiamare a questo punto, ad ulteriore conforto della posizione

costituzionalmente legittima la sentenza costituzionale n. 26/1999, nella parte in diritto, n.

5: “L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente

il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento

all’organizzazione penitenziaria è estraneo al vigente ordinamento costituzionale, il quale

si basa sul primato della persona umana e sui suoi diritti.”

“I diritti inviolabili dell’uomo, – prosegue la Corte – il riconoscimento e la garanzia dei

quali l’art. 2 Cost. pone tra i principi fondamentali dell’ordine giuridico, trovano, nella

condizione di coloro che sono sottoposti a una restrizione della libertà personale, i limiti

ad essa inerenti, che sono propri di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione.

La restrizione della libertà personale secondo la Costituzione vigente non

comporta dunque affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità

preposta alla sua esecuzione.”

Conclude, su questo punto, la Corte: “La dignità della persona (art. 3, comma 1

Cost.) anche in questo caso, anzi, soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la

precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni d’ambiente per

loro natura destinate a separare dalla società civile, è dalla Costituzione protetta e

attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo, che anche il detenuto porta con sé

lungo tutto il corso della esecuzione penale, conformemente del resto all’art. 1, comma 1,

che la L. 354/75 ha inteso dare alla intera disciplina dell’Ordinamento Penitenziario”.

Allora: per un verso, la citazione costituzionale rivendica il rispetto di un diritto

naturale, decisivo sul tema della promozione dell’uomo (v. art. 2 e art. 3, commi 1 e 2), e,

per l’altro, tale posizione è rafforzata dal primato della persona umana e dei suoi diritti,

nonché dalla funzione inclusiva della pena, riaffermata costantemente e nell’Ordinamento

Penitenziario e nella Costituzione. Daltronde, il disconoscimento, attuato nel nostro

sistema vigente, di una posizione soggettiva personale e naturale contraddice le

indicazioni provenienti dalla citazione dei vari passi della sentenza costituzionale (citiamo

l’art. 1, comma 1. Ord. Penit.: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme a

umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”).

Anche questo è un altro segnale, questo, si, vincolante della incostituzionalità della

scelta negazionista. Il che significa: prendere atto che non è possibile costituzionalmente

inibire il diritto al rapporto sessuale con il partner in una relazione legale di coniugio o di

convivenza stabile e che la forma con cui deve essere ammessa la fruizione di tale diritto

è quella della affettività, che evita l’effetto umiliante (e per questo inumano e degradante)

del riconoscimento puro e semplice dell’ammissione a rapporti sessuali fra le parti. In

sostanza, quindi, è l’affettività che reclama la sua parte fra gli stessi familiari e il detenuto:

è nell’ambito del rapporto già riconosciuto (dall’art. 28 Ordinamento penitenziario) con la

famiglia che, dando spazio alla normalità maggiore possibile del rapporto stesso,

attraverso relazioni prolungate e senza controllo visivo del personale, si realizza

l’attuazione di un rapporto familiare, normale nella misura del possibile, fra i vari membri

della famiglia, consentendo anche la soluzione del problema della completezza del

rapporto fra il detenuto ed il partner (nel senso già indicato).

La astinenza sessuale coatta fa parte di queste dinamiche e colpisce il corpo in una

delle sue funzioni fondamentali.

2. L’insostenibilità del divieto

E’ anche necessario affrontare i nodi della negazione di rapporti sessuali con il

proprio partner nel nostro sistema. Dopo avere riconosciuto che non può essere inibito il

diritto, bisogna insistere sulla insostenibilità del divieto di esercitarlo. Questo non riguarda

le persone che si relazionano al detenuto, in quanto, nelle ipotesi avanzate e nelle

esperienze straniere, sono le stesse che sono ammesse ai colloqui. Non sono le vicinanze

dei corpi di queste persone con il detenuto, in quanto l’abbandono del bancone e l’incontro

intorno ad un tavolo o, nella visita (che è ammessa anche da noi: art. 61, comma 2, lettera

b), con la esplicita possibilità della consumazione insieme del pasto), che lascia spazio a

manifestazioni affettive fra familiari e ovviamente anche fra partner, manifestazioni che

sono naturali: non ovviamente rapporti sessuali, ma baci e carezze, la cui possibilità e

naturalezza creano contrasti e tensioni fra i detenuti e i loro familiari, da un lato ed il

personale di sorveglianza dall’altro, chiamato a valutazioni difficili e discrezionali, molto

eterogenee peraltro, secondo la mentalità di chi è chiamato a gestirle.

Quindi: occorre comparare la pretesa di una costante sorveglianza di principio

(ripeto, di principio: altra è in effetti la concretezza delle situazioni) sui detenuti con il

rispetto di una esigenza naturale degli stessi. E si deve anche riflettere sul fatto che

l’affermazione del principio di sorveglianza interviene in un luogo che è espressione della

sorveglianza nelle sue mura, nell’organizzazione degli spazi, che è, sostanza e simbolo

della sorveglianza.

Perché in questo quadro di sicurezza, aggiungere la inibizione di relazioni affettive

“il più naturali possibili”? E’ logico pensare che il diritto è sempre scelta fra situazioni in

possibile conflitto: in questo caso, il principio di sorveglianza prevale, nell’attuale regime,

sulla soddisfazione di una esigenza incontestabilmente naturale del detenuto, quale

emergente dagli articoli costituzionali (art. 2 e art. 3, comma 1 e 2) citati in precedenza e

da tutte le altre considerazioni che consigliano di rimuovere la scelta negazionista attuale.

E arriviamo alla domanda finale, che era quella di partenza: è possibile sostenere,

nel quadro costituzionale ora indicato, la riduzione dei rapporti fra detenuto e familiari ai

soli colloqui, quando si sacrifica, così facendo, la ricchezza del tema familiare e il detenuto

è costretto, a rapporti inevitabilmente degradanti? Non è insostenibile il divieto? La

risposta non può che essere affermativa.

Tutto ciò premesso, il Magistrato di sorveglianza solleva d’ufficio eccezione

di incostituzionalità dell’art. 18, comma 2, della L. 26/7/1975, n. 354, come in seguito

articolata.

C. LE ECCEZIONI DI INCOSTITUZIONALITA’

1. Prima eccezione.

Primo rilievo di costituzionalità: violazione dell’art. 2 Cost.: nella parte in cui afferma

“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, nonché nell’art. 3

Cost., comma 1, là dove dichiara l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e, nel

comma 2, là dove afferma che “è compito della Repubblica rimuovere gli

ostacoli….che….. impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, nonché, infine,

nell’art. 27 Cost., comma 3, prima proposizione, che afferma: “le pene non possono

consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”.

Di conseguenza, si chiede dichiararsi la illegittimità costituzionale del comma 2

dell’art. 18 della L. 354/75, che richiede il controllo a vista dei colloqui, in quanto impedisce

la intimità dei rapporti affettivi fra i componenti della famiglia fondata sul rapporto di

coniugio o di convivenza stabile, e pertanto viola le norme costituzionali ricordate all’inizio.

L’astinenza sessuale, imposta dal nostro ordinamento penitenziario, all’art. 18,

comma 2 dell’Ord. Penit., si muove in senso contrario alle “raccomandazioni” approvate

dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa n. 1340/97 – art. 6, comma 6 – e

11/1/2006 – art. 24 comma 4, così come anche chiarito nello scritto, della stessa

provenienza, che abbiamo più volte riportato.

Ulteriore conferma a questa posizione si trova, come abbiamo visto, nella

raccomandazione 9/3/2004 del Parlamento europeo al Consiglio d’Europa, che riconosce

al detenuto “il diritto ad una vita affettiva e sessuale, prevedendo misure e luoghi appositi”.

Non si deve poi dimenticare che l’astinenza ha quel prezzo che abbiamo indicato alla

lettera A, sub 4: cioè il ricorso a pratiche masturbatorie o di omosessualità ricercata o

coatta (sia che la coazione consegua alla violenza o alla minaccia o ad un consenso

rassegnato alla situazione), pratiche tutte che avviliscono profondamente la persona

del detenuto, nel momento in cui dovrebbe essere proposta la sua promozione umana. Sotto

questo profilo, l’effetto che l’astinenza produce realizza, contro l’esplicito testo

costituzionale, un trattamento contrario al senso di umanità e comprensibilmente

degradante, che discende dalla applicazione di una specifica norma: il ripetuto comma 2

dell’art. 18 della L. 26/7/1975, n. 354. Ovviamente, come già chiarito, preso atto che la

sola soluzione del solo problema sessuale ha effetti umilianti per i partner, il testo della

norma ora citata, deve trovare la soluzione complessiva attraverso la soluzione della

affettività, come ripetutamente affermato.

La citazione di parte della sentenza n. 26/1999, coinvolge anche gli articoli 2 e 3

Cost. nella misura che viene ripetuta e ora indicata come premessa alla violazione dei

diritti inviolabili dell’uomo e a politiche penitenziarie che dovrebbero consentire la

rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e che, al

contrario, la negano. Da tali violazioni discende, nel nostro sistema penitenziario, la

soluzione negazionista del nostro problema, che determina trattamenti contrari al senso di

umanità e degradanti, vietati dall’art. 27, comma 3, prima proposizione (nonché dall’art. 3

della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo).

2. Seconda eccezione.

Secondo rilievo di incostituzionalità: violazione del comma 3, seconda proposizione,

dell’art. 27 Costituzione: “Le pene….devono tendere alla rieducazione del condannato. Si

chiede, pertanto dichiararsi la illegittimità costituzionale del comma 2 dell’art. 18 della L.

354/75, che richiede il controllo a vista dei colloqui e così impedendo la intimità dei

rapporti affettivi, viola l’art. 27, comma 3, seconda proposizione, consentendo che la

pena non attui le sue finalità rieducative/risocializzanti/socialmente inclusive.

La Corte Costituzionale, si è ripetutamente pronunciata sul diritto alla esecuzione di

una pena rieducativa o riabilitativa o risocializzante, tesa al reinserimento (inclusiva) delle

persone nell’ambito sociale e familiare. Per l’attuazione di tale diritto l’art. 13 O.P. chiarisce

che deve essere svolta l’osservazione scientifica e pluriprofessionale della personalità e in

relazione all’esito della stessa, disposto un programma di trattamento che, utilizzando gli

elementi del trattamento, consenta interventi finalizzati a migliorare le risorse personali

dell’interessato. Chiarisce l’art. 15, comma 1, che “il trattamento…… è svolto avvalendosi

principalmente della istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative,

e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”.

L’art. 28 poi, sotto la rubrica “rapporti con la famiglia” dispone: “Particolare cura è

dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire relazioni dei detenuti e degli internati con le

famiglie”.

La disposizione che si riporta ha un contenuto dinamico – “mantenere, migliorare o

ristabilire” – rafforzato dalla espressione iniziale “particolare cura”. Ora, si tratta di

chiederci se l’operatività di questa norma e il suo senso costituzionale possano

corrispondere alle conseguenze che si traggono dall’art.18, comma 2, ovvero l’astinenza

sessuale con il partner e l’affettività tra gli stessi e i rapporti detenuto/familiari, quando si

deve ricavare da quella norma che la stessa ha un prezzo, che è la caduta nel sesso

solitario o nella omosessualità ricercata o coatta, sia che la coazione segua alla violenza o

alla minaccia o a un consenso rassegnato alla situazione, condizioni tutte che

determinano una detenzione disumana e degradante (v. commento alla regola 24. punto

4, delle ricordate regole 2006 del comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.

Questa regola, quindi, non solo avverte che il problema sessuale del detenuto deve

trovare soluzione, ma che la deve trovare proprio in un quadro affettivo familiare normale,

l’effetto umiliante che possono produrre. La scelta della soluzione soltanto sessuale, per

così dire, viene valutata umiliante.

Conclusione: la normativa vigente nel nostro regime penitenziario non ha alcuna

compatibilità costituzionale.

3. Terza eccezione.

Terzo rilievo di incostituzionalità: si chiede dichiararsi la illegittimità costituzionale

dell’art. 18, comma 2 della legge 354/75, che obbliga il controllo a vista dei colloqui da

parte del personale e così impedendo la intimità dei rapporti affettivi, viola l’art. 29

Costituzione, che afferma: “La repubblica riconosce i diritti della famiglia come società

naturale fondata sul matrimonio”, nonché l’art. 31, nella parte in cui, nel comma 2

“protegge la maternità…..favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.

Se l’art. 29 Cost. richiama al fondamento naturale della famiglia, questo sottolinea

che il matrimonio si pone come un atto convenzionale sulla naturalezza del fatto in sé. Il

dato convenzionale del matrimonio può assumere le forme più diverse, pur se rispettose

del riconoscimento dello Stato.

Il risultato della astinenza nel rapporto fra gli stessi coniugi determina i matrimoni

“bianchi” in carcere, con la celebrazione dell’atto, ma non la consumazione dello stesso e

sostanzialmente la non-consumazione è essa stessa inadempimento degli obblighi relativi

nascenti dal dato convenzionale.

Inoltre, tale situazione “non protegge la maternità”, ma la impedisce.

Sembra necessario aggiungere che, mai come sotto questo rispetto, ciò che va

riconosciuto costituzionalmente è l’affettività come il valore che è sostanza della famiglia e

al tempo stesso della convivenza abituale e che può essere finalizzato al matrimonio, ma

che su questo deve costruire il legame, che tiene unita insieme la famiglia. Si ricorda, che,

nella parte a cui si è prima rinviato (Lettera A, n. 6), si faceva presente che quell’affettività,

che è valore che fonda e mantiene il legame familiare, può anche essere confermata

attraverso accertamenti operati dai Servizi sociali competenti.

4. Quarta eccezione.

Quarto rilievo di incostituzionalità: si chiede dichiararsi la illegittimità costituzionale

dell’art. 18, comma 2 della legge 354/75, che richiede il controllo a vista dei colloqui, in

quanto non consente la intimità dei rapporti affettivi,e, quindi, viola l’art. 31 comma 1, della

Costituzione che afferma: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto

dell’individuo e interesse della collettività….”, nonché nella parte finale e seconda

proposizione del comma 2, che afferma: “La legge non può in alcun caso violare i limiti

imposti dal rispetto della persona umana”.

Si riparte sempre dagli effetti della astinenza sessuale fra partner legati da rapporto

di coniugio o di convivenza stabile, effetti che conseguono al comma 2 dell’art. 18 O.P.,

effetti che si connotano, come detto e ripetuto, con un ricorso alla masturbazione o alla

omosessualità ricercata o coatta, sia che la coazione segua a minacce o violenze o a un

consenso rassegnato alla situazione. In carcere tutto questo significa la intensificazione

dei rapporto a rischio e la contestuale riduzione delle difese sul piano della salute. Ma, di

più, la stessa astinenza in se considerata non aiuta, in persone che hanno ormai superato

l’età puberale, uno sviluppo normale della sessualità con nocive ricadute stressanti sia di

ordine fisico che psicologico.

Ma tutto ciò ha anche un ritorno diverso: è quello cui consegue la violazione dei

limiti imposti al rispetto della persona umana, che discende comunque dalle conseguenze

della astinenza con il partner, già descritte nel capoverso che precede. Si è parlato più

volte dell’effetto umiliante che viene ricollegato alla soluzione del problema sessuale (ad

es. nei “colloqui intimi” spagnoli), se non si ha cura di inserirlo nella soluzione del

problema della affettività, come qui si ritiene costituzionalmente doveroso. E’ necessario

coinvolgere l’intero nucleo familiare, titolare a sua volta di diritti all’affettività nei confronti

del detenuto, come questi ha pari diritti nei confronti dei propri familiari. Le modalità di tali

rapporti sono state più volte ripetute e sono quelle su cui hanno dato indicazioni il

Consiglio d’Europa e il Parlamento Europeo.

Conclusivamente, si chiede dichiararsi la illegittimità costituzionale del

comma 2 dell’art. 18, che richiede il controllo visivo dei colloqui e così, in quanto

impedisce la intimità dei rapporti affettivi e imponendo l’astinenza sessuale con il

partner legato da rapporto di coniugio o di stabile convivenza ed anzi favorendo il

ricorso a pratiche masturbatorie o omosessuali, viola le seguenti norme

costituzionali:

art. 2: uguaglianza dinanzi alla legge per il riconoscimento dei diritti inviolabili

dell’uomo;

art. 3, comma 1 e 2, che affermano la pari dignità sociale e la eguaglianza

davanti alla legge di tutti e la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno

sviluppo della persona umana;

art. 27, comma 3, prima proposizione, consentendo che la pena possa

consistere in trattamenti contrari al senso di umanità;

art. 27, comma 3, seconda proposizione, consentendo che la pena non tenda

alla rieducazione del condannato;

artt. 29 e 31 Costituzione, nella parte in cui, nel comma 1 dell’art. 29, dispone:

“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul

matrimonio”, nonché nell’art. 31, al comma 1 che dispone: “La Repubblica

agevola….. la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”,

nonché, infine, nel comma 2, nella parte in cui dispone che “protegge la

maternità….. favorendo gli istituti necessari a tale scopo”.

art. 32, commi 1 e 2, perché compromette la tutela della salute fisiopsichica

dell’individuo (comma 1) e viola i limiti imposti dal rispetto della persona umana

(comma 2).

In conclusione: si chiede di dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art.

18, comma 2 della legge 26/7/1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario), nella parte in

cui prevede che il controllo a vista dei colloqui impedisce la effettuazione, nel

quadro del pieno riconoscimento di rapporti affettivi con i familiari, di rapporti intimi

con il partner (legato con rapporto coniugale o con stabile rapporto di convivenza,

sul quale si è innestata o meno una situazione familiare).

Tutto ciò premesso, il Magistrato di sorveglianza solleva d’ufficio eccezione

di incostituzionalità dell’art. 18, comma 2, della L. 26/7/1975, n. 354 e pertanto

ORDINA trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale.

SOSPENDE

il giudizio in corso.

ORDINA

Inoltre che, a cura della cancelleria, l’ordinanza di trasmissione degli atti alla

Corte costituzionale sia notificata, non essendone data lettura, alle parti in causa e

al Pubblico Ministero, il cui intervento in udienza è obbligatorio, nonché al

Presidente del Consiglio dei Ministri. L’ordinanza, sempre a cura della Cancelleria,

viene comunicata anche ai Presidenti delle due camere del Parlamento.

Firenze, 23.4.2012

Il Magistrato di Sorveglianza

Dr. Antonietta Fiorillo