Il danno da discriminazione fondata sull’orientamento sessuale di Antonio Rotelli

(*)

Sommario: 1. Il fatto. − 2. Identità sessuale, orientamento sessuale e identità di genere. − 3. L’idoneità psicofisica al servizio militare. − 4. La sentenza n. 2353/2005 del TAR Sicilia. − 5. Il risarcimento del danno. − 6. L’orientamento sessuale nella legislazione e nella giurisprudenza.

1. IL FATTO

Nel 2001 un giovane propone ricorso alla competente Autorità militare, contro la ritenuta idoneità al servizio militare. Sottoposto a visita di revisione dell’esame di idoneità, dichiara di essere omosessuale e viene giudicato non idoneo dall’Ospedale militare a svolgere il servizio di leva obbligatorio, in quanto affetto da “disturbo dell’identità sessuale”. In seguito, l’Ospedale militare comunica alla Motorizzazione civile che l’attore, a causa del disturbo diagnosticato, risulta “non essere in possesso dei requisiti di idoneità psicofisica legalmente richiesti per la condotta di automezzi”. Pertanto, la Motorizzazione dispone la revisione della patente di guida ai sensi dell’art. 128, d.lgs. n. 285/1992 e, all’esito, riconosce la sua idoneità al possesso del titolo solo per un anno.

Da qui nasce un ricorso al TAR per l’annullamento del provvedimento della Motorizzazione viziato da violazione di legge. Al contempo, viene adito il Tribunale ordinario per il risarcimento del danno subito.

2. IDENTITÀ SESSUALE, ORIENTAMENTO SESSUALE E IDENTITÀ DI GENERE

La sentenza che si annota concerne tematiche di notevole spessore sociale e giuridico. Per la prima volta, non solo si riconosce il diritto della persona omosessuale a non essere discriminata a causa del proprio orientamento sessuale, ma altresì il suo diritto a vedersi risarcito il danno non patrimoniale subito a causa della discriminazione patita.

Il riconoscimento e la tutela dei diritti delle persone omosessuali e transessuali sono diventati oggetto di studio e di intervento del diritto solo negli ultimi decenni (1). Nonostante l’essere omosessuale non costituisse fattispecie di reato già nel codice penale Zanardelli e successivamente nel vigente codice Rocco, il diritto positivo non si era mai interessato alla persona omosessuale come soggetto di diritto e di diritti (2). Quel che mancava, al diritto come nella società, era la compiuta elaborazione stessa della soggettività omosessuale, la cui consistenza era largamente ridotta o identificata con gli atti o le pratiche omosessuali − secondo un atteggiamento esistente in passato, ma in verità non del tutto scomparso ancora oggi. Le pratiche come tali erano reputate un fatto privato, che non interessavano al diritto criminale, ma tuttavia erano ritenute moralmente disdicevoli o socialmente inaccettabili da chi credeva che l’omosessualità fosse una patologia.

L’omosessualità è scomparsa dall’elenco delle malattie psichiatriche dell’American Psychiatric Association solo nel 1973 (3), seguita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1993 (4), e dalle associazioni psichiatriche giapponese e cinese, rispettivamente nel 1995 e nel 2001 (5).

Sul finire degli anni ’80 del secolo scorso, le prerogative delle persone omosessuali hanno assunto una rilevanza per il diritto in tutto il mondo occidentale e sono state introdotte tutele contro le discriminazioni fondate sull’orientamento omosessuale, correttamente definito variante naturale della sessualità e del comportamento umano, e altresì riconoscimenti di diritti alle coppie dello stesso sesso (6). L’orientamento sessuale descrive l’attrazione sessuale, emotiva e sentimentale di qualcuno nei confronti di qualcun altro. A seconda dell’orientamento sessuale gli individui sono distinti in eterosessuali o omosessuali.

La parola omosessuale sovente viene ritenuta insufficiente ad esprimere la complessità dei valori, dei bisogni e della dignità di una persona gay o lesbica, gravata com’è degli stereotipi propri del secolo in cui è nata (7). Alcuni le preferiscono l’espressione persona omoaffettiva, ma la parola omosessuale è troppo diffusa nel linguaggio comune e ad oggi non è stata ancora sostituita (8). Non si tratta evidentemente di una questione solo formale, ma di una questione alla quale soprattutto gli operatori del diritto sono chiamati a prestare molta attenzione. Infatti nella pratica, come emerge anche tra le righe della sentenza in commento, si riscontra ancora molta confusione nel distinguere e riferirsi correttamente a condizioni personali differenti.

Nella sentenza ricorrono i seguenti tre diversi concetti, che preliminarmente occorre distinguere:

a) l’identità sessuale, che la scienza definisce come un costrutto multidimensionale proprio di ciascun individuo. Secondo la sessuologia è costituita da un minimo di quattro componenti, tra le quali si riconoscono il sesso biologico, l’identità di genere e l’orientamento sessuale (9);

b) l’identità di genere, che è il modo in cui l’individuo percepisce il proprio genere in relazione al proprio sesso biologico. Quando il sesso biologico e l’identità di genere non coincidono (per esempio: ho gli attributi femminili, ma mi percepisco come uomo) si ha un disturbo dell’identità di genere, connesso al transessualismo (10);

c) l’orientamento sessuale, che, come già detto, può essere tanto etero quanto omosessuale, che è una condizione ascritta non riducibile al comportamento sessuale, ma che coinvolge l’intera sfera affettiva ed emozionale umana. Per questa ragione indicare l’omosessualità come una tendenza o una inclinazione, anziché un orientamento, presuppone la negazione di essa come condizione ascritta e il riconoscimento della possibilità che sia modificabile, con la sua riduzione semplificativa a mero comportamento sessuale di un individuo.

Il Tribunale di Catania nella sentenza riporta testualmente le espressioni contenute nelle “note cliniche” redatte dall’Ospedale militare che aveva sottoposto il protagonista di questa vicenda a visita, dalle quali risulta che lo stesso “mette in atto atteggiamenti seduttivi. Durante il colloquio si atteggia a donna, ritocca il trucco, sorride spesso. Afferma di non poter effettuare il servizio di leva perché le “sue esigenze di privacy non verrebbero rispettate in un contesto di uomini”. Afferma di “vivere bene” il suo “essere donna psicologico” in un “corpo da uomo”, di sentirsi accettato dall’ambiente familiare”.

Queste note indicano che il giovane, per come si rappresenta, potrebbe essere affetto da un disturbo dell’identità di genere. Il disturbo dell’identità di genere è cosa diversa dall’orientamento sessuale. La donna lesbica, per esempio, si riconosce nel suo sesso biologico e non intende cambiarlo o non prova sofferenza per il fatto di essere donna. La stessa cosa vale per l’uomo gay. Questa precisazione serve ad eliminare il rischio che, leggendo la sentenza, si mantenga una confusione tra tali distinte condizioni − anche se potrebbero essere presenti contemporaneamente nella stessa persona − o che si alimenti un antico pregiudizio che considera le persone omosessuali come effemminate o “mezzi maschi”, dal momento che nel corso dell’intera sentenza l’attore viene semplicemente indicato come omosessuale.

A prescindere da questa precisazione, tuttavia, le conclusioni del Tribunale, sia che si tratti di persona con un disturbo dell’identità di genere, sia di persona omosessuale, rimangono allo stesso modo corrette e valide, perché in entrambi i casi non sussisterebbe alcun difetto psico-fisico che potrebbe giustificare il ritiro o la revisione della patente di guida.

3. L’IDONEITÀ PSICOFISICA AL SERVIZIO MILITARE

Il servizio obbligatorio di leva è stato sospeso a decorrere dal 1° gennaio 2005, giusto disposto dell’art. 1, comma 1, della l. 23 agosto 2004, n. 226, ed il servizio militare è stato riservato ai soli volontari e militari di carriera.

Lo svolgimento del servizio militare è sempre stato subordinato al preventivo accertamento della idoneità psico-fisica del giovane alla vita militare, come regolato da disposizioni tecniche, che sono state aggiornate e riviste nel corso degli anni. Il più recente “Regolamento recante norme in materia di accertamento dell’idoneità al servizio militare” è stato approvato con decreto del Ministero della Difesa del 4 aprile 2000, n. 114, in attuazione dell’art. 1, comma 5, della l. 20 ottobre 1999, n. 380, e contiene l’allegato elenco delle imperfezioni e delle infermità che sono causa di non idoneità al servizio militare. In particolare, tra quelle rubricate come infermità psichiatriche, la lettera i) dell’art. 16 contempla “le parafilie e i disturbi dell’identità di genere”, secondo una formulazione adottata per la prima volta con il nuovo elenco delle imperfezioni e delle infermità introdotto dal precedente decreto del Ministero della Difesa del 26 marzo 1999. Nella formulazione anteriore, invece, risalente al decreto del 29 novembre 1995, si ritrovava, sempre tra le malattie psichiatriche, l’art. 30, lettera “c) I disturbi dell’identità di genere (disturbi della sessualità)”.

Questa anteriore formulazione, a sua volta, ne aveva sostituita un’altra precedente di cui al Decreto del Presidente della Repubblica del 2 settembre 1985, n. 1008, il quale agli artt. 40 e 41, contemplava tra le malattie psichiche causa di inidoneità al servizio militare, le “personalità sessualmente deviate” e “le personalità caratteropatiche” tra le quali venivano inserite le “devianze sessuali”.

Va evidenziato che successivamente all’entrata in vigore del decreto ministeriale del 26 marzo 1999, con determinazione dirigenziale della Direzione Generale della sanità militare, secondo quanto disposto dallo stesso decreto ministeriale, era stata approvata una direttiva tecnica (2-MA.DOC) contenente “Avvertenze e criteri diagnostici applicativi riguardanti le imperfezioni ed infermità contenute negli articoli dell’elenco”. Quest’ultima, tra le avvertenze relativa alle inidoneità con causa psichiatrica, dopo la lettera “i) le parafilie e i disturbi dell’identità di genere” affermava: “Il comportamento omosessuale viene preso in considerazione qualora dovesse determinare situazioni cliniche di sofferenza soggettiva o di disfunzionamento relazionale o sociale (disadattamento, disturbi d’ansia, distimici, etc.) oppure qualora sia espressione sintomatica di disturbi psichiatrici primari, per i quali si applicherà il comma relativo al disturbo accertato” (avvertenza riprodotta allo stesso modo anche nella successiva direttiva tecnica del 19 aprile 2000).

Sulla scorta dell’insieme delle disposizioni normative e regolamentari richiamate e che si sono succedute nel tempo, è possibile fare le seguenti riflessioni:

1) le persone transessuali potrebbero non essere riconosciute idonee a svolgere il servizio militare. Specifica, infatti, il decreto n. 114/2000 “In ogni caso i predetti disturbi [tra cui quello dell’identità di genere] devono essere tali da limitare significativamente il soggetto nell’assolvimento dei compiti previsti dal servizio militare”;

2) le persone con orientamento omosessuale non possono essere riformate o dispensate in quanto tali, non trattandosi né di una condizione patologica né di un disturbo del comportamento;

3) nella terminologia volutamente generica utilizzata dagli elenchi ministeriali delle imperfezioni e delle infermità, fino al 1995 (disturbi della sessualità; devianze sessuali) è riscontrabile l’atteggiamento di incertezza che si aveva nei confronti dell’omosessualità, anche se mai espressamente indicata. Questa incertezza era riflesso del dibattito medico-scientifico internazionale, arrivato a maturazione anch’esso, nell’intero occidente, solo alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, e che ha trovato apicale espressione nella decisione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (1991) di eliminare l’omosessualità dall’elenco dei disturbi psichiatrici, come si è già detto innanzi (11).

Nel provvedimento adottato dall’Autorità militare, nei confronti dell’attore, e riprodotto nella sentenza del Tribunale di Catania, è scritto che “è stato “riformato ai sensi dell’art. 16, lett. i), del d.m. n. 114 del 4 aprile 2000” con esonero permanente dal servizio militare per “disturbo dell’identità sessuale””.

Alla luce del decreto da noi correttamente citato in precedenza, emerge più chiaramente l’elemento di confusione fatto rilevare al punto precedente. L’art. 16, lett. i), fa riferimento al “disturbo dell’identità di genere”, mentre da nessuna parte nell’elenco dei disturbi ricorre la dizione “disturbo dell’identità sessuale” quale causa di un provvedimento di inidoneità. Né dal provvedimento dell’Ospedale militare emergono altri elementi utili a precisare la condizione personale del giovane o le motivazioni per cui è stato riformato.

4. LA SENTENZA N. 2353/2005 DEL TAR SICILIA

Prima di rivolgersi al Tribunale, l’attore aveva proposto ricorso al TAR Sicilia, Sez. Catania, chiedendo l’annullamento del provvedimento con cui l’Ufficio Provinciale della Motorizzazione Civile aveva disposto, ai sensi dell’art. 128 cod. str., la revisione della sua patente di guida. Questo provvedimento era stato adottato dalla Motorizzazione civile sulla scorta di una segnalazione con la quale l’Ospedale militare, che aveva sottoposto a visita il ricorrente, comunicava che questi era “risultato non essere in possesso dei requisiti di idoneità psicofisica legalmente richiesti per la condotta di automezzi”.

Il TAR in prime cure accoglieva l’istanza cautelare di sospensione del provvedimento della Motorizzazione (ordinanza n. 159/2002) e all’esito del procedimento, con sentenza del 7 dicembre 2005, n. 2353, lo annullava per vizio di violazione di legge.

Osservava il TAR che l’art. 128 cod. str. attribuisce alla motorizzazione il potere di sottoporre a visita medica o ad esami di idoneità i titolari di patente di guida qualora sorgano dubbi sulla persistenza nei medesimi dei requisiti fisici e psichici prescritti per il possesso del titolo; che l’art. 119 dello stesso Codice, nel disciplinare i requisiti fisici e psichici prescritti per il conseguimento della patente di guida, dispone che non possono ottenere il titolo coloro che siano affetti da malattia fisica, psichica, deficienza organica o minorazione psichica, anatomica o funzionale tale da impedire di condurre con sicurezza veicoli a motore; che l’art. 329, appendice II, del Regolamento di esecuzione del Codice della strada, nello specificare quali siano le malattie invalidanti, alla lettera E) Malattie Psichiche, elenca “malattie, traumatismi, postumi di interventi chirurgici sul sistema nervoso centrale o periferico o colpito da ritardo mentale grave o che soffrono di psicosi o di turbe della personalità, quando tali condizioni non siano compatibili con la sicurezza della guida”. Riteneva il TAR, quindi, che “le preferenze sessuali di un individuo non rientrano in nessuna delle nozioni della scienza medica che la norma prende in considerazione ai fini della capacità di guida e non rappresentano meno che mai “malattia psichica””. Precisava, infine, che dalla documentazione esibita non emergeva che il ricorrente fosse stato riconosciuto affetto da altre specifiche ed individuate problematiche psichiche − a parte la tale ritenuta, per errore, omosessualità − poste a fondamento del provvedimento di riforma e che potessero essere effettivamente incompatibili con la sicurezza della guida.

5. IL RISARCIMENTO DEL DANNO

Di particolare interesse nella decisione è la questione della risarcibilità del danno non patrimoniale subito a causa delle gravi violazioni di legge operate dalla P.A. Ritiene il Tribunale che i comportamenti assunti dalle due Amministrazioni dello Stato − quella della Difesa per aver inviato l’esito dell’accertamento sanitario e quello dei Trasporti per aver disposto la revisione della patente di guida − “ove pure non dolosi, [sono] certamente gravemente colposi”, dal momento che è risultato non vero che all’esito dell’esame presso l’Ospedale militare l’attore non fosse risultato in possesso dei requisiti di idoneità psicofisica per la guida di automezzi, talché entrambi i provvedimenti risultano “privi di qualsiasi specifica motivazione, accedendo, dunque, direttamente a quell’esito diagnostico di “disturbo dell’identità sessuale” formulato dall’Ospedale Militare ed alla stregua del quale è stato riformato”. La conseguenza di questi comportamenti, secondo il giudicante, è stato l’aver provocato al giovane “un grave danno costituito dalla grave sofferenza morale”, già qualificato dal TAR come “grave pregiudizio morale” nell’ordinanza sospensiva del 2002, “cagionata dalla umiliante discriminazione subita proprio da parte della Amministrazione dello Stato che, al contrario, attesi la sua soggezione alla legge ed i suoi doveri di “imparzialità”” avrebbe dovuto agire nel rispetto della legge e denegare qualsivoglia discriminazione, e assolvere al compito “specificamente assegnatogli dalla Costituzione, “di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale” e, tra questi, le antiche prevenzioni verso l’omosessualità”. Ancora, che “il comportamento delle due Amministrazioni, ha invero, gravemente offeso ed oltraggiato la personalità del Sig. (A) in uno dei suoi aspetti più sensibili ed ha indotto nello stesso un grave sentimento di sfiducia nei confronti dello Stato, percepito non soltanto come “abbandonico””, ma nell’occasione anche come vessatorio.

Il Tribunale evidenzia in tal modo la sussistenza di un danno ingiusto e, fatte proprie tutte le motivazioni del TAR, riconosce che le due Amministrazioni dello Stato hanno discriminato l’attore a causa del suo orientamento sessuale. I loro comportamenti costituiscono diretta violazione dei principi di cui agli artt. 2 e 3, comma 1 e 2, Cost., di cui il Tribunale riconosce l’immediata precettività. In particolare, correttamente il giudicante colloca nell’art. 3 Cost. la protezione dell’individuo contro qualunque discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, richiamando a supporto dell’esistenza di tale protezione anche una serie di disposizioni di carattere sovranazionale, cui si farà cenno nel paragrafo successivo.

In tema di danno sono a tutti noti i mutamenti intervenuti negli ultimi anni e che hanno continuato ad essere oggetto di contrasto giurisprudenziale a livello di legittimità. Le Sezioni Unite civili, da ultimo con la sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008, hanno ribadito che secondo la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., il risarcimento di un danno non patrimoniale consegue a tutti i pregiudizi e le lesioni dei diritti inviolabili della persona costituzionalmente garantiti. Tale danno viene considerato risarcibile a prescindere dalla ricorrenza di una rilevanza penale del fatto illecito, come invece era necessario precedentemente, poiché l’art. 2059 c.c., letto in combinato disposto con l’art. 185 c.p., era coincidente con la tradizionale figura del danno morale soggettivo (12).

Il Tribunale civile di Catania ha correttamente riconosciuto nelle gravi condotte dell’Amministrazione Pubblica, la lesione di più valori di rango costituzionale inerenti alla persona: il diritto inviolabile della dignitas personae(13) e il diritto a non ricevere un trattamento deteriore dovuto ad una condizione personale.

Riguardo al momento risarcitorio, il giudicante non compie alcuna specifica indagine sulle conseguenze negative provocate dalle lesioni, ma riconosce, tuttavia, che c’è stato “un grave danno costituito dalla grave sofferenza morale” e dall’umiliante discriminazione inflitta all’attore.

Secondo la giurisprudenza, confermata dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 26972/2008, l’applicazione dell’art. 2059 richiede l’accertamento di tutti i presupposti dell’art. 2043 (14) ed esclude che possa affermarsi l’esistenza di un danno in re ipsa(15), che esoneri dalla prova positiva di esso, al di fuori dei casi in cui è la legge stessa ad ammetterlo. Non vanno sottaciute le particolari difficoltà che si incontrano nella prova dell’effettivo e concreto danno morale subito in caso di violazione di beni costituzionalmente garantiti. Per tale motivo, le Sezioni Unite, da ultimo citate, hanno sottolineato che quando il pregiudizio non patrimoniale non è biologico, ma concerne beni immateriali, la prova potrà darsi facendo ricorso alla prova testimoniale, documentale o presuntiva, ma il ricorso a quest’ultima è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Al giudice possono essere d’aiuto, quindi, presunzioni e ragionamenti inferenziali o valutazioni prognostiche. In casi gravi come quello in oggetto, può farsi ricorso al principio dell’id quod plerumque accidit, come per esempio sostenuto dalle Sezioni Unite della Cassazione civile nella sentenza n. 1339/2004, a proposito del danno morale per ingiustificata durata del processo, ritenuto non in re ipsa ma conseguenza normale in caso di violazione, anche se di breve durata: la sofferenza di un danno non patrimoniale per la lungaggine del processo, individuata nell’ansia e nel patema d’animo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere una obiettiva dimostrazione, onde l’interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi. Salvo nel singolo caso concreto dimostrare l’esistenza di circostanze che escludano che quelle conseguenze negative ci siano state.

Il Tribunale ha risarcito equitativamente il danno non patrimoniale in 100 mila euro, cifra non di poca rilevanza per questo tipo di danno, se si pensa che non è neppure parametrato o connesso con un danno biologico, che qui manca. La giurisprudenza ha precisato che non è necessaria da parte del giudice una descrizione minuziosa e particolareggiata degli elementi fondanti la decisione equitativa, purché dimostri di aver valutato tutti gli elementi allegati nel corso del processo (16). Nel caso di specie, oltre la valutazione del comportamento della Pubblica Amministrazione che ha causato “un grave danno costituito dalla grave sofferenza morale” e un umiliante discriminazione, il Tribunale ha preso in considerazione anche il fatto che l’attore, sottoposto a visita di revisione della patente come disposto dalla Motorizzazione, si è visto riconosciuto l’idoneità solo per un anno, talché “per relationem, deve ritenersi che il “disturbo della identità sessuale”, quivi [è] divenuto cronologicamente limitativo della idoneità alla guida”. Secondo il giudicante questo aspetto della vicenda ha avuto l’effetto di aumentare l’afflizione del giovane (17).

Non essendoci state allegazioni della parte né altre verifiche, sembrerebbe che il Tribunale di Catania abbia voluto commisurare il danno più alla grave condotta della Pubblica Amministrazione e alla lesione dei diritti costituzionalmente garantiti dell’attore in sé e per sé considerati, che all’entità del pregiudizio concreto da lui subito (18), in questo modo andando forse oltre la ritenuta funzione esclusivamente riparatoria della responsabilità civile (19).

6. L’ORIENTAMENTO SESSUALE NELLA LEGISLAZIONE E NELLA GIURISPRUDENZA

Il Tribunale di Catania ha correttamente individuato negli artt. 2 e 3 Cost. le fonti del divieto di discriminazione delle persone omosessuali, ma i dubbi che sono emersi a proposito della quantificazione del danno, sono un indice del fatto che in Italia oggi le disposizioni antidiscriminatorie a loro tutela sono insufficienti, quando non del tutto mancanti.

In Italia, la prima legge che ha introdotto una tutela a favore delle persone omosessuali contro le discriminazioni è stato il d.lgs n. 216/2003, che trova applicazione però solo nell’ambito dei luoghi di lavoro. Si tratta del recepimento di una direttiva europea (20) che oltre a contenere il divieto di discriminare sulla base dell’orientamento sessuale, appronta una tutela giurisdizionale rafforzata in favore di chi subisce discriminazioni dirette o indirette. Essendo stato aperto dalla Commissione europea un procedimento di infrazione a causa del non corretto recepimento della direttiva, il Governo italiano è intervenuto con l’art. 8-septies del d.l. n. 59/2008 apportando modifiche al decreto legislativo. Nonostante le modifiche, purtroppo, ancora manca l’inversione dell’onere della prova a favore dei soggetti discriminati, come richiesto dalla direttiva, ma merita di essere segnalata l’eliminazione della ingiustificata sostanziale non applicazione del divieto nelle forze armate e nei servizi di polizia.

Al momento mancano altre disposizioni che vietino espressamente la discriminazione basata sull’orientamento sessuale, anche se in sede comunitaria si sta discutendo dell’approvazione di una direttiva che completi la direttiva 2008/78/CE e contenga un divieto generale (21). La competenza dell’Unione di adottare una legislazione antidiscriminatoria ha la sua fonte nell’art. 13 del Trattato che istituisce la Comunità Europea (art. 19 nella nuova versione del Trattato sul funzionamento dell’Unione), il quale espressamente prevede questa possibilità.

Il divieto di qualsiasi forma di discriminazione e in particolare di quella fondata sull’orientamento sessuale si ritrova, invece, nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione (Carta di Nizza) che, quando dovesse entrare in vigore il Trattato di Lisbona, avrà lo stesso valore giuridico dei trattati, superando finalmente il molto dibattuto tema della natura vincolante o meno delle disposizioni della Carta. Attualmente, al riguardo, si è comunque giunti alla conclusione che la Carta si deve considerare già come un documento avente valenza giuridica e non solo politica, dal momento che è stato dimostrato che è frequentemente applicata dai giudici nella loro attività decisionale (22).

Oltre lo scarno quadro legislativo che si è presentato, va ricordato che la Convenzione europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) protegge le persone omosessuali dalla discriminazione nell’ambito dell’area di protezione assicurata dagli artt. 8 e 14 della Convenzione, rispettivamente relativi al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione (23). Quest’ultimo divieto, tuttavia, per quanto riguarda l’Italia vale solo negli ambiti di tutela coperti dalla stessa Convenzione e non si riferisce al godimento di ogni diritto disposto da una qualsiasi legge, non avendo l’Italia ancora ratificato il protocollo XII della Convenzione (24).

Vanno anche ricordati i numerosi interventi del Parlamento europeo che richiedono la parità di diritti per le persone omosessuali e per le coppie dello stesso sesso (25) e chiedono un impegno concreto per combattere l’omofobia (26).

Il Tribunale di Catania richiamando gli indici normativi sovranazionali che impongono la tutela delle persone omosessuali ha fatto riferimento alle fonti sopra mentovate, ma ha altresì richiamato precedenti della giurisprudenza italiana, nei quali è stato riconosciuto che la condizione omosessuale non può essere causa di discriminazione in nessun caso.

Il Tribunale richiama la Cassazione laddove ha affermato essere “del tutto condivisibile l’affermazione […] secondo la quale l’omosessualità va riconosciuta “come condizione dell’uomo degna di tutela, in conformità ai precedenti costituzionali”, assunto da cui discende che la libertà sessuale va “intesa anche come libertà di vivere senza condizionamenti e restrizioni le proprie preferenze sessuali” in quanto espressione del diritto alla realizzazione della propria personalità, tutelato dall’art. 2 Cost.” (27). E richiama altresì il Tribunale di Napoli, che ha correttamente ritenuto: l’omosessualità “è una condizione personale, e non certo una patologia, così come le condotte/relazioni omosessuali non presentano, di per sé, alcun fattore di rischio o di disvalore giuridico, rispetto a quelle eterosessuali” (28).

Al decidente è pertanto chiaro che il grado di tutela da riconoscere ad un cittadino omosessuale non può essere diverso da quello riconosciuto ad altri soggetti che in virtù di una condizione personale sono vittime di un trattamento deteriore. A riprova di ciò, v’è il fatto che a fondamento della propria decisione il Tribunale pone direttamente gli artt. 2 e 3 Cost. che non conoscono alcun limite di carattere soggettivo.

Non va dimenticato, in conclusione, che il diritto è un grande fattore di rinnovamento sociale e al tempo stesso un meccanismo di promozione della persona. A tal proposito, rammentare il percorso accidentato dell’affermazione dei diritti delle donne o la storia recente delle leggi razziali definitivamente consegnata al passato dovrebbe ammonirci circa il fatto che la parabola dei diritti delle persone omosessuali non sarà diversa nel suo approdo finale, nonostante le difficoltà attuali.

Note:
(1) Sul punto anche per ulteriori riferimenti bibliografici si rinvia a Bilotta, Diritto e omosessualità, in Cendon (a cura di), I diritti della persona. Tutela civile, penale e amministrativa, Vol. I, Torino, 2005, 375-397.
(2) A tal proposito vedi le riflessioni di S. Bolognini, Diritto e omosessualità tra ottocento e seconda guerra mondiale, in Bilotta (a cura di), Le unioni tra persone dello stesso sesso, Milano, 2008, 41-50.
(3) American Psychiatric Association, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, 1996.
(4) World Health Organization, The ICD-10 Classification of Mental and Behavioural Disorders: diagnostic criteria for research, Ginevra, 1993, disponibile in inglese all’indirizzo web: www.who.int/classifications/icd/en/GRNBOOK.pdf; trad. it: World Health Organization, ICD-10 Decima revisione della classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali. Criteri diagnostici per la ricerca, Milano, 1995.
(5) Graglia, Le rappresentazioni dell’omosessualità nelle scienze della salute mentale: da patologia a disposizione erotico-affettiva, in Psicoterapia, 2001, 23.
(6) È difficile indicare quale sia stata la prima legge a contenere specificamente il divieto di discriminare una persona a causa del proprio orientamento sessuale. In alcuni Stati degli Stati Uniti già negli anni settanta del novecento una tale previsione ha cominciato ad introdursi nel settore lavorativo pubblico (Pennsylvania, 1975). Il primo Paese al mondo ad introdurre una legislazione che regolamenta i rapporti tra coppie dello stesso sesso è stata la Danimarca con la legge 7 giugno 1989, la n. 372, modificata dalla l. n. 360/1999.
(7) Sull’origine della parola omosessuale si veda Dall’orto, Le parole per dirlo… Storia di undici termini relativi all’omosessualità, in Sodoma, 1986, 3, 81, ora in http://www.giovannidallorto.com/culturaindex.html: “essa era nata originariamente come eufemismo. Fu infatti coniata nel 1869 da un militante austriaco di origine ungherese, lo scrittore Károly Mária Kertbeny (o prima del 1847, Karl Maria Benkert, 1824-1882) (che era “dottore” perché era laureato, e non perché fosse un medico, come oggi si legge fin troppo spesso!). Benkert creò homosexuel da una non troppo elegante mescolanza grecolatina di òmoios = “affine”, “analogo” e sexualis (“che ha a che vedere col sesso”) per indicare una persona che pur essendo in tutto uguale alle altre, sperimenta un’attrazione per individui del suo stesso sesso.In questo neologismo, apparso in un pamphlet che chiedeva l’abolizione delle leggi antiomosessuali prussiane, e nella sua voluta “asetticità” (che l’ha fatto ritenere da molti erroneamente un termine d’origine medico-psichiatrica) c’è un’intenzione polemica nei confronti del quasi coevo urningo/uranista coniato da Ulrichs, che invece sottendeva un intrinseca “differenza” di chi amava persone del suo stesso sesso, anche nel senso di una certa qual effeminatezza. Benkert al look virile ci teneva, e non poteva quindi che contrapporre un “suo” neologismo a quello di Ulrichs.I due termini si fecero, all’inizio, concorrenza, e fino alla fine del secolo scorso sembrò che urningo/uranista l’avesse vinta. Ma verso il 1890 omosessuale iniziò ad apparire in pubblicazioni scientifiche per “merito” di medici e psichiatri (soprattutto di Krafft-Ebing) che avevano direttamente o (più spesso) indirettamente letto le tesi di Benkert.Furono però i grandi scandali d’inizio secolo (Wilde, Krupp, Molthe-Eulemburg) a renderlo noto alla popolazione generale come termine nuovo e “discreto”, adatto anche ai giornalisti. Dalla letteratura scientifica lo prese poi la psicoanalisi, che rifiutava a priori l’idea di una “causa organica” dell’omosessualità, come quella sottintesa in urningo.Con il trionfo della psicoanalisi subito dopo la seconda guerra mondiale, urningo fu anzi completamente spazzato via”.
(8) Sul punto si rinvia a Rigliano, Amori senza scandalo. Cosa vuol dire essere lesbica e gay, Milano, 2001; e Zanotti, Il gay, dove si racconta come si è costruita l’identità omosessuale, Roma, 2005.
(9) Già la Corte costituzionale, nella sentenza n. 161/1985, in Giur. cost., 1985, 1173, pronunciandosi su una questione di legittimità costituzionale relativa alla l. n. 164/1982 in materia di rettificazione di attribuzioni di sesso, aveva dato atto che il legislatore italiano aveva fatto proprio un concetto di identità sessuale: “nuovo e diverso rispetto al passato, nel senso che ai fini di una tale identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero “naturalmente” evolutisi, sia pure con l’ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale. Presupposto della normativa impugnata è, dunque, la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando − poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa, ma quantitativa − il o i fattori dominanti”. Nella successiva sentenza n. 561/1987, in Giur. cost., 3534, la Corte ha avuto modo di riconoscere l’inserimento della sessualità tra i diritti inviolabili della persona umana, che l’art. 2 Cost. impone di garantire: “Essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana”.
(10) In Italia il transessualismo è regolato dalla l. n. 164/1982 che disciplina la materia della rettificazione di attribuzione di sesso.
(11) Il primo Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (1952) menziona l’omosessualità ne “I disturbi sociopatici di personalità”; nel 1968 il DSM II la cataloga come “deviazione sessuale” nella categoria “altri disturbi mentali non psicotici” insieme con la pedofilia, la necrofilia, il feticismo, il voyeurismo, il travestitismo, il transessualismo. Solo nel 1973, come detto, l’omosessualità scompare dall’elenco dei disturbi psichiatrici.
(12) Cass. civ., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, pubblicate su tutte le riviste tra cui Giur. it., 2004, 1129; in Nuova giur. civ. comm., 2004, I, 233; e in questa Rivista, 2003, 685, con nota di Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass., 8828/2003.
(13) Cass. civ., 28 novembre 1996, n. 10606, che contiene una precedente interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059. In dottrina, Ziviz, Il danno morale, in Personae danno, a cura di Cendon, Milano, 2004, I, 263 ss., e sul concetto di dignità Bilotta, Diritto e omosessualità, cit., 377.
(14) Riconosciuta come norma primaria da Sez. Un. civ., 22 luglio 1999, n. 500; Cass. civ., 30 novembre 2000, n. 15330, in Rep. Foro it., 2000, voce Danni civili, n. 196.
(15) Contra App. Milano, 12 aprile 2006, in questa Rivista, 2006, 1904; App. Firenze, 29 agosto 2007, in Resp. civ., 2008, 377.
(16) Cass. civ., 16 giugno 2003, n. 9629, in Danno resp., 2004, con nota di G. Finocchiaro.
(17) Ziviz, in Il danno alla persona, op. diretta da Cendon e Baldassari, 2006, 255, scrive: “l’impossibilità di procedere, per il danno morale, ad una valutazione monetaria sulla base di parametri offerti dal mercato ha sollevato − da sempre − seri dubbi quanto alla concreta possibilità di azionare la responsabilità civile a ristoro di un simile pregiudizio”. In dottrina è stato anche sostenuto che il nuovo statuto del danno morale deve rappresentare un rimedio elastico, tendenzialmente preposto a dare tutela sotto un profilo deterrente, punitivo, laddove gli estremi del comportamento illecito lo richiedano. Sul danno morale soggettivo si veda anche Monateri, La responsabilità civile, 1998, 305.
(18) Cass. civ., 19 gennaio 2007, n. 1183, in questa Rivista, 2007, 1892, con nota di Ciaroni, Il paradigma della responsabilità civile tra tradizione e prospettive di riforma; in Foro it., 2007, I, 1460, con nota di Ponzanelli, Danni punitivi: no grazie; e osservazioni di Palmieri; e in Corr. giur., 2007, 497, con nota di Fava; Cass. civ., 7 giugno 2000, n. 7713, in Corr. giur., 2000, 873, con nota di De Marzo; in dottrina sulla funzione punitiva della sanzione civile vedasi ex multisBaratella, Le pene private, 2006; Di Bona De Sarzana, in Il “nuovo” danno non patrimoniale, a cura di Ponzanelli, 2004, 95; Grassi, Il concetto di danno punitivo, in Tagete, marzo 2000, 107; Danovi, I danni punitivi e la responsabilità aggravata, in Studio Legale, 2000, 3; Cendon, Il profilo della sanzione della responsabilità civile, in Contratto impr., 1989, 891; Gallo, Pene private e responsabilità civile, 1996. Inoltre, Vettori, La responsabilità civile tra funzione compensativa e deterrente, in www.personaemercato.it, 2008, in particolare scrive l’autore che “Le opinioni critiche pongono in discussione anzitutto l’idea che la “responsabilità civile debba riparare e basta” e che ogni diversa funzione sia addirittura contraria all’ordine pubblico. Ciò perché da tempo si discute anche in Europa della funzione del danno come di un mezzo di generale prevenzione degli illeciti e perché è sempre più evidente nella legislazione speciale italiana una tendenza che guarda non solo alla posizione del danneggiato “ma anche a quella danneggiante (in modo da poter incidere incisivamente sulla sua condotta futura)”.
(19) Cass. civ., 19 gennaio 2007, n. 1183, cit.; Cass. civ., 27 giugno 2007, n. 14846, in questa Rivista, 2007, 2270, con nota di Chindemi.
(20) Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, in G.U.U.E., n. 303, del 2 dicembre 2000.
(21) Directive on implementing the principle of equal treatment between persons irrespective of religion or belief, disability, age or sexual orientation, atto Commissione COM(2008) 426 final 2008/200140 (CNS) in http://ec.europa.eu/prelex/detail_dossier_real.cfm?CL=en&DosId=197196.
(22) In questo senso, Celotto-Pistorio, L’efficacia giuridica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Rassegna giurisprudenziale 2001-2004), in Giur. it., 2005, 247, ed ivi amplia bibliografia. Per i richiami fatti dalla giurisprudenza si veda da ultimo Cass. pen., 1 agosto 2008, n. 32423.
(23) Le sentenze della Corte relative alla tutela dei diritti delle persone omosessuali sono numerose. Tra le più rilevanti: E.B. v. France, 2008, che riconosce il diritto di adozione alla ragazza single lesbica; B.B. v. The United Kingdom, 2004, che stabilisce il non potersi introdurre età del consenso differenti per i rapporti omosessuali; Karner v. Austria, 2003, che stabilisce che i conviventi dello stesso sesso non possono essere discriminati rispetto a quelli di differente sesso; Beck, Copp and Bazeley v. The United Kingdom, 2002, Smith and Grady v. The United Kingdom, 1999, Lustig-Prean and Beckett v. The United Kingdom, 1999, che riconoscono il divieto di discriminazione nelle forze armate; Salgueiro Da Silva Mouta v. Portugal, 1999, che riconosce il diritto del genitore omosessuale ad essere affidatario del proprio figlio; Case of Dudgeon v. The United Kingdom, 1981, che afferma il divieto di incriminazione delle pratiche omosessuali tra adulti consenzienti.
(24) Protocollo Addizionale n. 12 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Roma il 4 novembre 2000, entrato in vigore il primo aprile 2005. art. 1 − Divieto generale di discriminazione “Il godimento di ogni diritto disposto da una legge sarà garantito senza alcuna discriminazione per motivi di sesso, razza, colore, lingua, religione, opinione politica o altra opinione, origine nazionale o sociale, associazione ad una minoranza nazionale, proprietà, nascita o ogni altra condizione”.
(25) Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 febbraio 1994.
(26) Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2006.
(27) Cass. civ., 25 luglio 2007, n. 16417.
(28) Trib. Napoli, 28 giugno 2006, in Fam. dir., 2007, 621; confermata da App. Napoli, 11 aprile 2007, n. 1067, in Fam. pers. succ., 2008, 234; riconfermata da Cass. civ., 18 giugno 2008, n. 16593.

(*pubblicato in Responsabilita’ Civile e Previdenza, fasc.12, 2008, pag. 2536)

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