Tribunale di Lucca, ordinanza del 14 gennaio 2022
Sezione civile
In camera di consiglio, composto dai magistrati:
Dott.ssa Anna Martelli Presidente
Dott. Giampaolo Fabbrizzi Giudice est.
Dott. Giovanni Piccioli Giudice
ha pronunciato la seguente
O R D I N A N Z A
Nella causa civile n. 3349/2021 R.G., promossa da:
X, elettivamente domiciliato in Pisa. Via Manzoni 10, rappresentato e difeso dall’Avv. Cristina Polimeno.
Attore
con l’intervento del Pubblico Ministero
OGGETTO: rettificazione anagrafica di attribuzione del sesso ed autorizzazione all’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali.
§ § §
§1. – Con atto di citazione ritualmente notificato da X – premettendo: di manifestare, da tempo risalente, un modo di essere che si estrinseca con caratteri fenotipici del genere femminile, tali da integrare una disforia di genere che necessita l’adeguamento dell’identità fisica a quella psichica; che il processo interiore di progressiva appartenenza ad un sesso diverso da quello risultante dagli organi riproduttivi è divenuto ormai irreversibile; che, come risulta dalla relazione psicologica conclusiva eseguita dal consultorio trans genere di Torre del Lago (LU), l’attore, secondo i dettami del DSM-V, presenta disforia di genere di tipo FtM, cioè a dirsi una condizione di transessualismo, di cui è pienamente consapevole e che lo identifica irrevocabilmente nel genere femminile; che l’attore ed il sig. Y hanno contratto un’unione civile nel corso dell’anno 2019 ed entrambi hanno interesse alla conservazione del vincolo familiare attraverso l’automatica conversione in matrimonio per effetto della rettificazione anagrafica del sesso dell’attore – ha adito l’intestato Tribunale al fine di sentir pronunciare l’autorizzazione all’intervento chirurgico strumentale alla riassegnazione del sesso da maschile in femminile; disporre, presso il Comune di nascita (Lucca) la rettificazione dei dati anagrafici riguardanti il sesso, con l’attribuzione del nome di X, in luogo di Ailton; ordinare all’ufficiale di stato civile di procedere all’iscrizione del matrimonio tra X e Y nel registro degli atti di matrimonio.
§2. – Nel contraddittorio del solo Pubblico Ministero – non essendo l’attore legato da rapporti di coniugio o di parentela con prole – omessa ogni ulteriore attività istruttoria, la causa è stata trattenuta in decisione all’udienza del 15 ottobre 2021, previa rinuncia alla concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c.
§3. – Il Tribunale reputa siano rilevanti e non manifestamente infondate la questioni di legittimità costituzionale di cui al combinato disposto degli artt. 1, comma 26, L. 20 maggio 2016, n. 76, 31, commi 3 e 4 bis, D.Lgs. 1° settembre 2011, n. 150 e 70 octies, comma 5, D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, in relazione agli artt. 2, 3, 117 Cost. – e, quali parametri interposti ai sensi di quest’ultima disposizione, agli artt. 8, 14 CEDU – per i motivi che qui appresso si vanno ad esplicitare.
§4. – Rilevanza della questione di legittimità costituzionale.
§4.1 – L’analisi del quadro normativo di riferimento deve muovere anzitutto dalla ricognizione delle disposizioni fondamentali della L. 164 del 1982, recante “Norme in materia di rettificazione del sesso” e dei principi ad essa immanenti, che esprimono, in subiecta materia, il diritto vivente.
L’art. 1, 1° comma, come modificato dall’articolo 110, 4° comma, del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, recante «Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127», dispone che: “La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.
Di contro, la disciplina del procedimento e, segnatamente, dell’autorizzazione all’intervento chirurgico, recata in origine, rispettivamente, negli abrogati artt. 2 e 3 della L. 164 del 1982, è stata riscritta dall’art. 31 D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69», ove, per quanto qui interessa, al 4° comma, si dispone che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il Tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato […]”.
§4.1.1 – Ora, è del tutto evidente che tra intervento chirurgico modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari ed acquisizione di una nuova identità di genere è astrattamente teorizzabile una relazione di priorità logico-giuridica del primo rispetto alla seconda. Il che, tuttavia non è, in base ai più recenti approdi tanto della giurisprudenza costituzionale, quanto della corte regolatrice, che hanno entrambe affrontato ex professo la vexata quaestio circa la necessità o meno del preventivo ricorso all’intervento chirurgico volto a modificare i caratteri sessuali primari al fine di rettificare anagraficamente lo stato sessuale.
Con sentenza n. 15138 del 2015, la Suprema Corte ha ritenuto che “.. l’interesse pubblico alla definizione certa dei generi […] non richiede il sacrificio del diritto alla conservazione della propria integrità psicofisica sotto lo specifico profilo dell’obbligo dell’intervento chirurgico inteso come segmento non eludibile dell’avvicinamento del soma alla psiche. L’acquisizione di una nuova identità di genere può essere il frutto di un processo individuale che non ne postula la necessità, purché la serietà ed univocità del percorso scelto e la compiutezza dell’approdo finale sia accertata, ove necessario, mediante rigorosi accertamenti tecnici in sede giudiziale”.
È stato pertanto con ciò escluso che il combinato disposto degli artt. 1 L. 164 del 1982 e 31 D.Lgs. 150 del 2011, obbedisca ad una logica che immagina l’intervento chirurgico al modo di una pre-condizione imprescindibile della pronuncia di mutamento del sesso.
Il principio è stato peraltro ribadito anche dalla Corte Costituzionale, cui era stata devoluta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della L. 164/82, in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU.
Il Giudice delle Leggi, nel dichiarare non fondata la questione, ha precisato che: “l’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un’impostazione che − in coerenza con supremi valori costituzionali − rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere. L’ampiezza del dato letterale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 e la mancanza di rigide griglie normative sulla tipologia dei trattamenti rispondono all’irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive.” (cfr. Corte cost. sent. n. 221 del 2015).
In base al diritto vivente, dunque, l’intervento chirurgico modificativo dei caratteri sessuali primari non integra un “prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione”, bensì un “possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”(v. ancora Corte cost. 221/2015).
E’ peraltro da porre in rilievo che la stessa giurisprudenza di legittimità, sottolineando l’importanza del percorso individuale volto alla composizione del conflitto tra percezione interiore dell’individuo ed apparato riproduttivo biologico, ha precisato “… che il riconoscimento giudiziale del diritto al mutamento di sesso non può che essere preceduto da un accertamento rigoroso del completamento di tale percorso individuale da compiere attraverso la documentazione dei trattamenti medici e psicoterapeutici eseguiti dal richiedente, se necessario integrati da indagini tecniche officiose volte ad attestare l’irreversibilità personale della scelta” (Cass. sent. n. 15138/2015).
§4.1.2 – Nel caso di specie l’attore non ha effettuato alcun intervento demolitivo – ricostruttivo degli organi sessuali, ma soltanto una terapia ormonale, ed ha chiesto la rettifica dell’attribuzione di sesso nei registri di stato civile assumendo di aver acquisito l’identità di genere femminile sperimentando un processo di natura psicologica che attesta la definitività ed irreversibilità di tale orientamento personale, indipendentemente dalle caratteristiche anatomiche degli organi sessuali.
Alla stregua dei parametri di riferimento sopra elencati, ove le circostanze di fatto allegate trovassero riscontro nella documentazione in atti e nell’istruttoria in ipotesi espletabile, l’attore vanterebbe dunque, in abstracto, la legittima aspettativa all’acquisizione di una nuova identità di genere indipendentemente dall’intervento chirurgico di adeguamento dei caratteri sessuali primari.
§4.2 – E’ in un tale contesto che il X, in connessione logico-giuridica con la richiesta rettificazione anagrafica del sesso, deduce di aver contratto con il sig. Y, nel corso dell’anno 2019, un’unione civile, il cui vincolo familiare sottostante l’attore suppone dovrebbe sopravvivere a seguito della pronunciata rettificazione – sia pur nella veste che l’ordinamento concepisce onde riconoscere valenza giuridica al vincolo tra persone di sesso diverso – ordinando all’ufficiale dello stato civile del Comune di Lucca, ove l’unione è stata costituita, di procedere tout court all’iscrizione nel registro degli atti di matrimonio dell’unione matrimoniale tra X e Y, iscrizione legittimata in base alla premessa assiomatica che alcun divieto, in seguito all’acquisto di una nuova identità di genere di uno dei componenti, sarebbe decretato dall’ordinamento vigente a svantaggio della coppia.
Sennonché, contrariamente a quanto l’attore professa, l’interdipendenza tra pronuncia di rettificazione e sorti dell’unione civile in precedenza contratta tra persone dello stesso sesso non forma oggetto di lacuna normativa.
§4.2.1 – Ed infatti, l’art. 1, comma 26, L. n. 76 del 2016, recante «Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze», sancisce, senza null’altro aggiungere, ovvero puntualizzare, che «la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso».
A tale lapidaria enunciazione fa da contraltare la speculare disciplina apprestata per l’ipotesi inversa, cioè a dirsi laddove la coppia nell’ambito della quale uno dei componenti abbia acquistato una nuova identità di genere sia unita in matrimonio. Il successivo comma 27 stabilisce infatti al riguardo che «alla rettificazione anagrafica di sesso, ove i coniugi abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, consegue l’automatica instaurazione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso».
§4.2.2 – Preme a tale riguardo precisare che solo al ricorrere di quest’ultima evenienza – cioè a dirsi in caso di rettificazione del sesso di uno dei coniugi – la disciplina sostanziale incontra una corrispondenza proiettata nella dimensione del processo, strumentale alla realizzazione di una piena effettività della tutela conservativa della formazione familiare alla base del vincolo giuridico preesistente.
Stabilisce infatti in proposito l’art. 31, comma 4 bis, D.Lgs. n. 150 del 2011, inserito, dall’art. 7 del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, che «fino alla precisazione delle conclusioni la persona che ha proposto domanda di rettificazione di attribuzione di sesso ed il coniuge possono, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda, di costituire l’unione civile, effettuando le eventuali dichiarazioni riguardanti la scelta del cognome ed il regime patrimoniale. Il tribunale, con la sentenza che accoglie la domanda, ordina all’ufficiale dello stato civile del comune di celebrazione del matrimonio o di trascrizione se avvenuto all’estero, di iscrivere l’unione civile nel registro delle unioni civili e di annotare le eventuali dichiarazioni rese dalle parti relative alla scelta del cognome ed al regime patrimoniale». Con quest’ordine di idee è peraltro coerente comandare – come il comma 3 del citato art. 31 invero comanda – che solo al coniuge dell’attore – e non già all’altra parte dell’unione civile – sia notificato l’atto di citazione introduttivo del giudizio di rettificazione di attribuzione di sesso, alla stregua di una mera denuntiatio litis volta a provocare, all’interno del processo, l’eventuale espressione del consenso alla conversione del matrimonio in unione civile.
§4.2.3 – Ancora, nell’ambito della stessa matrice della consentita continuità (soltanto) tra matrimonio ed unione civile, quale opzione legislativamente accordata alla coppia al sopravvenire della rettificazione del sesso di uno dei coniugi, è ispirata la disciplina di adeguamento delle risultanze anagrafiche dello stato civile al cospetto di una simile eventualità, che si coordina con l’espressione della concorde volontà dei coniugi di costituire l’unione civile in seno alla controversia di rettificazione del sesso di uno dei due, per il caso di accoglimento della domanda.
L’art. 70 octies, comma 5, del d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 – articolo aggiunto dall’articolo 1, comma 1, lettera t), del D.Lgs. n. 5 del 2017 – prevede che «nell’ipotesi di cui all’articolo 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, l’ufficiale dello stato civile del comune di celebrazione del matrimonio o di trascrizione se avvenuto all’estero, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, procede all’iscrizione dell’unione civile nel registro delle unioni civili con le eventuali annotazioni relative alla scelta del cognome ed al regime patrimoniale».
§4.2.4 – La normativa apprestata in tema di unioni civili si inserisce peraltro in un più ampio contesto ordinamentale, con il quale deve essere raccordata.
Il citato art. 1, comma 26, L. 76 del 2016, nella sua lapidaria formulazione, laddove prescrive l’ablazione del pregresso vincolo della coppia omoaffettiva in conseguenza della sentenza di rettificazione di sesso di uno dei contraenti (“…«determina» lo scioglimento dell’unione civile…”), rispecchia fedelmente il contenuto della corrispondente previsione dell’art. 31, comma 6, D.Lgs. 150 del 2011 dettato in tema di matrimonio, che ricalca, trascurando la variante lessicale del verbo «determina», sostituito da «provoca», l’art. 4 della L. 164 del 1982, il quale recita che «la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso non ha effetto retroattivo. Essa provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio celebrato con rito religioso. Si applicano le disposizioni del codice civile e della legge 1° dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni».
La tecnica legislativa utilizzata nel comma 26 dell’art. 1 L. 76 del 2016 è consistita nella formulazione di una disposizione autonoma, non già nell’impiego del rinvio nei limiti della compatibilità, sia pur altrove sperimentato (v. commi 20 e 25 art. 1 L. 76 del 2016), ad altre norme vigenti onde estenderne il campo applicativo alla disciplina delle unioni civili.
In quest’ambito, è peraltro eloquente l’omesso richiamo dell’art. 3, comma 1, n. 2), lett. g), L. 1° dicembre 1970, n. 898, recante «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio», che parimenti regola le implicazioni della rettificazione del sesso di uno dei coniugi nell’unione matrimoniale, prevedendo che «lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può essere domandato da uno dei coniugi … nei casi in cui … è passata in giudicato la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso a norma della legge 14 aprile 1982, n. 164».
La disputa sull’interpretazione di tale disposto, che ha acceso un fervido confronto dialettico sull’automaticità del divorzio, a prescindere da una domanda di parte, per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei coniugi, è stata risolta, nel senso della configurabilità nell’ordinamento del c.d. «divorzio imposto», da Cass. ord. n. 14329 del 2013 – cui, sul punto, si è allineata Corte cost. sent. n. 170 del 2014, sulla quale ci intratterrà più diffusamente infra – vuoi perché l’eterosessualità dell’archetipo matrimoniale importa che sia sottratta ai coniugi ogni possibilità di scelta sulla conservazione del vincolo una volta intervenuta la rettificazione di sesso di uno di essi, vuoi perché con la L. 6 marzo 1987, n. 74 – il cui art. 7, comma 1, ha aggiunto la lett. g) all’art. 3, comma 1, n. 2), L. 898 del 1970 – si è inteso soltanto procedere alla razionalizzazione del sistema preesistente, caratterizzato da un regime giuridico ormai datato relativamente al diritto transitorio e all’instaurazione di un modello processuale più spedito ed efficiente.
Peraltro, a prescindere da quest’osservazione dirimente, l’inoperatività in subiecta materia dell’art. 3, comma 1, n. 2), lett. g), L. 898 del 1970, neppure può essere recuperata attraverso la clausola di rinvio recata dal comma 20 dell’art. 1 della L. 76 del 2016, poiché a siffatto richiamo osta il criterio selettivo che ha ispirato il legislatore nei commi da 22 a 25 per estendere l’applicabilità solo di alcune norme della legge sul divorzio piuttosto che di altre – così come in termini di individuazione selettiva delle cause di scioglimento del matrimonio, nel comma 23, si richiamano solo talune cause di scioglimento elencate dall’art. 3 della L. 898 del 1970 – palesando in tal guisa la volutas legis di non attuare un’integrale equiparazione tra matrimonio ed unione civile in termini di scioglimento del vincolo.
Se dunque l’art. 3, comma 1, n. 2), lett. g), L. 898 del 1970 resta estraneo alla regolazione dello scioglimento delle unioni civili – ovvero sia da interpretare nel senso di non ostare all’automaticità della dissoluzione del vincolo al pronunciamento della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei contraenti dell’unione – il corollario che se ne deve desumere, in connessione con la tranciante formulazione del comma 26 dell’art. 1 della L. 76 del 2016 – animato dall’idea che il vincolo nascente dall’unione civile perduri fintantoché perdura l’omogeneità di sesso dei contraenti – è nel senso dell’automatica caducazione dell’unione civile con il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei contraenti.
L’inoperatività della citata lett. g) – che contiene l’esplicito riferimento al passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso – non può invero portare con sé una diversità di disciplina in punto di proiezione dell’efficacia della sentenza di rettificazione sull’unione civile. La gravità degli effetti derivanti dalla dissoluzione del vincolo non appare a ben riflettere suscettibile di ancoraggio alla provvisorietà di una sentenza non ancora coperta dalla stabilità del giudicato, di tal che l’unica soluzione plausibile è quella che fa decorrere l’automatico scioglimento dell’unione civile dall’immutabilità del provvedimento che dispone l’acquisto della nuova identità di genere.
Postulare l’automatico scioglimento dell’unione civile, come significa prescindere da un’espressa domanda di parte, così comporta inoltre che non sia necessaria una corrispondente pronuncia che abbia espressamente ad oggetto la cessazione del vincolo, sol che si consideri che il comma 26 dell’art. 1 della L. 76 del 2016 collega esplicitamente lo scioglimento dell’unione alla pronuncia della sentenza di rettificazione e che un responso simmetrico è rinvenibile per l’opposta fattispecie in cui la rettificazione di attribuzione di sesso riguardi uno dei coniugi, ove la giurisprudenza di legittimità ha affermato che «l’inclusione della lett. g) nell’articolo 3 della legge n. 898/1970 non comporta che lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio per effetto della rettificazione di attribuzione di sesso debbano essere inevitabilmente contenuti in una domanda giudiziale» (Cass. ord. n. 14329 del 2013).
§4.2.5 – La premesse appena svolte dischiudono dunque la rilevanza dei sospetti di illegittimità costituzionale della sopra riportata disciplina, sospetti che di qui ad un momento si andranno ad illustrare.
Appare invero del tutto evidente che una volta accertati i presupposti onde pronunciare la rettificazione del sesso dell’attore, all’accoglimento dell’espressa domanda volta a sentir ordinare all’ufficiale dello stato civile di procedere all’iscrizione del matrimonio tra X ed Y nell’apposito registro anagrafico osterebbe, insuperabile, il richiamato quadro normativo di riferimento, quadro che, per un verso, con la – tanto tranciante, quanto univoca – formulazione del comma 26 della L. 76 del 2016, codifica un rigido automatismo, che letteralmente non tollera eccezioni – viepiù se semanticamente contrapposto al successivo comma 27, deputato a regolamentare l’ipotesi inversa in cui la rettificazione del sesso riguardi uno dei coniugi – tra rettificazione e scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, senza alcuna possibilità di conversione in matrimonio; per altro verso, con una regolamentazione processuale che abilita esclusivamente la coppia coniugata ad esprimere la volontà affinché il matrimonio sia commutato, senza soluzioni di continuità, in unione civile, al pronunciamento della sentenza di rettificazione, implicitamente, ma inoppugnabilmente, impedisce alle parti dell’unione civile una speculare manifestazione di volontà per la conversione in matrimonio al presentarsi di una medesima evenienza; per altro verso ancora, ma cospirando nella medesima direzione, le disposizioni dell’ordinamento dello stato civile, nel disciplinare l’iscrizione dell’unione civile nel correlativo registro anagrafico, conoscono la possibilità che a tanto l’ufficiale civile provveda una volta ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei coniugi, nel mentre va registrata l’assenza di una corrispondente disciplina speculare qualora la rettificazione sia pronunciata nei confronti di uno dei membri dell’unione civile.
Non è inoltre inutile puntualizzare che alcun affievolimento della rilevanza della questione di legittimità costituzionale che l’intestato Tribunale viene a sollevare è dato predicare per il sol fatto che Y non abbia manifestato la volontà di unirsi in matrimonio con l’attore, in previsione della pronuncia di rettificazione del sesso. Ciò null’altro rappresenta infatti che un mero corollario applicativo delle preclusioni imposte dal sistema vigente, nel quale, nella pendenza del giudizio di cui all’art. 31 D.Lgs. 150 del 2011, ed in senso diametralmente opposto a quanto previsto per la coppia coniugata, al contraente dell’unione civile – al quale l’atto introduttivo del giudizio di rettificazione non deve essere neppure notificato – è inibito manifestare la volontà di contrarre matrimonio con l’altro componente il cui sesso sia stato anagraficamente rettificato, ovvero – il che è lo stesso – non risulta neppure astrattamente concepibile, nell’impianto della disciplina dell’unione civile, che ai componenti di quest’ultima, pronunciata la sentenza di rettificazione del sesso di una delle parti, sia consentito transitare automaticamente, previo consenso di entrambi e senza soluzioni di continuità, all’interno del vincolo matrimoniale.
In definitiva, gli artt. 1, comma 26, L. 76 del 2016, 31, commi 3 e 4 bis, D.Lgs. 150 del 2011 e 70 octies, comma 5, del d.p.r. n. 396 del 2000, sistematicamente interpretati, trovando applicazione nel caso di specie, cospirano univocamente nella direzione di precludere all’attore ed a colui con cui egli ha contratto un’unione civile, di esprimere un valido consenso onde unirsi in matrimonio, volta che, nei confronti del primo, venga pronunciata, all’esito del presente giudizio, la rettificazione dell’attribuzione del sesso, in tal guisa venendosi a configurare la mancanza del presupposto logico-giuridico affinché sia consentito impartire all’ufficiale dello stato civile, come richiesto dal X, l’ordine di iscrivere negli appositi registri anagrafici il matrimonio tra l’attore – la cui attribuzione di sesso abbia formato oggetto di rettifica – e Y.
§5. – Non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale. I parametri di costituzionalità: artt. 2, 3, 117 Cost.
§5.1 – Con riguardo agli artt. 2, 3, 117 Cost. – quest’ultimo in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 8, 14 CEDU – da vagliare congiuntamente in ragione della loro intima connessione con riguardo ai sospetti di illegittimità costituzionale della normativa in esame che si vanno prospettando, giova anzitutto muovere dalla considerazione, con precipuo riguardo al primo dei parametri elencati, che, in un’ideale linea di continuità con la consolidata giurisprudenza, vuoi costituzionale, vuoi di legittimità, che nel tempo ha reiteratamente inquadrato le convivenze di fatto “more uxorio” alla stregua di formazioni sociali – fonti non già soltanto di doveri natura morale o sociale, bensì anche di rapporti giuridici vincolanti – secondo il paradigma di cui all’art. 2 Cost. (a mero titolo esemplificativo, senza nessuna pretesa di esaustività, nella giurisprudenza costituzionale, v. Corte cost. sent. n. 237 del 1986 e n. 140 del 2009, sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 384 c.p.; sent. n. 404 del 1988, sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, L. 392 del 1978; ord. n. 313 del 2000, sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 2, lett. c) della Legge 6 marzo 1998, n. 40; sent. n. 394 del 2005, sulla questione di legittimità costituzionale degli artt. 261, 147 e 148, 2643, num. 8, 2652, 2653 e 2657 c.c.; ord. n. 192 del 2006, sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, lettera d), del Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; sent. n. 213 del 2016, sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 33, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104. Nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Cass. ord. n. 14746 del 2019 e n. 3505 del 2016, in tema di danno da perdita del rapporto parentale in favore del convivente more uxorio del defunto; sent. n. 10377 del 2017 e n. 7214 del 2013, in tema di detenzione qualificata dell’immobile destinato ad abitazione comune da parte del convivente non proprietario; n. 1266 del 2016 e n. 1277 del 2014, in tema di condizioni di inquadramento delle prestazioni eseguite da un convivente in favore dell’altro nell’ambito dell’adempimento di un’obbligazione naturale ex art. 2034 c.c.), la stessa Corte costituzionale, nel solco di un processo di omogeneizzazione, ha sperimentato un itinerario parallelo per le unioni omosessuali, affermando che per formazione sociale “… deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, quale stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri…” (Corte cost. sent. n. 138 del 2010).
In questo contesto, la Suprema Corte ha rimarcato che nelle unioni omosessuali va polarizzandosi un processo di costituzionalizzazione, attraverso il riconoscimento di un nucleo comune di diritti e doveri di assistenza e solidarietà propri delle relazioni affettive di coppia, nonché attraverso la riconducibilità di tali relazioni nell’alveo delle formazioni sociali dirette allo sviluppo, in forma primaria, della personalità umana. Un tale riconoscimento rende le unioni omosessuali meritevoli “… di un grado di protezione e tutela equiparabile a quello matrimoniale in tutte le situazioni nelle quali la mancanza di una disciplina legislativa determina una lesione di diritti fondamentali scaturenti dalla relazione in questione” (Cass. sent. n. 2400 del 2015).
Anche il legislatore ordinario, nel recepire la superiore elaborazione teorica, ha inteso sancire espressamente l’equiparazione tra unioni civili omosessuali e le aggregazioni sociali costituzionalmente protette e riconosciute. E’ significativo, al riguardo, che l’art. 1, comma 1, L. n. 76 del 2016, esordisca proclamando enfaticamente che «la presente legge istituisce l’unione civile tra persone dello stesso sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione…».
§5.2 – La protezione dell’anzidetto nucleo essenziale di diritti e doveri di assistenza e solidarietà è insuscettibile di retrocedere da tale contenuto minimo anche al cospetto del quadro convenzionale europeo, le cui norme di riferimento fungono da parametro interposto di costituzionalità ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. (cfr. Corte cost., sent. n. 348 e 349 del 2007).
A norma dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito, brevemente, “CEDU”) «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza».
Recita per contro l’art. 14 CEDU che «il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».
§5.2.1 – La Corte Europea dei diritti dell’uomo, con sentenza 24 giugno 2010, Schalk e Kopf c. Austria, in ordine all’interpretazione dell’art. 14 CEDU, in relazione all’art. 8, ha affermato che: 1) “è indiscusso nel presente caso che la relazione di una coppia omosessuale come i ricorrenti rientri nella nozione di vita privata nell’accezione dell’articolo 8. Tuttavia, alla luce dei commenti delle parti la Corte ritiene opportuno determinare se la loro relazione costituisce anche una vita familiare ” (p. 90); 2) “la Corte ribadisce la sua giurisprudenza radicata in materia di coppie eterosessuali, vale a dire che la nozione di famiglia in base a questa disposizione non è limitata alle relazioni basate sul matrimonio e può comprendere altri legami familiari di fatto, se le parti convivono fuori dal vincolo del matrimonio” (p. 91); 3) “in antitesi, la giurisprudenza della Corte ha accettato solo che la relazione emotiva e sessuale di una coppia omosessuale costituisca vita privata, ma non ha ritenuto che essa costituisca vita familiare, anche se era in gioco una relazione durevole tra partner conviventi. Nel giungere a tale conclusione, la Corte ha osservato che nonostante la crescente tendenza negli Stati Europei verso un riconoscimento giuridico e giudiziario di unioni di fatto stabili tra omosessuali, data l’esistenza di poche posizioni comuni tra gli Stati contraenti, questa era un’area in cui essi godevano ancora di un ampio margine di discrezionalità …. Nel caso di Karner …, relativo al subentro del partner di una coppia omosessuale nei diritti locativi del partner deceduto, che rientrava nella nozione di abitazione, la Corte ha esplicitamente lasciato aperta la questione di decidere se il caso riguardasse anche la vita privata e familiare del ricorrente” (p. 92); 4) “la Corte osserva che dal 2001 … ha avuto luogo in molti Stati Membri una rapida evoluzione degli atteggiamenti sociali nei confronti delle coppie omosessuali. A partire da quel momento un notevole numero di Stati Membri ha concesso il riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali … Certe disposizioni del diritto dell’UE riflettono anche una crescente tendenza a comprendere le coppie omosessuali nella nozione di famiglia …” (p. 93); 5) “data quest’evoluzione la Corte ritiene artificiale sostenere l’opinione che, a differenza di una coppia eterosessuale, una coppia omosessuale non possa godere della vita familiare ai fini dell’articolo 8. Conseguentemente la relazione dei ricorrenti, una coppia omosessuale convivente con una stabile relazione di fatto, rientra nella nozione di vita familiare, proprio come vi rientrerebbe la relazione di una coppia eterosessuale nella stessa situazione” (p. 94).
Nel recepire coerentemente tale interpretazione del quadro convenzionale, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che: (i) nell’art. 8, che sancisce il diritto alla vita privata e familiare, è senz’altro contenuto il diritto a vivere una relazione affettiva tra persone dello stesso sesso protetta dall’ordinamento (cfr., in motivazione, Cass. sent. n. 2400 del 2015); (ii) nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente la condizione di coppia, quale precipuo modo di essere del diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all’art. 8 CEDU, le persone dello stesso sesso conviventi in una stabile relazione di fatto possono adire il giudice per rivendicare, in specifiche situazioni correlate ad altri diritti fondamentali, un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata (Cass. sent. n. 4884 del 2012)
§5.2.2 – Nella successiva sentenza Hamalainen c. Finlandia del 16 luglio 2014, la Corte di Strasburgo, con riguardo alla legittimità della normativa finlandese, che impone la trasformazione del matrimonio in unione civile registrata (civil partenership), quale conseguenza normativamente imposta della rettificazione anagrafica del sesso, ha escluso la violazione degli artt. 8 e 14 CEDU, sull’assunto che attraverso detto meccanismo la normativa finlandese contempla modalità di conservazione del precedente vincolo che, sia pur con altra forma di riconoscimento giuridico, appare, nei contenuti dei diritti attribuiti, sostanzialmente equiparabile allo status pregresso venuto meno per effetto della rettificazione anagrafica del sesso.
E non è peraltro inutile sottolineare che ad un tale responso la Corte EDU è approdata sviluppando la prospettiva della configurabilità di un obbligo positivo dello Stato quale precipuo modo di essere del rispetto della vita privata e familiare, cioè a dirsi aderendo alla soluzione affermativa in ordine all’interrogativo sul se il diritto di cui all’art. 8 CEDU implichi per lo Stato un obbligo positivo di porre in essere un procedimento efficace e accessibile, atto a consentire al cittadino di far riconoscere legalmente il nuovo sesso pur mantenendo i suoi legami coniugali (cfr. §64 della motivazione).
§5.2.3 – Se quindi è lecito postulare che il quadro dei principi sopra affermati sia suscettibile di migrare, mutatis mutandis, nella fattispecie concreta che qui occupa onde apprestare una protezione aggiuntiva derivante dal contesto convenzionale europeo di tutela dei diritti umani, appare incontestabile che la garanzia accordata dall’art. 8 CEDU alla coppia omosessuale legata dal vincolo dell’unione civile registrata imponga allo Stato di preservare il fulcro dei diritti acquisiti – e dei rapporti instaurati – durante la vigenza di tale modello di relazione omoaffettiva, ciò anche in seguito alla rettificazione anagrafica del sesso di uno dei contraenti e senza alcuna cesura, che viceversa arrecherebbe a quello stesso fulcro un vulnus, tanto inaccettabile, quanto irragionevole, in quanto idoneo a metterne a repentaglio la stessa sopravvivenza nelle more della transizione verso l’unione matrimoniale, quale archetipo di vita di coppia tra persone eterosessuali giuridicamente elaborato dall’ordinamento.
§5.3 – Quest’ultimo punto mobilita la riflessione in ordine al paradigma di cui all’art. 3 Cost., rispetto al quale, la normativa censurata non si pone al riparo dai sospetti di incostituzionalità che qui appresso si vanno ad esporre.
§5.3.1 – Sotto tale profilo, non è fondatamente contestabile che un fuggitivo raffronto testuale tra il comma 26 ed il comma 27 dell’art. 1 della L. 76 del 2016 veicoli il punto di emersione di una palese disparità di trattamento – sullo specifico punto delle ripercussioni della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso – tra unione coniugale eterosessuale ed unione civile omosessuale.
Non è inutile al riguardo ribadire che la prima disposizione sancisce lo scioglimento tout court dell’unione civile con il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei membri dell’unione medesima.
La seconda, invece, al manifestarsi del medesimo fenomeno nella dimensione del rapporto matrimoniale, accorda ai coniugi che, nelle forme di cui all’art. 31, comma 4 bis, D.Lgs. 150 del 2011 abbiano manifestato la volontà di non sciogliere il matrimonio o di non cessarne gli effetti civili, la facoltà di convertirlo in unione tra persone dello stesso sesso.
§5.3.2 – Anzitutto, occorre sgomberare il campo dall’equivoco secondo cui la differente regolazione del fenomeno della rettificazione dell’attribuzione di sesso all’interno delle due diverse formazioni sociali giuridicamente riconosciute potrebbe immaginarsi lecitamente giustificata – all’esito di una superficiale esegesi che si arresti al mero dato letterale – per la diversa disciplina che ne regola il momento genetico e costitutivo, di seguito riassunta.
A norma dell’art. 1, 2° comma, L. 76 del 2016, «due persone maggiorenni dello stesso sesso costituiscono un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni».
La costituzione dell’unione civile non conosce la previa evasione di adempimenti preliminari, strumentali alla verifica dell’insussistenza di cause ostative all’instaurazione del vincolo.
Il quarto comma dell’art. 1 elenca infatti una serie di cause a tanto impeditive – che rispecchiano i divieti di contrarre matrimonio imposti dagli artt. 85 – 88 c.c. – ma alcun meccanismo è contemplato onde negare in via preventiva la costituzione dell’unione, la quale, qualora venga contratta sebbene sussista un fatto ostativo annoverabile tra le cause impeditive tipizzate, è affetta da nullità, comminata dal quinto comma dell’art. 1 della L. 76 del 2016.
Per converso, secondo il dettato dell’art. 93 c.c., la celebrazione del matrimonio deve essere preceduta dalla pubblicazione fatta dall’ufficiale dello stato civile, cui corrisponde l’impedimento alla celebrazione prima del quarto giorno dopo la compiuta pubblicazione e comunque non oltre i centottanta giorni successivi (art. 99 c.c.).
Alla pubblicazione è riconnesso lo strumento dell’opposizione al matrimonio presentata dai soggetti a ciò legittimati per qualunque causa che osti alla sua celebrazione (artt. 102 ss. c.c.).
Sulla scorta delle superiori considerazioni, ognuno si avvede che l’opzione legislativa dichiaratamente rivolta a produrre conseguenze asimmetriche sull’unione coniugale, da una parte e, dall’altra, sull’unione civile, in dipendenza della sentenza che statuisce la rettificazione dell’attribuzione di sesso, non può dirsi razionalmente sorretta – sotto il profilo della disparità di trattamento tra situazioni non equiparabili ed indebitamente assimilate – dalla diversa disciplina della fase genetica del vincolo, perché gli indefettibili adempimenti prodromici all’instaurazione del rapporto di coniugio non ostano a che la disciplina di transizione tra unione civile e matrimonio venga a tanto adeguata.
Non è infatti questo, il punto.
§5.3.3 – L’art. 3 Cost. – in unione con l’art. 2 – viene infatti in considerazione, per quel che qui rileva, sotto l’aspetto della intrinseca irragionevolezza di una disciplina – quella apprestata dal comma 26, dell’art. 1 della L. 76 del 2016 – che, rispetto al meccanismo elaborato nella consimile occorrenza che sopravvenga durante l’unione matrimoniale, del tutto ingiustificatamente pretermette la regolazione di un congegno idoneo al superamento della soluzione di continuità che in tal guisa viene ad istituirsi tra unione civile destinata alla caducazione con il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso e l’unione matrimoniale, l’accesso alla quale, al contraente dell’unione del medesimo sesso del transessuale antecedentemente alla rettifica ed al transessuale stesso, dopo la sentenza di rettificazione, è innegabilmente consentito (sul punto, cfr. anche Corte Europea dir. uomo 11 luglio 2002, Goodwin c. Regno Unito).
Sotto tale precipuo aspetto, occorre procedere dal rilievo che con la costituzione dell’unione civile i contraenti acquistano un complesso fascio di diritti e di doveri in larga parte conformati – fatte salve talune eccezioni, sulle quali non è qui utile indugiare – secondo lo schema dell’unione matrimoniale.
In particolare: (i) mediante dichiarazione all’ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi. La parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone dichiarazione all’ufficiale di stato civile (art. 1, comma 10, L. 76 del 2016); (ii) con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso sesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni (art. 1, comma 11, L. 76 del 2016); (iii) le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato (art. 1, comma 12, L. 76 del 2016); (iv) il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni. In materia di forma, modifica, simulazione e capacità per la stipula delle convenzioni patrimoniali si applicano gli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile. Le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile. Si applicano le disposizioni di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile (art. 1, comma 13, L. 76 del 2016); (v) quando la condotta della parte dell’unione civile è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altra parte, il giudice, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342-ter del codice civile (art. 1, comma 14, L. 76 del 2016); (vi) nella scelta dell’amministratore di sostegno il giudice tutelare preferisce, ove possibile, la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. L’interdizione o l’inabilitazione possono essere promosse anche dalla parte dell’unione civile, la quale può presentare istanza di revoca quando ne cessa la causa (art. 1, comma 15, L. 76 del 2016); (vii) la violenza e’ causa di annullamento del contratto anche quando il male minacciato riguarda la persona o i beni dell’altra parte dell’unione civile costituita dal contraente o da un discendente o ascendente di lui (art. 1, comma 16, L. 76 del 2016); (viii) in caso di morte del prestatore di lavoro, le indennità indicate dagli articoli 2118 e 2120 del codice civile devono corrispondersi anche alla parte dell’unione civile (art. 1, comma 17, L. 76 del 2016); (ix) la prescrizione rimane sospesa tra le parti dell’unione civile (art. 1, comma 18, L. 76 del 2016); (x) all’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni di cui al titolo XIII del libro primo del codice civile, nonché gli articoli 116, primo comma, 146, 2647, 2653, primo comma, numero 4), e 2659 del codice civile (art. 1, comma 19, L. 76 del 2016); (xi) al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. La disposizione di cui al periodo precedente non si applica alle norme del codice civile non richiamate espressamente nella presente legge, nonché alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983, n. 184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti (art. 1, comma 20, L. 76 del 2016); (xii) alle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso si applicano le disposizioni previste dal capo III e dal capo X del titolo I, dal titolo II e dal capo II e dal capo V-bis del titolo IV del libro secondo del codice civile (art. 1, comma 21, L. 76 del 2016).
Il passaggio in giudicato della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, nel travolgere con un rigido automatismo l’unione civile, senza alcuna possibilità per i contraenti di manifestare la volontà di proseguire il rapporto, in ipotesi con le sembianze di altra forma riconosciuta dall’ordinamento, provoca dunque una menomazione irreversibile ed irragionevole, non bilanciata comparativamente dalla salvaguardia di interessi contrapposti di pari rango, di tutto quel complesso di diritti e di doveri sopra enumerati che dalla costituzione dell’unione medesima scaturiscono.
Siffatta lesione, offendendo il nucleo indefettibile di diritti e di doveri di assistenza e solidarietà propri della relazione affettiva duratura su cui poggiano le fondamenta dell’unione civile e che ne rappresentano proiezione nella dimensione del rilevante giuridico, aggredendo la stessa ragione del suo essere formazione sociale costituzionalmente protetta ex art. 2 Cost. quale modo di esplicazione della personalità umana, non può trovare alcuna giustificazione, come talora è stato argomentato in dottrina, per l’adombrata minore intensità del vincolo da quella nascente rispetto al matrimonio, a causa dell’omesso richiamo della fedeltà all’art. 1, comma 11, L. 76 del 2016, tra i doveri nascenti dall’unione civile, fedeltà che viceversa distinguerebbe la sola unione coniugale. Tale impostazione concettuale, frutto di esasperato apriorismo ideologico, per quanto non priva di riscontro nel testo legislativo, collide tuttavia frontalmente con la già proclamata iscrizione delle unioni omosessuali sotto le insegne dei valori assiologici fondamentali della Carta costituzionale e con la consequenziale intangibilità della sfera di situazioni giuridiche soggettive che dal rapporto omoaffettivo stabilizzato scaturiscono.
All’obiezione secondo la quale compenserebbe la soluzione di continuità tra le due forme di unione affettiva la brevità del lasso di tempo astrattamente intercorrente tra lo scioglimento dell’unione civile per la pronunciata rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei contraenti e la possibilità di contrarre matrimonio, una volta che le pubblicazioni siano state effettuate, è fin troppo agevole replicare che è proprio in tale cesura che si focalizza la censura di irragionevolezza della disparità di trattamento rispetto al matrimonio, poiché è proprio nell’intervallo temporale che immediatamente segue l’estinzione ex lege del vincolo che sono astrattamente suscettibili di verificarsi evenienze che implicano il sacrificio integrale ed irreversibile della pregressa vita di coppia omoaffettiva, tra tutte dominando quale figura paradigmatica la morte di uno dei contraenti dell’unione, al cospetto della quale l’altro contraente in vita resta sprovvisto di tutela, poiché la normativa censurata appare impotente ad attuare una garanzia effettiva dei diritti e dei doveri nascenti dal rapporto ormai estintosi.
Peraltro, in virtù della scelta di orientamento sessuale, in ipotesi anche unilaterale, di uno dei contraenti, irreversibile è inoltre anche la lesione inferta al diritto alla vita familiare (art. 8 CEDU) della coppia omoaffettiva in uno dei suoi aspetti identificativi qualificanti, cioè a dirsi il cognome comune eventualmente scelto tra i cognomi dei componenti in sede di costituzione dell’unione civile (art. 1, comma 10, L. 76 del 2016), destinato all’irrecuperabilità anche nell’eventualità di una successiva unione matrimoniale, atteso che la mancanza di una disciplina di transizione obbliga all’applicabilità tout court dell’art. 143 bis c.c., il che, provocando l’aggiunta del cognome del marito al cognome della moglie, instaura per i coniugi uno status non sovrapponibile a quello goduto in precedenza.
Le osservazioni sopra svolte trovano inoltre riscontro nel parallelismo istituibile con la speculare vicenda concernente il c.d. “divorzio imposto” (v. retro, par. §4.2.4) in caso di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che ha formato oggetto della sentenza n. 170 del 2014 della Corte costituzionale, la quale – anteriormente all’entrata in vigore del comma 27 dell’art. 1 del D.Lgs. 76 del 2016 e dell’inserimento del comma 4 bis dell’art. 31 del D.Lgs. 150 del 2011, ad opera dell’art. 7 del D. Lgs. n. 5 del 2017 – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164, nonché, in via consequenziale, dell’art. 31, comma 6, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, nella parte in cui non prevede che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio, consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore, riconoscendo centralità all’ingiustificato sacrificio dell’interesse della coppia a conservare una qualche forma di continuità con la dimensione relazionale precedente alla rettificazione del sesso di uno dei coniugi, a fronte dell’esclusiva salvaguardia dell’interesse statuale all’intangibilità della matrice eterosessuale dell’istituto matrimoniale.
Il fulcro del ragionamento è stato poi ulteriormente portato a compimento dalla Suprema Corte, la quale, nel valorizzare le ricadute applicative dalla sentenza additiva di principio promanata dal Giudice delle Leggi e nell’interpretare il concreto comando recato dal dispositivo della pronuncia, ha ritenuto non costituzionalmente tollerabile la caducazione automatica del matrimonio, poiché la soluzione di continuità del rapporto che essa determina instaura una soluzione di massima indeterminatezza nel rapporto affettivo già costituito, dovendosi pertanto conservare in capo ai coniugi, pur a seguito della rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei componenti della coppia, il riconoscimento dei diritti e doveri conseguenti al matrimonio, sino a quando il legislatore non intervenga per consentire alla coppia di mantenere in vita il rapporto con altra forma di convivenza registrata che ne tuteli adeguatamente diritti ed obblighi (Cass. sent. n. 8097 del 2015).
Appare evidente, per la protezione costituzionale di cui godono le unioni civili omoaffettive, come la superiore opzione avrebbe dovuto incontrare un meccanismo di adattamento quante volte quest’ultime siano attraversate da una vicenda di rettificazione di sesso di uno dei contraenti. Il che, tuttavia, non è, atteso che la scelta di valore tradotta nella L. 76 del 2016 si è inequivocabilmente orientata in una direzione diametralmente opposta, cioè a dirsi concependo sì il transito tra unione civile e matrimonio, ma pur sempre intervallato da uno iato temporale all’interno del quale il nucleo essenziale dei diritti e doveri del rapporto di coppia, siccome sprovvisto di protezione, diviene sostanzialmente oggetto di potenziale affievolimento integrale.
Da qui, in conclusione, la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della normativa censurata anche con riguardo al parametro di cui all’art. 3 Cost., sotto il profilo della irragionevole disparità di trattamento rispetto alla consentanea disciplina approntata, nella medesima evenienza della rettificazione di attribuzione di sesso di un coniuge, per l’unione matrimoniale.
§6. – L’infruttuoso tentativo di sperimentare un’interpretazione costituzionalmente conforme delle norme censurate.
§6.1 – Invero, nell’atto introduttivo, il ricorrente dà conto di precedenti di merito che, se condivisi, permetterebbero la conservazione del precedente vincolo giuridico, destinato a sopravvivere alla pronuncia di riattribuzione dell’identità di genere, mediante l’automatica conversione in matrimonio, rappresentando al contempo un tentativo ermeneutico di interpretazione costituzionalmente conforme cui il giudice remittente è obbligato prima di sollevare una questione di legittimità costituzionale.
Il riferimento è a Trib. Brescia 17 ottobre 2019, n. 11990, in www.articolo29.it, ove si sostiene che “in assenza di normativa che contempli espressamente la possibilità di procedere alla conversione dell’atto di stato civile avente ad oggetto l’unione civile in atto di matrimonio per effetto di rettificazione di sesso da parte di uno dei due coniugi, deve ritenersi applicabile l’art. 70 – octies Dpr 396/2000 a norma del quale: “Nell’ipotesi di cui all’articolo 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, l’ufficiale dello stato civile del comune di celebrazione del matrimonio o di trascrizione se avvenuto all’estero, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, procede all’iscrizione dell’unione civile nel registro delle unioni civili con le eventuali annotazioni relative alla scelta del cognome ed al regime patrimoniale”; l’estensione analogica della suddetta norma ai casi come quello di specie, oltre ad essere costituzionalmente orientata nel rispetto del fondamentale principio di uguaglianza, garantisce il superamento della illogica discordanza, allo stato esistente, tra i dati relativi al genere di xxxxxx, già modificati sui documenti identificativi e quelli invece risultanti dalla trascrizione dell’unione civile in cui la ricorrente risulterebbe ancora di genere maschile…”.
Sennonché, per le ragioni già esposte, tale operazione interpretativa deve essere fermamente ricusata, atteso che l’analogia legis cui il Tribunale fa ricorso presuppone ex art. 12, comma 2, disp. prel. c.c., una lacuna nell’ordinamento che, per le ragioni già esplicitate, non è viceversa lecito teorizzare, recando il sistema una serie di coordinate normative – tra le quali si iscrive il menzionato art. 70 octies d.p.r. 396/2000, espressamente applicabile nella sola eventualità in cui la persona che ha proposto domanda di rettificazione di attribuzione di sesso ed il coniuge esprimano con dichiarazione congiunta resa in udienza la volontà, in caso di accoglimento della domanda, di costituire l’unione civile – che, decodificate in connessione sinergica, costituiscono espressione incontestabile della voluntas legis di non dare continuità di riconoscimento giuridico all’unione omoaffettiva disciolta per la rettificazione di attribuzione del sesso di uno dei suoi componenti.
§6.2 – Neppure le sollecitazioni di parte della dottrina per una reductio ad legitimitatem dell’art. 1, comma 26, L. 76 del 2016, onde coordinarlo con le altre disposizioni precipuamente dettate in tema di rettificazione di sesso per il matrimonio, riescono persuasive.
E’ stato invero sostenuto che il coordinamento dovrebbe operare prevedendo, ove nel corso del giudizio di rettificazione riguardante una coppia unita civilmente il giudice abbia accertato la loro volontà di non sciogliere l’unione, che l’effetto della rettificazione – collegato al passaggio in giudicato della sentenza – venga sospeso fino alla data della celebrazione del matrimonio tra le parti, alla condizione che il matrimonio sia celebrato entro e non oltre un termine congruo dal predetto passaggio in giudicato, cioè a dirsi entro un lasso di tempo pari al minor termine necessario per legge per la celebrazione del matrimonio.
Ora, anche a voler tacere il fatto che una simile opzione ermeneutica tradisce la chiara voluntas legis volta a differenziare il regime delle due situazioni – quella della coppia unita civilmente rispetto alla coppia coniugata, per quanto entrambe interessate dalla rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei componenti – la circostanza che il comma 26 nulla preveda in ordine al momento di efficacia della sentenza di rettificazione non autorizza l’interprete a differirlo arbitrariamente ad un tempo successivo al passaggio in giudicato, giudicato al quale l’efficacia è collegata in base ai principi generali, trattandosi di pronuncia d’indole costitutiva.
Va poi da sé che nel processo di rettificazione non è in alcuna forma concepita la denuntiatio litis in favore dell’altro contraente dell’unione civile (art. 31, comma 3, D.Lgs. 150 del 2011), in ragione del fatto che l’ordinamento si è deliberatamente disinteressato della possibilità di accordare alla coppia omosessuale la facoltà di convertire l’unione in matrimonio senza soluzioni di continuità, tant’è che un’eventuale convincimento in tal senso maturato dai contraenti non conosce, all’interno di quel processo, meccanismi di esteriorizzazione.
La soluzione proposta recherebbe infine l’assurdo paradosso di obbligare l’ufficiale di stato civile alle pubblicazioni ed alla celebrazione del matrimonio nel mentre perdura l’improduttività di effetti della sentenza di rettificazione e l’alterità di sesso tra i nubendi non è ancora venuta a compiersi.
§7. – Conclusioni.
Non apparendo quindi percorribile l’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme per l’insuperabile tenore del dato normativo e la riscontrata carenza di meccanismi di adeguamento agli imperativi valori costituzionali esaminati, ritenuta la rilevanza e non manifesta infondatezza per le ragioni di cui in parte motiva, non resta che sollevare:
1) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 26, L. 76 del 2016, nella parte in cui prevede che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, senza alcuna possibilità di conversione in matrimonio, previa dichiarazione congiunta dell’attore e dell’altro contraente dell’unione, in caso di accoglimento della domanda di rettificazione, senza soluzione di continuità con il precedente vincolo, in relazione all’art. 2 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 117 Cost., degli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
2) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 26, L. 76 del 2016, con riferimento all’art. 3 Cost., per l’ingiustificata disparità di trattamento tra lo scioglimento automatico dell’unione civile omoaffettiva in caso di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei contraenti, previsto da tale norma, e quanto stabilito dal successivo comma 27 nel caso in cui la medesima fattispecie attraversi l’unione di due persone eterosessuali unite in matrimonio e, pertanto, laddove non si estende all’unione civile, con la norma censurata, un regime analogo;
3) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 3, D.Lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui non prevede che l’atto di citazione introduttivo del giudizio di rettificazione sia notificato anche all’altro contraente dell’unione civile, in relazione agli artt. 2, 3 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 117 Cost., degli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
4) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4 bis, D.Lgs. n. 150 del 2011, inserito, dall’art. 7 del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nella parte in cui non prevede che anche la persona che ha proposto domanda di rettificazione di attribuzione di sesso e l’altro contraente dell’unione civile possano, fino alla precisazione delle conclusioni, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda, di unirsi in matrimonio, effettuando le eventuali dichiarazioni riguardanti il regime patrimoniale e la conservazione del cognome comune, nonché nella parte in cui non prevede che il tribunale, con la sentenza che accoglie la domanda, ordini all’ufficiale dello stato civile del comune di costituzione dell’unione civile o di registrazione se costituita all’estero, di iscrivere il matrimonio nel registro degli atti di matrimonio e di annotare le eventuali dichiarazioni rese dalle parti relative alla scelta del cognome ed al regime patrimoniale, in relazione agli artt. 2, 3 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 117 Cost., degli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
5) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 octies, comma 5, del d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 – aggiunto dall’articolo 1, comma 1, lettera t), del D.Lgs. n. 5 del 2017 – nella parte in cui non prevede che anche nell’ipotesi di cui all’articolo 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, come emendato al punto precedente, l’ufficiale dello stato civile del comune di costituzione dell’unione civile o di registrazione se costituita all’estero, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, proceda alla trascrizione del matrimonio nel registro degli atti di matrimonio, con le eventuali annotazioni relative al cognome ed al regime patrimoniale, in relazione agli artt. 2, 3 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 117 Cost., degli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
P.Q.M.
Il Tribunale di Lucca, visto gli artt. 134 Cost., 23 e ss. L. n. 87 del 1953, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le seguenti questioni di legittimità costituzionale:
1) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 26, L. 76 del 2016, nella parte in cui prevede che la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso determina lo scioglimento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, senza alcuna possibilità di conversione in matrimonio, previa dichiarazione congiunta dell’attore e dell’altro contraente dell’unione, in caso di accoglimento della domanda di rettificazione, senza soluzione di continuità con il precedente vincolo, in relazione all’art. 2 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 117 Cost., degli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
2) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 26, L. 76 del 2016, con riferimento all’art. 3 Cost., per l’ingiustificata disparità di trattamento tra lo scioglimento automatico dell’unione civile omoaffettiva in caso di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei contraenti, previsto da tale norma, e quanto stabilito dal successivo comma 27 nel caso in cui la medesima fattispecie attraversi l’unione di due persone eterosessuali unite in matrimonio e, pertanto, laddove non si estende all’unione civile, con la norma censurata, un regime analogo;
3) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 3, D.Lgs. n. 150 del 2011, nella parte in cui non prevede che l’atto di citazione introduttivo del giudizio di rettificazione sia notificato anche all’altro contraente dell’unione civile, in relazione agli artt. 2, 3 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 117 Cost., degli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
4) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 31, comma 4 bis, D.Lgs. n. 150 del 2011, inserito, dall’art. 7 del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, nella parte in cui non prevede che anche la persona che ha proposto domanda di rettificazione di attribuzione di sesso e l’altro contraente dell’unione civile possano, fino alla precisazione delle conclusioni, con dichiarazione congiunta, resa personalmente in udienza, esprimere la volontà, in caso di accoglimento della domanda, di unirsi in matrimonio, effettuando le eventuali dichiarazioni riguardanti il regime patrimoniale e la conservazione del cognome comune, nonché nella parte non prevede che il tribunale, con la sentenza che accoglie la domanda, ordini all’ufficiale dello stato civile del comune di costituzione dell’unione civile o di registrazione se costituita all’estero, di iscrivere il matrimonio nel registro degli atti di matrimonio e di annotare le eventuali dichiarazioni rese dalle parti relative alla scelta del cognome ed al regime patrimoniale, in relazione agli artt. 2, 3 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 117 Cost., degli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo;
5) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70 octies, comma 5, del d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 – aggiunto dall’articolo 1, comma 1, lettera t), del D.Lgs. n. 5 del 2017 – nella parte in cui non prevede che anche nell’ipotesi di cui all’articolo 31, comma 4-bis, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150, come emendato al punto precedente, l’ufficiale dello stato civile del comune di costituzione dell’unione civile o di registrazione se costituita all’estero, ricevuta la comunicazione della sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso, proceda alla trascrizione del matrimonio nel registro degli atti di matrimonio, con le eventuali annotazioni relative al cognome ed al regime patrimoniale, in relazione agli artt. 2, 3 Cost., e, in qualità di norme interposte, ai sensi dell’art. 117 Cost., degli artt. 8 e 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Dispone la immediata trasmissione degli atti e della presente ordinanza, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte comunicazioni e notificazioni, alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio.
Ordina la notificazione della presente ordinanza alle parti in causa, al Pubblico Ministero e al Presidente del Consiglio dei Ministri e la sua comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Dispone che in caso di diffusione siano omesse le generalità delle parti.
Così deciso in Lucca, nella Camera di consiglio del 14 gennaio 2022
Il Giudice relatore, estensore
Dott. Giampaolo Fabbrizzi
Il Presidente
Dott.ssa Anna Martelli