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La Corte costituzionale austriaca impone l’immediato riconoscimento del terzo genere

di Francesca Brunetta d’Usseaux*

Le persone intersessuali hanno diritto di ottenere una registrazione anagrafica “adeguata” alla loro identità sessuale: così titola il comunicato ufficiale della Corte Costituzionale austriaca dello scorso giugno.

Già a marzo di quest’anno i giudici avevano reso nota la propria intenzione di voler valutare la legittimità costituzionale del § 2, comma 2, riga 3 del Personenstandsgesetz del 2013, ovvero di quella disposizione della legge austriaca sullo stato civile, che indica il sesso, insieme ad esempio al nome o alla data di nascita, tra i dati personali cd. generali che devono essere inseriti nell’atto di nascita. Il contesto era quello del ricorso intentato da una persona intersessuale contro il rifiuto opposto dalle autorità amministrative e poi avallato anche dai giudici amministrativi, alla sua richiesta di correzione della relativa registrazione, limitata, per lo meno fino a quel momento, alla scelta tra “maschile” e “femminile”.

Facendo leva sul potere attribuito alla Corte dall’art. 140 del Bundes-Verfassungsgesetz, in virtù del quale questa può decidere di sottoporre a controllo di legittimità costituzionale una disposizione, qualora rilevante nel contesto di una causa pendente, i giudici si interrogano se la disciplina austriaca sia o meno compatibile con l’art. 8 della CEDU ed è proprio muovendo dalla tutela del diritto della personalità, nelle sue declinazioni di “identità, individualità e integrità”, che inferiscono il diritto di rifiutare un’attribuzione di genere che non sia corrispondente alla propria identità sessuale. L’indicazione dell’appartenenza di genere nelle registrazioni anagrafiche non è un obbligo imposto dalla Costituzione, ma si riconduce alla discrezionalità del legislatore, il quale, una volta effettuata quella scelta, deve assicurarsi che le modalità di attuazione rispettino le condizioni richieste dall’art. 8 CEDU. Ciò è tanto più necessario, sostiene la Corte, riprendendo peraltro la sentenza della Corte Costituzionale tedesca dell’ottobre dello scorso anno, perché si tratta di un aspetto centrale della persona, una caratteristica che la Corte non esita a definire “identitätsstiftend” fondante l’identità dell’essere umano.

Se fino a questo punto la disamina sembrerebbe preludere ad una dichiarazione di illegittimità costituzionale del § 2 della legge sullo stato civile, il ragionamento dei giudici vira invece sulla possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata. Secondo la Corte, la nozione di “sesso” contenuta nella disposizione, proprio perché non ulteriormente specificata, non limita necessariamente la scelta di registrazione ai generi “maschile” e “femminile”, ma può, senza particolari difficoltà, ricomprendere anche altre identità sessuali. Sarà sufficiente fare ricorso al paniere di definizioni proposte dalla Commissione di bioetica della Cancelleria austriaca che, nella sua relazione a favore dell’introduzione di un terzo genere anagrafico, aveva proposto i termini “diverso”, “inter” o semplicemente di omettere il dato; quindi, qualora richiesto, gli ufficiali di stato civile saranno obbligati ad utilizzare una delle definizioni appena citate o una similare. La legge prevede poi una serie di disposizioni che permettono la modifica, l’integrazione e la correzione dei dati inerenti l’identità sessuale, impianto che i giudici ritengono adeguato ad assicurare l’efficace e concreta tutela dell’identità sessuale delle persone intersessuali.

Così interpretata, la disposizione supera quindi il controllo di costituzionalità, ferma restando la sua necessaria interpretazione nei termini appena esposti; per via diversa la corte austriaca raggiunge sostanzialmente il risultato ottenuto, solo qualche mese prima, dal Bundesverfassungsgericht tedesco, il quale, con una sentenza pressoché unica nel suo genere, aveva imposto al legislatore di intervenire entro la fine dell’anno per modificare la legge sullo stato civile tedesca (PStG del 2013), che, prevedendo solo la possibilità di lasciare in bianco l’indicazione del sesso e non anche l’inserimento di una terza esplicita denominazione, era da considerarsi incompatibile con la tutela del diritto generale della personalità e con il principio di non discriminazione.

*Professore associato di Diritto Comparato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Genova, dove insegna Sistemi Giuridici Comparati e Diritto di Famiglia Comparato.