Corte costituzionale, sentenza del 12 gennaio 2011 n. 8

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 48, commi da 1 a 4, della legge della Regione Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’articolo 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010-2012), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 22-25 febbraio 2010, depositato in cancelleria il 2 marzo 2010 ed iscritto al n. 29 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna;

udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

uditi l’avvocato dello Stato Enrico De Giovanni per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Luigi Manzi e Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 22-25 febbraio 2010 e depositato il successivo 2 marzo, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 35 e 48 della legge della Regione Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’art. 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010-2012), in riferimento agli artt. 3 e 117, commi secondo, lettere i), l), m), terzo e quinto, della Costituzione.

1.1. – La prima questione investe l’art. 35 della cennata legge regionale, nella parte in cui prevede che la «Regione, avvalendosi della Commissione regionale del farmaco, può prevedere, in sede di aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale, l’uso di farmaci anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in commercio (AIC), quando tale estensione consenta, a parità di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci già autorizzati, una significativa riduzione della spesa farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale e tuteli la libertà di scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN».

Secondo la difesa dello Stato, il legislatore regionale, nello stabilire la «possibilità di utilizzare, nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, un medicinale per indicazioni terapeutiche diverse da quelle prescritte dall’Agenzia del farmaco (AIFA) all’atto del rilascio dell’autorizzazione», sarebbe andato oltre le proprie competenze, incidendo sui livelli essenziali di assistenza la cui determinazione spetta alla potestà legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione.

A sostegno delle proprie argomentazioni il ricorrente richiama alcune sentenze (n. 271 del 2008 e n. 44 del 2010) con le quali la Corte costituzionale ha espressamente affermato che l’erogazione dei farmaci rientra nei livelli essenziali di assistenza, nonché alcune norme statali che regolano l’uso cd. off label dei medicinali.

In proposito il ricorrente rileva che l’art. 6, comma 1, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 (Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE) prevede che nessun medicinale può essere messo in commercio sul territorio nazionale senza autorizzazione dell’AIFA o di quella comunitaria «a norma del regolamento (CE) n. 726/2004 in combinato disposto con il Regolamento (CE) n. 1394/2007». Detta autorizzazione è, altresì, necessaria «per ogni ulteriore dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonché per le variazioni ed estensioni» del medicinale.

L’art. 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536 (Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996), convertito con legge 23 dicembre 1996, n. 648, dispone, poi, che, «qualora non esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale […] i medicinali da impiegare per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata», inseriti in un apposito elenco predisposto e aggiornato dalla Commissione unica del farmaco, sulla base di procedure e criteri da essa stessa determinati.

Infine, l’art. 3, comma 2, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 3 (recte: 23) (Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria), convertito in legge con legge 8 aprile 1998, n. 4 (recte: 94) nell’introdurre una deroga al principio poc’anzi citato, ha riconosciuto al medico, in casi particolari, sotto la sua responsabilità e con il consenso del paziente, la possibilità di impiegare un farmaco prodotto industrialmente «per un’indicazione o una via di somministrazione […] diversa da quella autorizzata». La medesima norma, al comma 4, precisa il Presidente del Consiglio dei ministri, statuisce, tuttavia, che tale facoltà non «può costituire riconoscimento del diritto del paziente alla erogazione dei medicinali a carico del Servizio sanitario nazionale, al di fuori dell’ipotesi disciplinata dall’art. 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536».

Tale prescrizione, precisa ancora il ricorrente, è stata in seguito ribadita dall’art. 1, comma 736 (recte: 796), lettera z), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato–legge finanziaria 2007), secondo cui il cennato art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 23 del 1998 «non è applicabile al ricorso a terapie farmacologiche a carico del Servizio sanitario nazionale che, nell’ambito dei presìdi ospedalieri o di altre strutture e interventi sanitari, assuma carattere diffuso e sistematico e si configuri, al di fuori delle condizioni di autorizzazione all’immissione in commercio, quale alternativa terapeutica rivolta a pazienti portatori di patologie per le quali risultino autorizzati farmaci recanti specifica indicazione al trattamento. Il ricorso a tali terapie è consentito solo nell’ambito delle sperimentazioni cliniche dei medicinali di cui al decreto legislativo 24 giugno 2003, n. 211, e successive modificazioni».

Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, il ricorrente ritiene che la previsione regionale di «estendere l’uso di farmaci nell’ambito del SSN, anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’AIC, peraltro per finalità e con modalità che […] travalicano quelle previste» dalle richiamate disposizioni statali, inciderebbe «negativamente» sui livelli essenziali di assistenza, in quanto determinerebbe «una evidente disparità di trattamento tra gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori del SSN su scala nazionale, consentendo un decremento del regime di assistenza riconosciuto, consistente nell’impiego improprio di medicinali».

In via subordinata, il ricorrente ritiene, inoltre, che «nell’ipotesi» in cui si considerasse la disposizione impugnata come espressione della competenza legislativa concorrente delle Regioni in materia di tutela della salute, essa sarebbe comunque illegittima, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto inciderebbe «sulla determinazione dei principi fondamentali» riservata allo Stato.

Sul punto il ricorrente precisa che «la materia relativa all’uso dei farmaci», anche alla luce della giurisprudenza costituzionale, in particolare, della sentenza n. 282 del 2002, attiene senza dubbio ai principi fondamentali. Principi contenuti nella normativa statale finora richiamata, in base alla quale, prosegue il Presidente del Consiglio dei ministri, le variazioni delle indicazioni terapeutiche dei farmaci sono sottoposte a preventiva autorizzazione e l’erogazione di medicinali a carico del Servizio sanitario nazionale per indicazioni terapeutiche diverse da quelle autorizzate è possibile «solo qualora non esista una valida alternativa terapeutica e, comunque, previo inserimento degli stessi in un apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del farmaco».

Tanto premesso, secondo il ricorrente, la norma regionale impugnata violerebbe i suddetti principi fissati dallo Stato in quanto: a) «finalizza» la possibilità di utilizzare farmaci anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in commercio, «alla prospettiva di una significativa riduzione della spesa farmaceutica a carico del SSN», senza «tenere conto del più stringente criterio della mancanza di valide alternative sul piano curativo»; b) «oblitera» le competenze della Commissione tecnico scientifica dell’AIFA «e dei corrispondenti organi comunitari», nonché la procedura in base alla quale può avvenire l’erogazione del farmaco.

1.2. – Con una seconda questione il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, inoltre, l’art. 48 della legge regionale n. 24 del 2009.

In particolare, censura il comma 1, nella parte in cui attribuisce ai cittadini di Stati parti dell’Unione europea il diritto di accedere alla fruizione dei servizi privati in condizione di parità e senza discriminazione. La norma, secondo il ricorrente, nel sancire «il corrispondente obbligo per gli operatori economici privati di non rifiutare la loro prestazione», introdurrebbe un obbligo legale a contrarre, peraltro già previsto dal legislatore statale all’art. 187 del regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 (Approvazione del regolamento per l’esecuzione del testo unico 18 giugno 1931, n. 773 delle leggi di pubblica sicurezza) e, pertanto, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

1.3. – Con una terza questione il ricorrente impugna il comma 2 del citato art. 48. La disposizione è impugnata nella parte in cui prevede che la Regione «assume le nozioni di discriminazione diretta ed indiretta previste» dalla direttiva 2000/43/CE del Consiglio dell’Unione europea relativa al principio della parità di trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, dalla direttiva del Consiglio dell’Unione europea 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e dalla direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa all’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego.

Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la Regione, nel recepire dalla normativa comunitaria la nozione di discriminazione diretta e indiretta, sarebbe intervenuta in un ambito di competenza esclusiva dello Stato, poiché «il concetto di discriminazione» attiene alla materia «ordinamento civile» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. Sotto altro profilo, la norma si porrebbe in contrasto con l’art. 16 della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), e quindi violerebbe l’art. 117, quinto comma, della Costituzione, in quanto la Regione avrebbe «recepito una direttiva in una materia che esula dalla propria competenza».

Il ricorrente ritiene, inoltre, che la disposizione impugnata violi l’art. 3 della Costituzione, a norma del quale spetta alla Repubblica il compito di rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che limiti di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini. A suo avviso, non potrebbe essere lasciata alle singole Regioni la disciplina in materia di discriminazione, in quanto ciò «potrebbe comportare il rischio di avere diverse forme di tutela sull’intero territorio nazionale, con evidenti pregiudizi ed ingiustificate difformità normative».

1.4. – La quarta questione investe il comma 3 dell’art. 48 della legge regionale n. 24 del 2009. Detta disposizione è impugnata nella parte in cui prevede che «i diritti generati dalla legislazione regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi, si applicano» anche «alle forme di convivenza», di cui all’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (Applicazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente).

Secondo il ricorrente, il richiamo operato dal legislatore regionale alle «forme di convivenza», di cui al citato d.P.R. che, nel definire la «famiglia anagrafica», ricomprende «l’insieme delle persone legate da vincoli affettivi», eccederebbe le competenze regionali, comportando un’invasione della potestà legislativa esclusiva dello Stato nelle materie di «cittadinanza, stato civile e anagrafi» e dell’«ordinamento civile». Al riguardo, il ricorrente precisa che, secondo la giurisprudenza amministrativa, la nozione di famiglia nucleare è diversa da quella di famiglia anagrafica e che, alla luce della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 253 del 2006), le Regioni possono adottare «misure di sostegno a favore di determinate categorie di persone» solo nell’ambito delle materie riservate alla propria competenza legislativa.

1.5. – Con una quinta questione il Presidente del Consiglio dei ministri impugna il comma 4 dell’art. 48 che prevede la promozione «di azioni positive per il superamento di eventuali condizioni di svantaggio derivanti da pratiche discriminatorie».

Il ricorrente ritiene che il citato comma sia in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto esso «è strettamente connesso al primo comma e segue di conseguenza l’interpretazione attribuita a quest’ultimo. Conseguentemente risulta illegittimo per gli stessi motivi che affliggono tale disposizione».

2. – Con atto depositato il 6 aprile 2010 si è costituita in giudizio la Regione Emilia-Romagna.

2.1. – Con riferimento alla censura rivolta all’art. 35 della legge regionale n. 24 del 2009 e relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, la difesa regionale eccepisce, in via preliminare, l’inammissibilità della stessa, in quanto, premesso che secondo la giurisprudenza costituzionale i livelli essenziali delle prestazioni farmaceutiche sono stabiliti dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza), il ricorrente non avrebbe indicato quale disposizione del citato decreto sia stata violata dalla Regione.

La difesa regionale precisa, inoltre, che il cennato D.P.C.M. disciplina i livelli di assistenza farmaceutica come livelli di erogazione territoriale dei farmaci, mentre, la norma impugnata si riferisce alla somministrazione di farmaci nell’ambito dell’assistenza ospedaliera.

La Regione ritiene, poi, inconferenti le norme statali richiamate dal Presidente del Consiglio dei ministri a sostegno della censura, in particolare, l’art. 6 del citato d.lgs. n. 219 del 2006 a norma del quale nessun farmaco può essere immesso in commercio senza aver ottenuto la prescritta autorizzazione. La disposizione impugnata, infatti, avrebbe ad oggetto «farmaci regolarmente autorizzati, dal momento che ne disciplina l’uso off label: “label” essendo l’uso indicato nell’autorizzazione».

Inoltre, sempre in via preliminare, ad avviso della Regione resistente, il ricorrente avrebbe citato disposizioni che, «allo scopo di impedire l’aumento della spesa, limitano le possibili prestazioni del servizio sanitario nazionale, la cui violazione dunque concettualmente» non potrebbe essere riferita alla violazione dei livelli essenziali, posto che «la Regione darebbe semmai un di più, non un di meno».

Nel merito, la difesa regionale ritiene infondata la censura, in quanto la norma impugnata non introdurrebbe alcuna restrizione alla disponibilità dei farmaci ed al loro utilizzo nel servizio sanitario ospedaliero. La norma impugnata si limiterebbe, infatti, a consentire alle strutture del servizio sanitario di utilizzare, nel rispetto della libertà del medico e del consenso informato dei pazienti, «farmaci regolarmente immessi in commercio, per usi cd. off label, quando sia scientificamente accertata la “parità di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci già autorizzati” e quando questo consenta “una significativa riduzione della spesa farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale”»; «il tutto», precisa ancora la difesa regionale, attraverso lo strumento del Prontuario terapeutico regionale e sotto il controllo tecnico di un’apposita commissione (Commissione regionale del farmaco), formata da esperti (medici, farmacisti, farmacologici, clinici del Servizio sanitario regionale, nonché da componenti delle Commissioni provinciali del farmaco).

Del pari infondata sarebbe poi la censura riferita alla violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione. Con riferimento al citato art. 6 del decreto legislativo n. 219 del 2006, la Regione ribadisce che detta disposizione non può venire in rilievo nella presente controversia, in quanto essa sancisce il divieto di immettere in commercio farmaci non autorizzati, laddove la disposizione impugnata ha ad oggetto farmaci regolarmente autorizzati.

Riguardo all’art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del 1996, secondo la difesa regionale detta disposizione deve essere letta come una «norma che fissa un livello essenziale di prestazione», con la conseguenza che la Regione non potrebbe precludere «l’erogabilità di tali farmaci».

La norma impugnata non contrasterebbe con quanto disposto dalla indicata norma statale in quanto il legislatore avrebbe provveduto proprio nel senso da essa indicato, stabilendo, in particolare, che, anche qualora esista «una alternativa terapeutica “scientificamente valida”», ma risultasse «impraticabile per ragioni di costo», come nel caso di specie, l’assistenza ospedaliera fornita dal Servizio sanitario possa utilizzare off label «principi attivi ricavati da farmaci autorizzati per altri usi». E ciò, prosegue la Regione, «quando tale estensione consenta, a parità di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci già autorizzati», di ridurre la spesa farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale.

Non risulterebbe, altresì, violato, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, l’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 23 del 1998, in quanto la disposizione impugnata non inciderebbe sulla discrezionalità del medico, la quale risulterebbe, al contrario, oggetto di specifica tutela.

Quanto all’asserito contrasto della disposizione regionale con l’art. 1, comma 796, lettera z), della legge n. 296 del 2006, la difesa regionale sottolinea che lo scopo della citata norma statale, al pari di quella regionale, è limitare la spesa. Ciò premesso, la Regione precisa che la norma impugnata non permetterebbe «un uso generale e sistematico dei farmaci in modalità off label», ma soltanto in casi specifici e «a parità di efficacia»; efficacia stabilita non dalla Regione, ma dalla «comunità scientifica dei medici».

Del tutto infondata, prosegue la difesa regionale, sarebbe anche la censura secondo la quale la norma regionale attribuirebbe ad organi politici il compito di decidere in merito a scelte che, invece, dovrebbero «basarsi su valutazioni scientifiche e della scienza medica». Al riguardo, la Regione puntualizza che la legislazione statale (sia quella che in generale prevede l’obbligo dell’equilibrio finanziario del Servizio sanitario regionale sia quella sul servizio farmaceutico e sull’uso dei farmaci nell’ambito dell’assistenza fornita dalle strutture del servizio sanitario), pone in capo alle Regioni il compito di effettuare «una “politica del farmaco”» che non «si traduce in una sovrapposizione degli organi politici alle scelte del medico […] bensì nell’organizzare le strutture tecniche del servizio sanitario», affinché «con le proprie scelte possano raggiungere gli obiettivi posti dal legislatore statale». Nella realizzazione della suddetta “politica del farmaco”, la Regione, pertanto, non potrebbe che avvalersi delle «risorse tecnico-scientifiche delle proprie strutture»; risorse che non possono essere delegittimate solo per il fatto di operare a livello regionale.

La difesa regionale, in subordine, sottolinea che in capo alle Regioni sussiste l’obbligo, la cui violazione è sanzionata dalla legislazione statale, di pareggiare i conti del Servizio sanitario e di rispettare i limiti percentuali relativi alla spesa farmaceutica. Pertanto, a suo avviso, sarebbe costituzionalmente illegittimo «porre a carico delle Regioni un obbligo», sanzionarne il mancato rispetto, «senza contestualmente attribuire il potere di controllare la spesa». Ne consegue, che qualora le disposizioni statali e, in particolare, l’art. 1, comma 796, lettera z), dovessero essere intese nel senso di «precludere al Servizio sanitario regionale l’utilizzo off label di farmaci di minor costo ma di pari efficacia dei farmaci registrati per uso specifico, quando ne fosse accertato il pari valore terapeutico», esse risulterebbero in contrasto sia con l’art. 97, primo comma, della Costituzione, con riferimento al principio di buon andamento dell’amministrazione, sia con l’art. 119 della Costituzione, «in relazione all’autonomia finanziaria dal lato della spesa».

2.2. – Successivamente la Regione procede all’esame dei motivi di censura riferiti all’art. 48 della legge n. 24 del 2009.

Per quanto attiene all’asserita illegittimità del comma 1, la resistente, nel concludere per l’infondatezza della censura, precisa che la disposizione in parola non intende attribuire ai cittadini dell’Unione specifici diritti verso «la generalità dei privati». Essa, nella parte in cui prevede che la Regione «riconosce» a tutti i cittadini dell’Unione europea i diritti di accesso ai servizi, si limiterebbe «a prendere atto della loro esistenza, ed informare il proprio comportamento al loro riconoscimento». Si tratterebbe, precisa ancora la difesa regionale, di garantire l’accesso «alle strutture private – ed in questo senso ai servizi “privati” – nell’ambito dell’azione pubblica che direttamente o indirettamente fa capo alla Regione». La disposizione pertanto non troverebbe applicazione in relazione ai pubblici esercizi ed il richiamo alla sentenza n. 253 del 2006 risulterebbe inconferente, considerato che «la situazione è del tutto diversa» rispetto a quella che ha portato la Corte a dichiarare incostituzionale, con la predetta sentenza, la disposizione regionale che prevedeva obblighi di contrarre tra privati, sanzionandone l’eventuale inosservanza.

2.3. – Anche la censura che investe il comma 2 dell’art. 48 sarebbe infondata, poiché la disposizione in parola non avrebbe «un vero carattere normativo»; essa si limiterebbe ad esprimere «in forma solenne l’adesione della Regione ai valori di civiltà espressi dalle direttive». La resistente contesta poi l’assunto del ricorrente secondo cui la nozione di non discriminazione rientrerebbe nell’ambito della materia «ordinamento civile». Al riguardo, secondo la difesa regionale, si tratterebbe, piuttosto, di una nozione di diritto costituzionale generale «che può e deve trovare applicazione nei diversi settori dell’ordinamento, ivi compreso quello dei servizi dell’amministrazione».

Quanto all’asserito contrasto del citato comma 2 con l’art. 117, quinto comma, della Costituzione, la difesa regionale ritiene che la censura, fondandosi sulla presunta incompetenza della Regione in materia di non discriminazione, risulterebbe una mera «ripetizione della censura precedente». Non essendovi, inoltre, alcun «profilo specifico», in relazione al suddetto parametro costituzionale, sempre secondo la resistente, la censura sarebbe anche inammissibile.

La Regione ritiene poi infondata la censura avente ad oggetto la violazione dell’art. 3 della Costituzione, in quanto il disposto costituzionale asseritamente violato, nel sancire che spetta alla Repubblica rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che limiti di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, non intenderebbe riferirsi solo allo Stato, come erroneamente affermato dal ricorrente, ma «a tutti gli enti che costituiscono la Repubblica, ciascuno nell’ambito della propria competenza». Inoltre, la resistente precisa che la legge regionale non disciplina in materia di discriminazione, introducendo forme differenziate di tutela, «ma si limita ad applicare nell’esercizio della propria competenza il principio di non discriminazione, evitando discipline discriminatorie».

2.4. – Riguardo alla censura che investe il comma 3 del citato art. 48, la difesa regionale eccepisce, in via preliminare, l’inammissibilità della stessa per genericità. Il ricorrente, infatti, avrebbe «semplicemente affermato, ma per nulla illustrato» i motivi dell’asserito contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettere i) e l), della Costituzione. Nel merito, la censura sarebbe infondata, in quanto la disposizione regionale si limiterebbe ad «utilizzare la nozione fornita dalla legge statale per individuare i destinatari delle proprie norme», senza disciplinare nelle materie della «cittadinanza, stato civile e anagrafi» e «ordinamento civile». La resistente sottolinea al riguardo che, sulla base della giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 253 del 2006), una legge regionale può utilizzare nozioni derivanti dalla legislazione statale.

2.5. – Infine, anche la censura relativa al comma 4 sarebbe inammissibile per genericità, non avendo il ricorrente illustrato «la presunta connessione con il comma 1, né quale interpretazione di questo potrebbe o dovrebbe essere seguita».

Nel merito, la censura risulterebbe comunque infondata perché la disposizione prevede interventi promozionali «che non si traducono in atti di autorità, ma suggeriscono azioni di contrasto alle pratiche discriminatorie su base puramente volontaria».

3. – In prossimità dell’udienza il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria con la quale ribadisce le argomentazioni esposte nel ricorso ed insiste per la declaratoria di incostituzionalità delle norme regionali impugnate.

4. – Anche la difesa regionale ha depositato una memoria, allegando tra l’altro alcuni documenti, con la quale insiste per l’infondatezza del ricorso.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, commi secondo, lettere i), l), m), terzo e quinto, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 48 della legge della Regione Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’art. 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010-2012).

1.1. – L’art. 35 è impugnato nella parte in cui attribuisce alla Regione il potere di prevedere, in fase di aggiornamento del prontuario terapeutico regionale, «l’uso di farmaci anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in commercio». Ad avviso del ricorrente, la citata norma violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto esorbiterebbe dalle competenze regionali ed invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato in materia di livelli essenziali delle prestazioni. In particolare, essa inciderebbe negativamente su questi ultimi, poiché darebbe luogo ad «una disparità di trattamento tra gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori del SSN su scala nazionale» e consentirebbe un «decremento […] del regime di assistenza sanitaria riconosciuto, consistente nell’impiego improprio di medicinali».

In via subordinata, si deduce che la norma impugnata violerebbe, altresì, l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, che riserva alla potestà legislativa concorrente la disciplina della tutela della salute, in quanto risulterebbe in contrasto con i principi fondamentali dettati dal legislatore riguardo alle modalità e alle procedure per l’uso dei farmaci cd. off label, ovvero non inclusi nel prontuario farmaceutico.

1.1.1. – In via preliminare, deve essere dichiarata fondata l’eccezione di inammissibilità proposta dalla Regione resistente in relazione all’asserito contrasto dell’impugnato art. 35 con l’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto la censura risulta formulata in modo generico. Il ricorrente, infatti, ha omesso di indicare la disposizione statale contenuta nel D.P.C.M. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza) con la quale la norma regionale risulterebbe in contrasto e si è limitato ad affermare, in modo apodittico, che la norma impugnata «impatta negativamente sui LEA, determinando una evidente disparità di trattamento tra gli assistiti soggetti alle sue disposizioni ed il resto dei fruitori del SSN su scala nazionale, consentendo un evidente decremento del regime di assistenza sanitaria riconosciuto, consistente nell’impiego improprio di medicinali».

Tale omissione rende inammissibile la censura, poiché questa Corte ha già affermato che «l’inserimento nel secondo comma dell’art. 117 del nuovo Titolo V della Costituzione, fra le materie di legislazione esclusiva dello Stato, della “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” attribuisce al legislatore statale un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto» e che «la conseguente forte incidenza sull’esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed amministrative delle Regione e delle Province autonome» comporta «che queste scelte, almeno nelle loro linee generali, siano operate dallo Stato con legge, che dovrà inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori» (sentenza n. 88 del 2003, nonché sentenza n. 134 del 2006).

1.1.2. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 35, prospettata con riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, è fondata.

Prima di procedere all’esame della censura, appare opportuno ricostruire il quadro normativo entro il quale si inserisce la questione oggetto del presente giudizio. Al riguardo va osservato che il legislatore statale, nell’esercizio della propria competenza concorrente in materia di tutela della salute, è più volte intervenuto per individuare i principi fondamentali volti a regolare le modalità ed i criteri in base ai quali è ammesso l’uso dei farmaci al di fuori delle indicazioni per le quali è stata autorizzata la loro immissione in commercio (AIC).

L’art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 536 del 1996 (Misure per il contenimento della spesa farmaceutica e la rideterminazione del tetto di spesa per l’anno 1996), convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, statuisce che, «qualora non esista valida alternativa terapeutica, sono erogabili a totale carico del SSN, a partire dal 1° gennaio 1997, i medicinali innovativi la cui commercializzazione è autorizzata in altri Stati ma non sul territorio nazionale, i medicinali non ancora autorizzati ma sottoposti a sperimentazione clinica e i medicinali da impiegare per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata, inseriti in un apposito elenco predisposto e periodicamente aggiornato dalla Commissione unica del farmaco [oggi sostituita dall’Agenzia Italiana del Farmaco] conformemente alle procedure ed ai criteri adottati dalla stessa».

Con il successivo decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23 (Disposizioni urgenti in materia di sperimentazioni cliniche in campo oncologico e altre misure in materia sanitaria), convertito in legge con modificazioni dalla legge 8 aprile 1998, n. 94, il legislatore statale è nuovamente intervenuto nella materia considerata.

In particolare l’art. 3, comma 2, del citato decreto-legge prevede che il medico, in deroga al principio generale secondo cui, nel prescrivere una specialità medicinale o altro medicinale prodotto industrialmente, è tenuto ad attenersi «alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della Sanità», può «in singoli casi, sotto la sua diretta responsabilità e previa informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata, ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’art. 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536». Tale potere del medico è subordinato all’accertamento, «in base a dati documentabili», che il paziente «non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione e purché tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale».

Il successivo comma 4 precisa, inoltre, che «in nessun caso il ricorso, anche improprio, del medico alla facoltà prevista dai commi 2 e 3 può costituire riconoscimento del diritto del paziente all’erogazione dei medicinali” a carico del SSN, al di fuori dell’ipotesi disciplinata dal citato art. 1, comma 4, del d.l. n. 536 del 1996».

L’art. 6, comma 1, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 219 (Attuazione della direttiva 2001/83/CE (e successive direttive di modifica) relativa ad un codice comunitario concernente i medicinali per uso umano, nonché della direttiva 2003/94/CE), a sua volta, sancisce il principio di carattere generale, secondo cui nessun medicinale può essere immesso in commercio sul territorio nazionale senza aver ottenuto un’autorizzazione dell’AIFA o un’autorizzazione comunitaria a norma del regolamento CE n. 726/2004, in combinato disposto con il regolamento CE n. 1394/2007. Il successivo comma 2 stabilisce poi che «quando per un medicinale è stata rilasciata una AIC ai sensi del comma 1, ogni ulteriore dosaggio, forma farmaceutica, via di somministrazione e presentazione, nonché le variazioni ed estensioni sono ugualmente soggetti ad autorizzazione ai sensi dello stesso comma 1».

Al fine di circoscrivere ulteriormente le condizioni in base alle quali è possibile fare ricorso a medicinali per indicazioni terapeutiche diverse da quelle autorizzate, il legislatore statale, ancor più recentemente, con l’art. 2, comma 348, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge finanziaria 2008), ha stabilito che «In nessun caso il medico curante può prescrivere, per il trattamento di una determinata patologia, un medicinale di cui non è autorizzato il commercio quando sul proposto impiego del medicinale non siano disponibili almeno dati favorevoli di sperimentazioni cliniche di fase seconda. Parimenti, è fatto divieto al medico curante di impiegare, ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 1998, n. 94, un medicinale industriale per un’indicazione terapeutica diversa da quella autorizzata ovvero riconosciuta agli effetti dell’applicazione dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, qualora per tale indicazione non siano disponibili almeno dati favorevoli di sperimentazione clinica di fase seconda».

La medesima legge, all’art. 2, comma 349, ha attribuito alla Commissione tecnico-scientifica dell’Agenzia Italiana del Farmaco, in sostituzione della Commissione unica del farmaco, la competenza di valutare, «oltre ai profili di sicurezza, la presumibile efficacia del medicinale, sulla base dei dati disponibili delle sperimentazioni cliniche già concluse, almeno di fase seconda»; competenza, quest’ultima, che deve essere esercitata proprio in riferimento alle «decisioni da assumere ai sensi dell’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 21 ottobre 1996, n. 536, convertito dalla legge 23 dicembre 1996, n. 648, e dell’articolo 2, comma 1, ultimo periodo, del decreto-legge 17 febbraio 1998, n. 23, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 1998, n. 94».

1.1.3. – Nel riportato quadro normativo si inserisce la disposizione regionale censurata.

Essa attribuisce alla Regione il potere di prevedere, in fase di aggiornamento del Prontuario terapeutico regionale e avvalendosi della Commissione regionale del farmaco, «l’uso di farmaci anche al di fuori delle indicazioni registrate nell’autorizzazione all’immissione in commercio, quando tale estensione consenta, a parità di efficacia e di sicurezza rispetto a farmaci già autorizzati, una significativa riduzione della spesa farmaceutica a carico del Servizio sanitario nazionale e tuteli la libertà di scelta terapeutica da parte dei professionisti del SSN».

Risulta evidente il contrasto tra la norma regionale e le richiamate disposizioni statali. La norma impugnata, infatti, individua condizioni diverse rispetto a quelle stabilite dal legislatore per l’uso dei farmaci al di fuori delle indicazioni registrate nell’AIC. In particolare, laddove le disposizioni statali circoscrivono il ricorso ai farmaci cd. off label a condizioni eccezionali e ad ipotesi specificamente individuate, la norma regionale introduce una disciplina generalizzata in ordine all’indicato utilizzo dei farmaci, rimettendo i criteri direttivi alla Commissione regionale del farmaco, così eludendo il ruolo che la legislazione statale attribuisce all’Agenzia Italiana del Farmaco nella materia considerata.

A quest’ultimo riguardo deve osservarsi che questa Corte, con la sentenza n. 185 del 1998, ha già affermato che competono allo Stato le responsabilità, «attraverso gli organi tecnicoscientifici della sanità, con riguardo alla sperimentazione e alla certificazione d’efficacia, e di non nocività, delle sostanze farmaceutiche e del loro impiego terapeutico a tutela della salute pubblica».

Sempre al fine di assicurare la protezione della salute pubblica, con la sentenza n. 282 del 2002 questa Corte ha avuto modo, altresì, di precisare che «un intervento sul merito delle scelte terapeutiche in relazione alla loro appropriatezza non potrebbe nascere da valutazioni di pura discrezionalità politica dello stesso legislatore, bensì dovrebbe prevedere l’elaborazione di indirizzi fondati sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali acquisite, tramite istituzioni e organismi – di norma nazionali o sovranazionali – a ciò deputati» .

Pertanto, la violazione dei citati principi generali posti dalla legislazione statale comporta la declaratoria di illegittimità della norma regionale in esame.

1.2. – L’art. 48, comma 1, è impugnato nella parte in cui «riconosce a tutti i cittadini di Stati appartenenti alla Unione europea il diritto di accedere alla fruizione dei servizi pubblici e privati in condizioni di parità di trattamento e senza discriminazione, diretta o indiretta, di razza, sesso, orientamento sessuale, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. L’accesso ai servizi avviene a parità di condizioni rispetto ai cittadini italiani e con la corresponsione degli eventuali contributi da questi dovuti». Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la citata disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto introdurrebbe «un’ipotesi di obbligo legale a contrarre», incidendo così sull’autonomia negoziale dei privati.

1.2.1. – La questione non è fondata.

La disposizione si limita a richiamare l’obbligo del necessario rispetto del principio di eguaglianza e di non discriminazione tratti dalla Costituzione e dai Trattati europei. Ne consegue che la disposizione impugnata non è idonea a ledere alcuna competenza riservata allo Stato.

1.3. – L’art. 48, comma 2, è impugnato nella parte in cui prevede che la Regione «assume» la nozione di discriminazione diretta ed indiretta contenuta nella direttiva 2000/43/CE del Consiglio dell’Unione europea, relativa al principio della parità di trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, nella direttiva 2000/78/CE del Consiglio dell’Unione europea, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, e nella direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa all’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego. Ad avviso del ricorrente la norma violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto spetta «alla Repubblica il compito di rimuovere ogni ostacolo di ordine economico e sociale che limiti di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini». La disposizione impugnata risulterebbe, altresì, in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, poiché «il concetto di discriminazione» rientrerebbe nella «materia ordinamento civile», di competenza esclusiva dello Stato. Essa, infine, violerebbe l’art. 117, quinto comma, della Costituzione, attraverso il parametro interposto costituito dall’art. 16 della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), in quanto la Regione avrebbe «recepito» atti comunitari in una materia che esula dalla propria competenza esclusiva.

1.3.1. – La questione non è fondata.

Con tale disposizione il legislatore regionale non ha provveduto ad attuare atti comunitari, ma si è limitato, evidentemente con riferimento all’esercizio delle molteplici competenze di cui è titolare, a servirsi delle “nozioni” desumibili dal diritto comunitario ai fini dell’autonomo svolgimento delle attribuzioni regionali.

La norma impugnata, pertanto, non è suscettibile di recare alcun vulnus alle competenze statali.

1.4. – L’art. 48, comma 3, è censurato nella parte in cui prevede che «i diritti generati dalla legislazione regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi, si applicano» anche «alle forme di convivenza» di cui all’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 1989, n. 223 (Applicazione del nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente). Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la citata disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettere i) e l), della Costituzione, poiché il richiamo operato dal legislatore regionale alle «forme di convivenza», di cui al citato d.P.R. che, nel definire la «famiglia anagrafica», ricomprenderebbe «l’insieme delle persone legate da vincoli affettivi», eccederebbe le competenze regionali ed invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato nelle materie di «cittadinanza, stato civile e anagrafi» e dell’«ordinamento civile».

1.4.1. – In via preliminare, va rigettata l’eccezione di inammissibilità per genericità della motivazione sollevata dalla difesa regionale, posto che le argomentazioni sviluppate dal ricorrente sono sufficienti per l’individuazione dell’oggetto della doglianza.

Nel merito la questione non è fondata.

La censura si fonda sull’erroneo presupposto interpretativo, secondo cui il legislatore regionale ha inteso disciplinare tali forme di convivenza. Viceversa, la norma impugnata si limita ad indicare l’ambito soggettivo di applicazione dei diritti previsti dalla legislazione regionale nell’accesso ai servizi, alle azioni e agli interventi senza introdurre alcuna disciplina sostanziale delle forme di convivenza.

Pertanto, essa risulta inidonea ad invadere àmbiti costituzionalmente riservati allo Stato.

1.5. – L’art. 48, comma 4, è impugnato nella parte in cui prevede che la Regione promuove «azioni positive per il superamento di eventuali condizioni di svantaggio derivanti da pratiche discriminatorie». La disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto, «pur contenendo una norma programmatica priva di immediato rilievo costituzionale, è strettamente conness[a] al primo comma e segue di conseguenza l’interpretazione attribuita a quest’ultimo». Pertanto, secondo il ricorrente, la disposizione risulterebbe illegittima «per gli stessi motivi che affliggono» il primo comma dell’art. 48.

1.5.1. – L’eccezione di inammissibilità della questione, sollevata dalla difesa regionale, è fondata.

La censura, infatti, è formulata in modo generico, senza una sufficiente ed autonoma motivazione in ordine alla dedotta lesione del parametro costituzionale invocato.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 35 della legge della Regione Emilia-Romagna 22 dicembre 2009, n. 24 (Legge finanziaria regionale adottata a norma dell’art. 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l’approvazione del bilancio di previsione della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2010 e del bilancio pluriennale 2010-2012);

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 48, comma 4, della legge regionale n. 24 del 2009, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 48, comma 1, della legge regionale n. 24 del 2009, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 48, comma 2, della legge regionale n. 24 del 2009, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento agli articoli 3 e 117, commi secondo, lettera l), e quinto della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 48, comma 3, della legge regionale n. 24 del 2009, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere i) e l) della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 gennaio 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2011.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA