Tribunale di Trieste, ordinanza del 2 dicembre 2011

Il giudice, dr. Massimo Tomassini,

letti gli atti del presente procedimento nei confronti di (…) Attualmente tratto giudizio in ordine ai reati di cui in epigrafe

osserva

quanto segue in punto procedibilità dell’azione penale e qualificazione giuridica dei fatti posti alla base delle contestazioni di cui A rubrica, e ciò in special modo rispetto al delitto di cui al capo B), capo attualmente rubricato ex art. 612, II comma c.p. con l’aggravante di aver effettuato la minaccia con comunicazione anonima.

Il Giudice, tenuto conto del tenore della contestata “minaccia” rivolta alla P. O. (…) è dell’avviso che nel caso di specie debba essere riconosciuta – in quanto se non altro implicitamente contestata -la circostanza aggravante di cui all’articolo 3 della L. 205/1993, e che di conseguenza gli atti del presente procedimento, avuto riguardo al combinato disposto di cui all’articolo 6 della medesima legge, nonché all’art. 33 bis I comma p) c.p.p. debbano essere con la presente ordinanza ritrasmessi al PM c/o Tribunale in Sede affinché costui voglia valutare nuovo esercizio dell’azione penale, azione penale che in simile ipotesi non potrà che transitare per il vaglio del Giudice per la Udienza Preliminare, trattandosi di reato destinato ad essere conosciuto dal Tribunale in composizione collegiale.

In verità, a sostegno di simile interpretazione militano, ad avviso del sottoscritto Giudice, le seguenti considerazioni.

Come noto, l’art. 3 L. 205/1993 stabilisce l’applicazione di una circostanza d’effetto speciale e soprattutto la procedibilità d’ufficio per i reati aggravati dalla “finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale religioso”.

Ebbene, si pone a questo punto il problema se nelle espressioni addebitate al prevenuto al reato di cui sub b) della epigrafe (espressioni che devono in questa sede darsi per integralmente riportate trascritte, oltre che richiamate) si possa scorgere la circostanza aggravante de qua , con ogni conseguenziale provvedimento.

Ora, è il Giudice dell’opinione che vero e proprio perno interpretativo della disposizione normativa in oggetto sia costituito dall’avversativa “o”, avversativa posta a cavallo tra due concetti affatto diversi sotto ogni punto di vista, e cioè la “discriminazione” nonché “l’odio”.

Invero, se è fuori discussione che detto “odio”, pena l’inaccettabile ricorso ad una analogia in malam partem , possa essere sussunto alla stregua della norma in questione solo ed esclusivamente allorché caratterizzato da ragioni etniche, nazionali, razziali o religiose, è, se non altro opinione di questo Giudice, altrettanto vero che la precedente “discriminazione” non sia necessariamente ricollegabile alle caratteristiche ore elencate, e che di conseguenza la medesima, ove ravvisabile, comporti di per sé la integrazione della aggravante in questione.

In realtà, scopo del Legislatore nel redigere la norma in questione non poteva che essere quello di punire con maggiore severità tutti comportamenti finalizzati a creare “discriminazione” (e cioè diversificazione iniqua del giudizio, disparità di trattamento, in spregio a fondamentali principi di uguaglianza sociale o politica), ovvero ancora, appunto, “odio”.

Solo in quest’ultimo caso, tuttavia, il citato Legislatore ha inteso lumeggiare e tratteggiare simile “sentimento”, di modo che la singola espressione offensiva che dovesse denigrare taluno in relazione al suo orientamento sessuale sarebbe immune da critiche ex L. 205/1993, posto che in detto caso per certo vi sarebbe, come dinanzi evocato, una analogia in malam partem inammissibile in ambito penale.

Tuttavia, come in qualche modo anticipato, simile “differenziazione” legislativa non è stata posta in essere in relazione alla pur ricordata “discriminazione”, condotta che del resto è in sé autonoma, nel senso che può trarre la propria ragion d’essere da una serie indeterminata, forse indeterminabile, di eventi di varia natura.

Stando così le cose, ritiene il Giudice che se l’espressione “frocio bastardo” è in sé non apprezzabile ai sensi della c. d. Legge Mancino, a differenti di conclusioni debba invece pervenirsi al passaggio nel quale viene al (…) contestato di aver scritto al (…) “d’ora in poi guardati le spalle! Siamo pronti e organizzati e tu sarai il primo frocio dell’Università a pagarla per lo schifo che fai. Una di queste sere quando esci di casa ti prendiamo e te ne diamo tante che quando abbiamo finito non piacerai più neanche ai tuoi amici succhia cazzi! Tu e quelli del tuo gruppo uguali ma froci verrete eliminati tutti!”.

Invero, in queste specifiche frasi ciò che emerge è una vera e propria “differenziazione” (dunque discriminazione) a più livelli (sociale; universitario etc. etc.) nonché destinata ad esplicare i propri (assai poco gradevoli…) effetti non solo su un determinato soggetto (nella fattispecie il (…)), bensì su una intera categoria di persone che dovessero avere analogo orientamento sessuale.

Ecco, dunque, che in questo caso il senso della norma induce a ritenere che l’interesse tutelato, nel caso della “discriminazione”, non sia più quello del singolo soggetto colpito raggiunto da una determinata condotta, bensì di una diffusa categoria di individui con conseguente “spersonalizzazione” dell’interesse alla repressione della condotta incriminata.

In altre parole, cioè, a fronte di una “discriminazione” di qualsiasi natura è come se lo Stato si fosse preso il diritto di spogliare il singolo della facoltà o meno di richiedere una sanzione penale, con conseguente – come nel caso di specie – procedibilità non già a querela di parte bensì di ufficio.

Del resto, là dove si riconosca che persona offesa dal reato sia una intera, e di per sé “indefinibile” nel vero senso del termine, categoria di soggetti, è francamente inevitabile che si proceda d’ufficio, posto che vi sarebbe una impersonalizzazione dell’interesse ad agire, interesse ad agire che non potrebbe più essere lasciato nella disponibilità del singolo soggetto interessato.

Ecco, dunque, che sotto questo profilo la norma di cui all’art. 3 L. 205/1993 parrebbe avere un senso completo, in quanto potenzialmente destinata a coprire, per un verso o per l’altro, ogni forma di discriminazione o di odio “qualificato” nei confronti di un qualunque consociato.

Del resto, linguisticamente parlando ove gli aggettivi seguenti al termine “odio” fossero stati riferiti anche alla “discriminazione” vi sarebbe stata una loro declinazione al plurale, e ciò a fronte di un riutilizzo, al contrario, di un genere solo ed esclusivamente maschile.

Ne deriva, dunque, la riqualificazione del fatto di cui sub b) mediante contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 3, I comma L. 205/1993, con relativa necessità di trasmissione degli atti del procedimento al Procuratore della Repubblica c/o Tribunale in Sede per quanto di Sua ulteriore competenza.

P.Q.M.

Il Giudice previa riqualificazione del fatto di cui sub b) della rubrica mediante contestazione all’imputato della circostanza aggravante di cui all’art. 3, I comma L. 205/1993,

ORDINA

La trasmissione degli atti del procedimento al Procuratore della Repubblica c/o Tribunale in Sede per quanto di Sua ulteriore competenza.

Trieste, 2.12.2011

                                      il giudice