Corte di cassazione, prima sezione, sentenza n. 8029 del 22 aprile 2020

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 21117/2019 R.G. proposto da:

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., ed UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO – PREFETTURA DI PISTOIA, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi dall’Avvocatura

generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– ricorrenti –

contro

N.B., e L.G.D., in proprio e nella qualità di legali rappresentanti del minore N.E., rappresentate e difese dall’Avv. Federica Tempori, con domicilio eletto in Roma, via Gregoriana, n. 54, presso lo studio dell’Avv.

Vincenzo Miri;

– controricorrenti –

e

PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI FIRENZE e PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI PISTOIA;

– intimati –

avverso il decreto della Corte d’appello di Firenze depositato il 19 aprile 2019.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 gennaio 2020

dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

uditi l’Avvocato dello Stato Wally Ferrante e l’Avv. Federica Tempori;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, che ha concluso chiedendo in via preliminare la rimessione della causa alle Sezioni Unite, ed in

subordine l’accoglimento del secondo e del terzo motivo di ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. N.B., in proprio e nella qualità di genitore esercente la responsabilità nei confronti di N.E., e L.G.D. proposero ricorso al Tribunale di Pistoia, per sentir dichiarare illegittimo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile del Comune di (OMISSIS) alla ricezione della dichiarazione di riconoscimento del minore quale figlio naturale di entrambe le donne.

Premesso di essere unite civilmente fin dal mese di (OMISSIS), le ricorrenti esposero che il minore, nato a (OMISSIS) e partorito dalla N., era stato dalla stessa concepito mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, effettuata all’estero senza alcun apporto biologico della L., la quale aveva tuttavia prestato il proprio consenso all’intervento.

1.1. Con decreto del 17 luglio 2018, il Tribunale di Pistoia accolse la domanda, dichiarando illegittimo il rifiuto dell’ufficiale di stato civile e disponendo la rettificazione dell’atto di nascita del minore, ai sensi del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, art. 95, mediante la sostituzione di quello esistente e la formazione di un nuovo atto di contenuto analogo, ma con l’indicazione di entrambe le ricorrenti in qualità di madri e l’attribuzione al minore dei relativi cognomi.

2. Il reclamo proposto dal Pubblico Ministero è stato rigettato dalla Corte d’appello di Firenze con decreto del 19 aprile 2019.

A fondamento della decisione, la Corte ha dichiarato innanzitutto ammissibile l’intervento spiegato in appello dal Ministero dell’interno e dalla Prefettura di Pistoia, osservando che nel procedimento di cui al D.P.R. n. 396 del 2000, art. 95, la legittimazione passiva spetta al Pubblico Ministero, titolare del potere di iniziativa e portatore del correlato interesse pubblico, ma precisando che nulla impedisce all’ufficiale di stato civile di intervenirvi ad adiuvandum, per far valere l’interesse pubblico sotteso alla condotta censurata, ed affermando pertanto la legittimità dell’intervento del Ministero, al quale spetta il potere d’impartire istruzioni all’ufficiale di stato civile, e del Prefetto, al quale spetta la vigilanza sugli uffici di stato civile.

Nel merito, premesso che la L. 19 febbraio 2004, n. 40, vieta il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, ha rilevato che, nonostante la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di tale divieto per le coppie alle quali sia stata diagnosticata una patologia che costituisca causa d’infertilità assoluta ed irreversibile o e per quelle portatrici di malattie genetiche trasmissibili, è rimasta inalterata l’impostazione di fondo della legge, la quale consente il ricorso alla procreazione medicalmente assistita soltanto a coppie formate da persone maggiorenni, di sesso diverso, coniugate e conviventi, in età potenzialmente fertile ed ancora viventi, purchè sia accertata l’impossibilità di rimuovere la causa impeditiva della procreazione, sussista il consenso informato di entrambi i componenti della coppia, e la procedura si svolga presso strutture pubbliche o private autorizzate dalla Regione. Ha osservato peraltro che la stessa normativa esclude la punibilità di coloro che si siano sottoposti alle predette tecniche, confermando il divieto di anonimato per la madre biologica e il divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso, ed escludendo l’acquisto di diritti da parte del terzo donatore di gameti. Ha ritenuto pertanto che dalla predetta disciplina possa desumersi il riconoscimento della preminenza, rispetto alla sua violazione, dell’interesse del minore alla genitorialità completa ed al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al complessivo esito dell’assunzione di responsabilità da parte di entrambi i genitori e della procreazione assistita di uno di essi, affermando conseguentemente l’incongruenza di un’interpretazione sistematica che a causa dell’illegittima condotta dei coniugi o conviventi non punisca gli stessi ma recida ogni rapporto tra il figlio biologico di uno di essi e l’altro coniuge o convivente che abbia prestato il proprio consenso alla nascita. Ha aggiunto che, in assenza di una specifica previsione, tale risultato ermeneutico, riguardante l’illegittimo ricorso alla procreazione medicalmente assistita nel territorio dello Stato, può essere esteso, pena un’inammissibile disparità di trattamento, anche all’ipotesi in cui tale condotta sia tenuta all’estero, in un Paese in cui la predetta pratica sia consentita, con garanzie analoghe a quelle dell’ordinamento italiano.

Quanto poi alla possibilità di estendere il predetto riconoscimento alla coppia omosessuale, la Corte ha richiamato le norme costituzionali che riconoscono i diritti inviolabili dell’uomo e la pari dignità sociale di tutti i cittadini davanti alla legge, nonchè l’impegno della Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà dei cittadini ed impediscono il pieno sviluppo della persona umana, evidenziando l’apertura delle predette disposizioni a nuove fattispecie, e la conseguente emersione di nuovi diritti, derivanti dall’evoluzione della coscienza sociale, nonchè l’esigenza di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo degli stessi, che costituiscano frutto di contrapposte valutazioni etiche. Premesso che in materia di genitorialità la predetta esigenza si pone da un lato con riguardo al diritto alla salute, alla procreazione ed all’integrità personale, coinvolti nella procreazione medicalmente assistita, dallo altro con riguardo al diritto all’identità di ciascun individuo, in particolare all’identità sessuale, correlato alle unioni civili, ha affermato che la tutela degli stessi, ormai entrati a far parte del patrimonio culturale e giuridico dello Stato, risulta condizionata dal rispetto di valori di rango superiore alla cui luce vanno letti, con l’unico limite della lesione di antagonisti diritti di uguale rango. Ha escluso peraltro la necessità di sottoporre la questione alla Corte costituzionale, affermando la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, fondata sulla valutazione della fattispecie in questione alla stregua di un bilanciamento fra principi di pari rango, costituiti rispettivamente dal diritto del concepito alla completa genitorialità, dal diritto alla famiglia, alla salute ed alla procreazione della coppia che abbia acceduto ad una pratica di procreazione medicalmente assistita e dal diritto della coppia omosessuale legata da un’unione civile a dispiegare in tale unione la propria personalità anche attraverso un progetto di genitorialità condivisa, e comunque a non essere discriminata per ragioni legate alla propria inclinazione sessuale. Ciò posto, e rilevato che la scienza e la coscienza sociale da tempo non reputano più patologica la condizione di omosessualità, ha evidenziato che lo stesso Giudice delle leggi ravvisa nell’unione omosessuale una formazione sociale idonea a consentire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, aggiungendo che la giurisprudenza ha ormai ammesso la possibilità che tale formazione sociale si estenda fino ad includere progetti di genitorialità legale, attraverso l’adozione di un minore. Ha escluso che il riconoscimento del diritto alla bigenitorialità possa comportare, nel caso di specie, un’incontrollata diffusione di una genitorialità meramente intenzionale, dal momento che la genitorialità legale resta subordinata ad una specifica assunzione di responsabilità della coppia, al previo consenso informato e ad una disciplina complessiva della procreazione medicalmente assistita conforme all’ordine pubblico interno. Ha ritenuto infine inappropriato il richiamo al principio di tipicità della trascrizione di atti dello stato civile, osservando che gli stessi costituiscono ricezione e mera attestazione di eventi sostanziali, la cui conformità alla legge esclude l’ammissibilità di un rifiuto.

3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione il Ministero dell’interno e l’Ufficio Territoriale del Governo – Prefettura di Pistoia per tre motivi. La N. e la L. hanno resistito con controricorso, illustrato anche con memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano l’eccesso di potere giurisdizionale, affermando che, nell’ordinare la trascrizione nei registri dello stato civile di una piena genitorialità omosessuale riguardante un individuo nato in Italia, il decreto impugnato ha disposto la formazione di un atto dello stato civile atipico, in assenza di una norma di legge che lo preveda, in tal modo invadendo la sfera di discrezionalità politica spettante al legislatore. Premesso che il nostro ordinamento prevede, oltre alla filiazione biologica, matrimoniale o naturale, tra persone di sesso diverso, quella adottiva, caratterizzata dall’assenza di un legame biologico, e quella derivante da procreazione medicalmente assistita, con o senza legame biologico, ma sempre tra persone di sesso diverso, rilevano che la possibilità di accedere alla filiazione adottiva o alla procreazione medicalmente assistita tra persone dello stesso sesso senza legame biologico è espressamente esclusa dalla legge; affermano che tale divieto non comporta alcuna discriminazione, essendo previste forme giuridiche idonee a costituire un rapporto di responsabilità di tipo genitoriale indipendentemente dalla discendenza biologica, e spettando esclusivamente al legislatore una politica di sostegno delle coppie omosessuali, non necessariamente volta all’eliminazione di qualsiasi disparità di trattamento. Precisato inoltre che l’eventuale contrarietà di tale disciplina ai principi costituzionali dovrebbe essere denunciata mediante la proposizione della questione di legittimità costituzionale, osservano che la Costituzione non prevede una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, e che la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori non implica che la stessa possa esercitarsi senza limiti; aggiungono che, come riconosciuto dalla Corte EDU, il divieto della fecondazione eterologa non comporta una violazione dell’art. 8 della CEDU, non eccedendo il margine di discrezionalità garantito agli Stati, e non risultando tutelato il semplice desiderio di fondare una famiglia; evidenziano che anche la prevalenza dell’interesse del minore non ha carattere assoluto, comportando una deroga alle preclusioni derivanti dalla contrarietà all’ordine pubblico, e dovendo quindi trovare applicazione secondo canoni di proporzionalità e bilanciamento; sostengono comunque che nel caso in esame non è in gioco l’interesse del minore, dal momento che il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile non è idoneo a pregiudicare la stabilità del contesto familiare in cui si svolge la vita di relazione dell’interessato.

2. Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la violazione e/o la falsa applicazione del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 30, art. 269 c.c. e della L. n. 40 del 2004, artt. 4,5,8 e 12, sostenendo che la norma che regola la formazione dell’atto di nascita va letta congiuntamente con le disposizioni del codice civile che disciplinano la filiazione, le quali non solo postulano la diversità di sesso tra i genitori, ma attribuiscono la qualità di madre esclusivamente a colei che partorisce. Tali disposizioni dimostrano che il substrato sostanziale dell’attribuzione giuridica della maternità è costituito dal rapporto genetico di discendenza, quale fatto oggettivo accertabile in sede giudiziale, ed escludono pertanto la possibilità di ricollegare l’assunzione della predetta qualità ad un atto volitivo-negoziale, così come la possibilità che esistano due madri aventi la medesima relazione giuridica con il figlio.

3. Con il terzo motivo, il ricorrenti insistono sulla violazione e/o la falsa applicazione della L. n. 40 del 2004, artt. 4,5,8 e 12, osservando che, nel ritenere consentita la genitorialità omosessuale, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle predette disposizioni, il decreto impugnato non ha tenuto conto del divieto della procreazione medicalmente assistita, dalle stesse imposto alle coppie omosessuali. Sostengono che la valorizzazione della genitorialità condivisa apre il varco ad una concezione del tutto svincolata dalle regole biologiche, facendo dipendere esclusivamente dalla volontà la sua attuazione e spostando su un piano meramente potestativo l’attribuzione dello status filiationis, finora pacificamente ritenuto sottratto alla disponibilità delle parti. Premesso che, anche a seguito della parziale dichiarazione d’illegittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, l’ampliamento delle ipotesi di filiazione, derivante dall’introduzione della disciplina della procreazione medicalmente assistita, resta finalizzato esclusivamente a consentire la filiazione a coppie che in astratto potrebbero procreare ma che in concreto ne sono impedite, rilevano che per le coppie omosessuali l’impedimento deriva invece da un limite naturale, che rende impossibile la generazione di figli se non attraverso il ricorso a pratiche mediche richiedenti la cooperazione di terzi: negano pertanto la sussistenza della disparità di trattamento prospettata dal decreto impugnato, ponendo in risalto la diversità delle situazioni poste a confronto, ed evidenziando che la materia della filiazione e dell’adozione non ha trovato spazio neppure nella L. 20 maggio 2016, n. 76, la quale, nell’ammettere le unioni civili fra individui dello stesso sesso, ha escluso l’applicabilità delle relative disposizioni al di fuori dell’ambito espressamente previsto. Affermano, per converso, che dare copertura giuridica a situazioni giuridiche formatesi all’estero comporterebbe una disparità di trattamento rispetto a quelle sorte in Italia, incentivando comportamenti non solo elusivi dell’ordinamento italiano, ma posti in essere in dispregio delle norme interne. Ribadiscono inoltre che il mancato riconoscimento della doppia genitorialità non comporta alcuna lesione dell’interesse del minore, avendo quest’ultimo già una madre riconosciuta dal nostro ordinamento, e non sussistendo alcuna norma che preveda la necessità di due genitori non aventi con lui alcun legame biologico. Contestano la pertinenza del richiamo al diritto del minore alla conservazione dell’identità familiare acquisita ed alla continuità dei rapporti affettivi, osservando che il riconoscimento della prevalenza dello stesso sul favor veritatis, normalmente riguardante lo status filiationis derivante da un atto di nascita legittimamente formato, nella specie si risolverebbe in una mera presa d’atto della volontà dei genitori e dello stato di fatto dagli stessi imposto, e nel conseguente consolidamento di una situazione familiare contra jus. Sostengono infine che il riconoscimento di un rapporto di filiazione svincolato dalle sue radici naturali, oltre a porsi in contrasto con l’interesse del minore a conoscere l’effettivo genitore biologico, quale dato rilevante della sua identità personale, comporterebbe gravi rischi sotto il profilo sanitario, precludendo la conoscenza di eventuali patologie ereditarie sia fisiche che psichiche, con conseguente pregiudizio per le possibilità di cura.

4. Il primo motivo è infondato.

L’eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera di attribuzioni riservata al legislatore ricorre infatti, secondo la giurisprudenza di legittimità, soltanto nel caso in cui il giudice non si sia limitato ad applicare una norma giuridica esistente, ma ne abbia creata una nuova, in tal modo esercitando un’attività di produzione normativa estranea alla sua competenza. Tale vizio non è ravvisabile nel decreto impugnato, il quale, nel dichiarare ammissibile il riconoscimento di un minore nato da una donna unita civilmente ad un’altra donna come figlio naturale di entrambe, nonostante l’assenza di un legame biologico con una di esse, ha fornito, a sostegno di tale conclusione, un’interpretazione costituzionalmente orientata della L. n. 40 del 2004, secondo cui la violazione del divieto di applicare tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie omosessuali non comporta l’esclusione di ogni rapporto tra il minore ed il convivente del genitore che abbia prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche, dovendosi ritenere prevalenti l’interesse del minore al riconoscimento dello status filiationis ed il suo diritto alla bigenitorialità, realizzabile anche nello ambito delle unioni omosessuali, quali formazioni sociali idonee a consentire il libero sviluppo della personalità umana. In quanto ancorato a precisi indici normativi e puntuali richiami giurisprudenziali, tale percorso argomentativo, indipendentemente dalla sua condivisibilità, consente di escludere che la Corte d’appello abbia ecceduto i limiti del proprio potere giurisdizionale, risultando piuttosto difficile distinguere, nell’ambito del predetto ragionamento, gli aspetti prettamente interpretativi da quelli eventualmente creativi, la cui estraneità all’esercizio della giurisdizione dev’essere peraltro valutata anche alla luce del margine di creatività intrinsecamente proprio dell’attività ermeneutica: è noto d’altronde che alla Figura dell’eccesso di potere per sconfinamento nella sfera di attribuzioni del legislatore questa Corte ha riconosciuto una portata eminentemente teorica ed astratta, escludendone la configurabilità allorquando, come nella specie, il giudice si sia attenuto al compito interpretativo che gli è proprio, ricercando la regula juris applicabile al caso concreto attraverso la ricostruzione della voluntas legis, anche se la stessa non sia stata desunta dal tenore letterale delle singole disposizioni, ma dal loro coordinamento sistematico, in quanto tale operazione non può tradursi nella violazione dei limiti esterni della giurisdizione, ma può dar luogo, al più, ad un error in judicando (cfr. Cass., Sez. Un., 27/06/2018, n. 16974; 12/12/2012, n. 22784; 28/01/2011, n. 2068).

5. Il secondo ed il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto profili diversi della medesima questione, sono invece fondati.

E’ opportuno premettere che nella fattispecie in esame non possono trovare applicazione i principi enunciati in una recente sentenza, con cui le Sezioni Unite di questa Corte hanno dichiarato inammissibile il riconoscimento dell’efficacia nel nostro ordinamento di un provvedimento giurisdizionale straniero avente ad oggetto l’accertamento del rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore intenzionale cittadino italiano, affermando che tale riconoscimento trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dalla L. n. 40 del 2004, art. 12, comma 6, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). L’atto di nascita del quale è stata chiesta la rettificazione nel presente giudizio riguarda infatti un minore in possesso della cittadinanza italiana, in quanto nato in Italia da una donna cittadina italiana, e la modifica richiesta consiste nell’attribuzione della qualità di genitore ad un’altra donna, anch’essa in possesso della cittadinanza italiana, legata da unione civile alla madre del minore: la fattispecie deve ritenersi pertanto assoggettata interamente alla disciplina dell’ordinamento italiano, non presentando alcun elemento di estraneità rispetto allo stesso, tale da giustificare il ricorso alla nozione di ordine pubblico internazionale, per stabilire se nella decisione della controversia possa darsi ingresso a norme o istituti appartenenti ad altri ordinamenti. Nessun rilievo può assumere, in proposito, la circostanza, risultante dal decreto impugnato, che il minore, pur essendo venuto al mondo in Italia, sia stato concepito in Spagna, a seguito del consenso ivi prestato dalla genitrice intenzionale alla sottoposizione della convivente a tecniche di procreazione medicalmente assistita: ai sensi della L. 31 maggio 1995, n. 218, art. 33, lo stato di figlio è infatti determinato dalla legge nazionale di quest’ultimo, o, se più favorevole, da quella dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino al momento della nascita, restando pertanto inifluenti il luogo e le modalità del concepimento. Non merita dunque accoglimento la richiesta di rimessione della causa alle Sezioni Unite, avanzata dal Pubblico Ministero per l’ipotesi in cui questa Corte avesse ritenuto di non dover recepire la nozione di ordine pubblico risultante dalla sentenza citata, al fine di ottenere l’esclusione dell’applicabilità della legge straniera, la cui inoperatività è invece ricollegabile all’applicazione delle norme ordinarie di diritto internazionale privato.

5.1. Ciò posto, non può condividersi l’interpretazione della L. n. 40 del 2004, fornita dal decreto impugnato, secondo cui il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita da parte di coppie dello stesso sesso, in violazione di quanto disposto dall’art. 5, comporterebbe esclusivamente l’irrogazione della sanzione amministrativa comminata dall’art. 12, comma 2, a carico di chi ne abbia fatto applicazione, ma non escluderebbe l’operatività dell’art. 8, in virtù del quale il nato potrebbe acquistare lo stato di figlio riconosciuto non solo del partner che lo ha messo al mondo, ma anche di quello che, pur non avendo fornito alcun apporto biologico, sia stato parte integrante del progetto di assunzione della responsabilità genitoriale, per aver prestato il proprio consenso all’utilizzazione delle predette tecniche.

Lo stesso decreto impugnato pone in risalto le scelte di fondo sottese alla disciplina in esame, consistenti da un lato nell’escludere il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo e dall’altro nello assoggettare a precisi requisiti soggettivi ed oggettivi l’accesso alle altre tecniche. Il primo principio, originariamente enunciato in termini assoluti dall’art. 4, ha subito un parziale temperamento per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, che hanno dichiarato illegittima la predetta disposizione nella parte in cui estendeva il divieto del ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo anche alle coppie alle quali fosse stata diagnosticata una patologia che fosse causa di sterilità o infertilità assolute ed irreversibili ed alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili. Il secondo principio, rimasto invece invariato, trova a sua volta espressione nell’art. 5, il quale consente l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita soltanto alle coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi, nell’art. 6, il quale subordina l’utilizzazione delle predette tecniche al consenso informato di entrambi i richiedenti, e nell’art. 10, il quale riserva la realizzazione degli interventi in questione alle strutture pubbliche o a strutture private autorizzate. L’osservanza di tali principi è presidiata dall’art. 12, il quale eleva al rango d’illeciti amministrativi le relative violazioni, prevedendo sanzioni pecuniarie a carico di chiunque, a qualsiasi titolo, utilizzi a finii procreativi gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente (comma 1) o applichi tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie prive dei requisiti soggettivi prescritti dall’art. 5 (comma 2) o senza aver raccolto il consenso secondo le modalità prescritte (comma 4) o presso strutture diverse da quelle autorizzate (comma 5), ma escludendo la punibilità dell’uomo o della donna ai quali siano state applicate le tecniche in esame (comma 8). Il sistema trova poi il suo completamento nell’art. 8, che attribuisce ai nati lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle predette tecniche, e nell’art. 9, che, oltre a stabilire il divieto dell’anonimato per la madre biologica, esclude, in caso di violazione del divieto di ricorrere a tecniche di tipo eterologo, la facoltà del coniuge o del convivente il cui consenso sia ricavabile da atti concludenti di esercitare l’azione di disconoscimento della paternità o d’impugnare il riconoscimento per difetto di veridicità, precludendo inoltre al donatore dei gameti l’acquisizione di qualsiasi relazione parentale con il nato.

5.1. E’ proprio l’esame degli artt. 8 e 9, ritenuto idoneo ad evidenziare la prevalenza dell’interesse del nato ad una genitorialità completa, e quindi al riconoscimento di uno status filiationis corrispondente al complessivo esito dell’evento intenzionale dei genitori, ad aver indotto la Corte territoriale ad affermare che l’illegittimità della condotta dei coniugi o dei conviventi, che abbiano prestato il proprio consenso all’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita in assenza dei requisiti oggettivi o soggettivi prescritti dalla legge, non consente di escludere l’instaurazione di un rapporto genitoriale tra il minore messo al mondo da uno di essi e l’altro convivente, pur in assenza di un rapporto biologico tra gli stessi; e tale conclusione è stata ritenuta estensibile anche all’ipotesi in cui la nascita del minore costituisca il risultato dell’applicazione di tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo effettuata su richiesta di una coppia omosessuale, in virtù dell’orientamento ormai prevalente nella coscienza sociale e giuridica, che ravvisa nelle unioni omosessuali formazioni sociali idonee a favorire il libero sviluppo della persona, e del conseguente diritto delle predette coppie a realizzare in tali unioni un progetto di genitorialità condivisa.

La tesi in esame costituisce indubbiamente il portato delle citate pronunce d’incostituzionalità, che, introducendo un limite al divieto assoluto del ricorso a tecniche di tipo eterologo, hanno reso configurabili nel nostro ordinamento ipotesi di genitorialità svincolate da un rapporto biologico con il nato, in tal modo aprendo la strada ad un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale riguardante la possibilità di riconoscere la sussistenza di un rapporto di filiazione anche nei confronti di coppie che abbiano fatto ricorso alle predette tecniche non perchè affette cita sterilità o infertilità patologiche o da malattie genetiche trasmissibili, ma perchè fisiologicamente incapaci di generare o per l’età avanzata o per difetto di complementarità biologica dei componenti. La predetta tematica è stata affrontata dalla Corte costituzionale in una recente pronuncia, con la quale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 40 del 2004, artt. 5 e 12, nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, essa ha precisato la portata ed i limiti dei precedenti interventi, in tal modo pervenendo all’esclusione da un lato della possibilità di ravvisarvi una generalizzata legittimazione del ricorso alle predette tecniche, dall’altro dell’utilizzabilità delle stesse per la soddisfazione delle aspirazioni genitoriali delle coppie omosessuali. Ha infatti osservato che le sentenze n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015, pur avendo comportato un ampliamento del novero dei soggetti abilitati ad accedere alla procreazione medicalmente assistita, hanno lasciato inalterate le coordinate di fondo della predetta legge, costituite dalla configurazione di tali tecniche come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile e dall’intento di garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre. Premesso che l’ammissione delle coppie omosessuali alla procreazione medicalmente assistita richiederebbe la sconfessione, sul piano della tenuta costituzionale, di entrambe le linee guida della relativa disciplina, ha rilevato che quest’ultima non presenta alcuna incongruenza interna, non essendo l’infertilità fisiologica della coppia omosessuale omologabile a quella della coppia eterosessuale affetta da patologie riproduttive. Pur confermando che nella nozione di formazione sociale di cui all’art. 2 Cost., rientra anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone del medesimo sesso, ha ricordato che, come già affermato nella sentenza n. 162 del 2014, la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli, ribadendo che il riconoscimento della libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori di sicuro non implica che tale libertà possa esplicarsi senza limiti. Precisato inoltre che la possibilità, dischiusa dai progressi scientifici e tecnologici, di una scissione tra atto sessuale e procreazione, mediata dall’intervento del medico, pone il problema di stabilire se il desiderio di avere un figlio tramite l’uso delle tecnologie meriti di essere soddisfatto sempre e comunque, ovvero se sia giustificabile la previsione di specifiche condizioni di accesso alle pratiche considerate, soprattutto in una prospettiva di salvaguardia dei diritti del concepito e del nato, ha affermato che il compito di ponderare gli interessi in gioco e di trovare un equilibrio tra le diverse istanze, tenendo conto degli orientamenti maggiormente diffusi allo interno del tessuto sociale nel singolo momento storico, spetta in via primaria al legislatore, quale interprete della collettività nazionale; in proposito, ha rilevato che la scelta espressa dalle disposizioni censurate non eccede il margine di discrezionalità del quale il legislatore fruisce nella materia in esame, non potendosi per un verso considerare irrazionale ed ingiustificata la preoccupazione di garantire, a fronte delle nuove tecniche procreative, il rispetto delle condizioni ritenute migliori per lo sviluppo della personalità del nuovo nato, e dovendosi per altro verso escludere, pur a fronte di soluzioni di segno diverso, l’arbitrarietà o l’irrazionalità dell’idea, sottesa alla disciplina in esame, che una famiglia ad instar naturae rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato, e ciò indipendentemente dalla capacità della donna sola, della coppia omosessuale o della coppia eterosessuale in età avanzata di svolgere validamente anch’esse, all’occorrenza, le funzioni genitoriali (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019; al riguardo, v. anche sent. n. 237 del 2019).

5.3. La perdurante operatività, emergente dalle predette considerazioni, delle linee guida sottese alla disciplina dettata dalla L. n. 40 del 2004, confermando da un lato la piena vigenza del divieto di ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, salvi i casi d’infertilità patologica o di malattie genetiche trasmissibili, dall’altro l’esclusione della possibilità di avvalersi delle predette tecniche per la realizzazione di forme di genitorialità svincolate dal rapporto biologico tra il nascituro ed i richiedenti, si pone in radicale contrasto con l’interpretazione sistematica prospettata dal decreto impugnato, secondo cui sarebbero proprio le norme in esame a consentire, anche al di fuori dei predetti casi, l’instaurazione di un rapporto genitoriale tra il nato ed il coniuge o il convivente del genitore che non abbia fornito alcun apporto biologico alla procreazione, e ciò in ossequio alla preminenza dell’interesse del minore al mantenimento di uno status filiationis corrispondente al progetto genitoriale concretizzatosi nella prestazione del consenso alla procreazione medicalmente assistita. Non può condividersi, in particolare, il tentativo di astrarre il disposto dell’art. 9, dal contesto in cui è collocato, per desumere dal divieto di anonimato per la madre biologica e dal divieto di disconoscimento della paternità per il coniuge o il convivente che abbia prestato il proprio consenso un principio generale in virtù del quale, ai fini dell’instaurazione del relativo rapporto, può considerarsi sufficiente il mero dato volontaristico o intenzionale, rappresentato dal consenso prestato alla procreazione o comunque dall’adesione ad un comune progetto genitoriale: se è vero, infatti, che lo sviluppo scientifico e tecnologico ha reso possibili forme di procreazione svincolate dall’atto sessuale, è anche vero però che l’intera disciplina del rapporto di filiazione, così come delineata dal codice civile, rimane tuttora saldamente ancorata alla necessità di un rapporto biologico tra il nato ed i genitori, la cui esclusione richiederebbe, a pena d’inevitabili squilibri, radicali modifiche di sistema, non realizzabili attraverso un intervento episodico del giudice. In tal senso depongono chiaramente l’art. 269, comma 3, il quale identifica la madre con la donna che ha partorito colui che si pretende essere figlio, l’art. 231, in virtù del quale il marito si presume padre del figlio concepito o nato in costanza di matrimonio, l’art. 243-bis, che richiede l’esercizio di un’apposita azione per dimostrare l’insussistenza del rapporto di filiazione, l’art. 250, che attribuisce la legittimazione a riconoscere il figlio nato fuori del matrimonio alla madre o al padre, l’art. 263, che consente l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, l’art. 269, che consente di ottenere giudizialmente la dichiarazione di paternità o maternità nei casi in cui è ammesso il riconoscimento. La stessa Corte costituzionale, pur avendo posto in risalto la libertà e la volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori, ha d’altronde riconosciuto che tale valore dev’essere bilanciato con altri valori costituzionalmente protetti, soprattutto quando, come nella specie, si discuta della scelta di ricorrere a tecniche che, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29,30 e 31 Cost. (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019, cit.), oltre a quella del codice civile.

In contrario, non appare sufficiente il richiamo del decreto impugnato alla disciplina delle unioni civili ed agli orientamenti da tempo affermatisi nella giurisprudenza di legittimità e di quella costituzionale, che riconoscono i diritti delle coppie omosessuali ed escludono la legittimità di condotte ingiustificatamente discriminatorie nei confronti delle stesse, ravvisando in tali unioni un fenomeno meritevole di tutela ai sensi dell’art. 2 Cost., quali formazioni sociali idonee a consentire il pieno dispiegamento della personalità umana: il riconoscimento, ormai ampiamente diffuso nella coscienza sociale, della capacità delle coppie omosessuali di accogliere, crescere ed educare figli, che ha condotto a ritenere ammissibile l’adozione del minore da parte del partner dello stesso sesso del genitore biologico, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d), (cfr. Cass., Sez. I, 22/06/2016, n. 12962), nonchè la trascrizione dell’atto di nascita validamente formato all’estero dal quale risulti che il nato è figlio di due donne (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599), non implica infatti lo sganciamento della filiazione dal dato biologico, nè giustifica la prospettazione di un meccanismo d’instaurazione del relativo rapporto alternativo a quello fondato su tale dato, non dovendo la predetta genitorialità esprimersi necessariamente nelle medesime forme giuridiche previste per il figlio nato dal matrimonio o riconosciuto, a condizione, ovviamente, che al minore accolto dalla coppia omosessuale sia assicurata una tutela comparabile a quella garantita a quest’ultimo. Non è un caso, d’altronde, che la L. n. 76 del 2016, nel dettare la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, si sia limitata a far salvo “quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti” (art. 1, comma 20), senza richiamare in alcun modo la disciplina della procreazione medicalmente assistita, rimasta immodificata a seguito di tale intervento normativo.

5.4. L’esclusione della possibilità di ricollegare, in assenza di un rapporto biologico, l’instaurazione del rapporto di filiazione tra il minore ed il partner del genitore biologico al consenso da quest’ultimo prestato all’applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, non contrasta in alcun modo neppure con la giurisprudenza della Corte EDU: quest’ultima, infatti, pur riconoscendo alla coppia omosessuale il diritto al rispetto della vita privata, anche familiare, ed includendo in tale nozione anche il diritto al rispetto della decisione di diventare genitore e del modo di diventarlo (cfr. Corte EDU, 16/01/2018, Nedescu c. Romania; 27/08/2015, Parrillo c. Italia; 28/08/2012, Costa e Pavan c. Italia), ha escluso la possibilità di ravvisare un trattamento discriminatorio nella legge nazionale che attribuisca alla procreazione medicalmente assistita finalità esclusivamente terapeutiche, riservando alle coppie eterosessuali sterili il ricorso alle relative tecniche (cfr. Corte EDU, sent. 15/03/2012, Gas e Dubois c. Francia), ed ha riconosciuto che in tale materia gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, soprattutto con riguardo a quei profili in relazione ai quali non si riscontra un generale consenso a livello Europeo (cfr. Corte EDU, sent. 3/11/2011, S.H. c. Austria).

Quanto poi all’interesse del minore, la Corte EDU, pur osservando che il mancato riconoscimento del rapporto di filiazione è destinato inevitabilmente ad incidere sulla vita familiare del minore, ha escluso la configurabilità di una violazione del diritto al rispetto della stessa, ove sia assicurata in concreto la possibilità di condurre un’esistenza paragonabile a quella delle altre famiglie (cfr. Corte EDU, sent. 26/06/2014, Mennesson e Labassee c. Francia). La predetta violazione non è pertanto configurabile nel caso in cui, come nella specie, non sia in discussione il rapporto di filiazione con il genitore biologico, ma solo quello con il genitore d’intenzione, il cui mancato riconoscimento non preclude al minore l’inserimento nel nucleo familiare della coppia genitoriale nè l’accesso al trattamento giuridico ricollegabile allo status filiationis, pacificamente riconosciuto nei confronti dell’altro genitore (in proposito, v. anche Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193).

5.5. Può quindi concludersi che il riconoscimento di un minore concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da parte di una donna legata in unione civile con quella che lo ha partorito, ma non avente alcun legame biologico con il minore, si pone in contrasto con la L. n. 40 del 2004, art. 4, comma 3 e con l’esclusione del ricorso alle predette tecniche da parte delle coppie omosessuali, non essendo consentita, al di fuori dei casi previsti dalla legge, la realizzazione di forme di genitorialità svincolate da un rapporto biologico, con i medesimi strumenti giuridici previsti per il minore nato nel matrimonio o riconosciuto.

Tale conclusione non si pone in alcun modo in contrasto con i precedenti di questa Corte che hanno riconosciuto l’efficacia nel nostro ordinamento dell’atto di nascita formato all’estero dal quale risulti che il nato, concepito mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita, è figlio di due persone dello stesso sesso, ancorchè una di esse non abbia alcun rapporto biologico con il minore (cfr. Cass., Sez. I, 15/06/2017, n. 14878; 30/09/2016, n. 19599): indipendentemente dalla considerazione che in uno dei due casi esaminati nelle predette pronunce entrambe le donne indicate come genitrici potevano vantare un rapporto biologico con il minore, avendo l’una fornito l’ovulo per la fecondazione e l’altra provveduto alla gestazione, è sufficiente rilevare che il riconoscimento dell’atto straniero non fa venir meno l’estraneità dello stesso all’ordinamento italiano, il quale si limita a consentire la produzione dei relativi effetti” così come previsti e regolati dall’ordinamento di provenienza, nei limiti in cui la relativa disciplina risulti compatibile con l’ordine pubblico. Tale compatibilità, com’è noto, dev’essere valutata alla stregua dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, nonchè del modo in cui detti principi si sono incarnati nella disciplina ordinaria dei singoli istituti e dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, la cui opera di sintesi e ricomposizione dà forma a quel diritto vivente, dal quale non può prescindersi nella ricostruzione della nozione di ordine pubblico, quale insieme dei valori fondanti dell’ordinamento in un determinato momento storico (cfr. Cass., Sez. Un., 8/05/2019, n. 12193). La nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del riconoscimento dell’efficacia degli atti e dei provvedimenti stranieri è più ristretta di quella rilevante nell’ordinamento interno, corrispondente al complesso dei principi informatori dei singoli istituti, quali si desumono dalle norme imperative che li disciplinano: non può quindi ravvisarsi alcuna contraddizione tra il riconoscimento del rapporto di filiazione risultante dall’atto di nascita formato all’estero e l’esclusione di quello derivante dal riconoscimento effettuato in Italia, la cui efficacia dev’essere valutata alla stregua della disciplina vigente nel nostro ordinamento. Tale disparità di trattamento non comporta la violazione di alcun precetto costituzionale, costituendo il naturale portato della differenza tra la normativa italiana e quelle vigenti in altri Paesi, la cui diversità, pur rendendo possibili condotte elusive della più restrittiva disciplina dettata dal nostro ordinamento, non costituisce di per sè causa d’illegittimità costituzionale di quest’ultima (cfr. Corte Cost., sent. n. 221 del 2019).

L’esclusione dell’ammissibilità del riconoscimento consente poi di ritenere legittimo il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile alla ricezione della dichiarazione di riconoscimento del minore come figlio naturale delle due donne, o comunque come figlio naturale della donna che si è limitata a prestare il proprio consenso alla fecondazione eterologa, trovando tale provvedimento giustificazione nel disposto del D.P.R. n. 396 del 2000, art. 42, che, subordinando il riconoscimento alla dimostrazione dell’insussistenza di motivi ostativi legalmente previsti, consente di escluderne l’operatività nella ipotesi in cui, come nella specie, la costituzione del rapporto di filiazione trovi ostacolo nella disciplina legale della procreazione medicalmente assistita.

6. Il decreto impugnato va pertanto cassato, in applicazione del principio enunciato, e, non risultando necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., con il rigetto della domanda.

La natura della causa e la peculiarità della questione trattata, tuttora oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale, giustificano l’integrale compensazione delle spese dei tre gradi di giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo ed il terzo motivo, cassa il decreto impugnato, e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa integralmente le spese processuali.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1, lett. a).

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2020