Tribunale di Trento, ordinanza del 19 agosto 2014

IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TRENTO
SEZIONE CIVILE
composto dagli Ill. mi Sigg.ri Magistrati:
dott. Roberto Beghini – presidente relatore –
dott. Giuseppe Barbato – giudice –
dott. Giuliana Segna – giudice –
letti gli atti del proc. n. 1471/2014 RG,

pronunzia la seguente

O R D I N A N Z A

di rimessione degli atti alla Eccellentissima Corte Costituzionale in relazione alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164
* * * * *
1. La rilevanza della questione
La rilevanza della questione risiede nel fatto che, nel presente giudizio, la signora X.Y., premesso di non avere figli né di aver contratto matrimonio, ha chiesto a questo Tribunale la rettificazione di attribuzione di sesso ai sensi dell’art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164, mediante ordine all’ufficiale di stato civile del comune di residenza, di modificare l’atto di nascita, nel senso che risulti quale genere quello maschile e quale prenome uno dello stesso tipo. In secondo luogo, la signora X.Y. ha chiesto – pur non ritenendolo necessario – di essere eventualmente autorizzata a compiere in futuro gli interventi medico-chirurgici necessari alla normoconformazione del suo corpo in senso ginoandroide, anche tramite isterectomia, mastectomia e falloplastica. Espone di aver percepito, sin da quando aveva 7 anni, un’identità di genere maschile, abbigliandosi sin da allora in tal senso e presentandosi così anche nell’ambiente sociale, avvertendo altresì un orientamento sessuale verso le donne. Lamenta un forte e persistente senso di frustrazione e di disagio, dovuto al fatto che nei propri documenti di identità, le risultanze anagrafiche attestano la sua appartenenza al genere femminile. Documenta un disturbo dell’identità sessuale nella forma del transessualismo (classificazione ICD-10) e di disturbo dell’identità di genere (classificazione DSM IV), con esclusione di forme di intersessualità. Sostiene e documenta d’aver già avviato una terapia ormonale mascolinizzante. Pur con riserva di verificarne in dettaglio i rischi e fa sostenibilità, manifesta la mera intenzione di sottoporsi eventualmente in futuro ad un intervento chirurgico demolitivo e ricostruttivo, ritenendo tuttavia non necessario al fine di ottenere preventivamente la chiesta rettificazione di attribuzione di sesso. Comparsa assieme al suo difensore – innanzi al giudice istruttore – con abbigliamento ed apparenza maschile, ha insistito in tutte e due le domande giudiziali, sia di rettificazione che di autorizzazione all’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico.
Il Procuratore della Repubblica presso questo Tribunale, è rimasto contumace.
All’udienza del 3.06.2014, la causa è stata riservata per la decisione.
Delineato in tal modo l’oggetto del presente giudizio, questo Tribunale evidenzia che la rilevanza della questione di costituzionalità che con la presente ordinanza viene sollevata, risiede nel fatto che la domanda della sig.ra X.Y., deve essere decisa sulla base del cit. art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164 (come modificato dall’art. 110, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 398), in virtù del quale, come noto “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.
Dal tenore letterale della norma, emerge inequivocabilmente che la rettificazione può aver luogo solo previa modificazione dei caratteri sessuali, per tali dovendosi necessariamente intendere i caratteri sessuali primari (vale a dire l’apparato genitale, in base all’esame del quale, al momento della nascita, si è soliti individuare il sesso della persona). In assenza della modificazione dei caratteri sessuali primari, la rettificazione non può aver luogo.
E’ ben vero che l’art. 31, comma quarto, del decreto legislativo 1.09.2011, n. 150, prevedendo che “quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato”, ammette che il trattamento medico-chirurgico possa essere solo eventuale (come lascia intendere l’avverbio “quando”); ma ciò non già perché possa ottenersi la rettificazione di attribuzione di sesso a prescindere dall’adeguamento dei caratteri sessuali primari, bensì solo perché possono esservi casi concreti nei quali i caratteri sessuali primari risultano già modificati (ad esempio, in caso di intervento già praticato all’estero o per ragioni congenite). Se così non fosse, non si comprenderebbe l’espressione “a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, di cui al cit. art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164. Se il legislatore avesse inteso consentire alla persona la rettificazione di attribuzione di sesso a prescindere dalla modificazione dei suoi caratteri sessuali primari, non avrebbe menzionato tale modificazione nella parte finale della norma in esame. Il suo tenore letterale sarebbe stato diverso, verosimilmente uguale a “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita”, senza alcun riferimento alla modificazione dei caratteri sessuali della persona.
Il legislatore del 1982 ha dunque richiesto che vi sia piena corrispondenza tra gli organi sessuali primari della persona, e la nuova identità sessuale a costei attribuita dall’autorità giudiziaria.
Ad avviso di questo Tribunale, dunque, l’interpretazione del cit. art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164, impone di escludere che sia ammessa la rettificazione di attribuzione di sesso, in assenza della modificazione dei caratteri sessuali primari della persona (modificazioni che possono essere congenite, fortuite o realizzate mediante intervento medico- chirurgico). Il tenore letterale della norma, non sembra consentire alcun altra interpretazione.
Nella fattispecie concreta, pertanto, questo Tribunale dovrebbe senz’altro rigettare la domanda di rettificazione di attribuzione di sesso, proposta dalla sig.ra X.Y., in quanto è pacificamente assente il requisito della previa modificazione dei suoi caratteri sessuali primari, posto che ella, come detto si è limitata esclusivamente ad avviare una terapia ormonale e non intende attualmente sottoporsi ad alcun intervento chirurgico di adeguamento del proprio apparato genitale al sesso maschile, avendo solo prospettato l’eventualità di farlo in futuro, e chiedendo a tal fine – per tuziorismo – di essere autorizzata.
Di qui la rilevanza della questione di costituzionalità del cit. art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164, nella parte in cui subordina la rettificazione di attribuzione di sesso alla intervenuta modificazioni dei caratteri sessuali della persona istante.
2. La non manifesta infondatezza
Ad avviso di questo Tribunale, l’inciso “a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, di cui al cit. art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164, si pone in contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost. (l’art. 117, primo comma, Cost, in relazione all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di seguito CEDU).
Per una esaustiva comprensione della fattispecie, può essere utile premettere che, come di recente evidenziato dalla dottrina, ogni persona ha un sesso «anagrafico» attribuitogli al momento della nascita in base a un esame morfologico degli organi genitali. In questo modo, il sesso anagrafico viene fatto coincidere col sesso «biologico». Tuttavia, se per la maggior parte degli individui tale attribuzione rispecchia fedelmente tutte le componenti sessuali, facendo cosi coincidere il sesso «legale» con quello reale, possono verificarsi ipotesi nelle quali questa coincidenza non sussiste. In questi casi, il sesso attribuito anagraficamente, diventa una mera finzione, perché la componente psicologica si discosta dal dato biologico. Quando ciò avviene, si manifestano le molteplici componenti della sessualità umana, la quale è al contempo genetica, fenotipica, endocrinica, psicologica, culturale e sociale. Il dato fondamentale non è più il sesso biologico o anagrafico, ma il genere, che si può definire quale “variabile socio-culturale”, vale a dire “qualità della persona in base alla quale della stessa si può dire che è maschile o femminile”. Il genere può discostarsi dal sesso biologico e cambiare col tempo in varie declinazioni e direzioni, nel qual caso si può parlare di “espressione” o “ruolo” di genere. Quando vi è una “percezione” di non collimazione tra il genere assegnato alla nascita (sulla base del sesso “biologico”) e il genere cui la persona acquista la consapevolezza di appartenere, tale mutamento opera sul piano dell’identità di genere. Nel passato, la medicina riteneva che ogni dissociazione tra il sesso e il genere, configurasse una vera e propria patologia (il c.d. “disturbo dell’identità di genere”, DIG), risolvibile solo attraverso il mutamento, verso il sesso opposto, di tutto ciò che era possibile cambiare. Attraverso la c.d. “triadic therapy”, infatti, alla persona veniva chiesto di portare a conclusione un processo in tre fasi: un’esperienza reale nel ruolo del sesso desiderato, il trattamento ormonale e la riassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali (cd. RCS). Solo chi completava tutti e tre questi steps, poteva considerarsi “guarito” e dunque ammesso tra i soggetti meritevoli di considerazione come persone del sesso opposto.
Il cit. art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164, nella parte in cui subordina la rettificazione di attribuzione di sesso alla intervenuta modificazioni dei caratteri sessuali della persona istante, costituisce la piena e matura espressione di tale mentalità.
L’imposizione di un determinato trattamento medico, sia esso ormonale ovvero di RCS, costituisce tuttavia una grave ed inammissibile limitazione al riconoscimento del diritto all’identità di genere (maschile o femminile). Infatti, il fine del raggiungimento dello stato di benessere psico-fisico della persona, al quale tende il riconoscimento sociale, è la rettificazione di attribuzione di sesso, e non la riassegnazione sessuale sul piano anatomico (dalla persona non sempre voluta, come accade per la sig.ra X.Y.). In altra prospettiva, al fine di identificare una persona come femmina o maschio, non si procede ad un esame dei suoi organi genitali – atto che costituirebbe una grave intromissione nella vita privata della persona – bensì dei suoi documenti. Ne deriva che il trattamento clinico non influisce, sotto un profilo generale, sul riconoscimento sociale nella stessa misura nella quale vi contribuisce, invece, il mutamento di sesso anagrafico. Va poi evidenziato che, come riferisce la scienza medica, sia il trattamento ormonale sia la RCS, sono – notoriamente – molto rischiosi per la salute umana. La transizione da donna a uomo (c.d. Female to Male, F2M) comporta ipercoagulabilità del sangue con rischio di embolia polmonare, infertilità, aumento di peso, patologie epatiche e labilità emotiva; la transizione opposta (Male to Female, M2F), può portare a infertilità, acne e malattie cardiovascolari.
Ciò evidenziato in punto di fatto, è noto che l’art. 8 della CEDU sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, prevedendo che “ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.
Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, il diritto all’identità sessuale (rectius, diritto all’identità di genere), rientra a pieno titolo nella tutela prevista dal cit. art. 8 della CEDU. Ad esempio, nella sentenza 11.07.2002, n. 28.957 (Christine Goodwin contro Regno Unito), la Corte ha affermato che “77. Occorre anche riconoscere che può sussistere un grave pregiudizio alla vita privata quando il diritto nazionale è incompatibile con un aspetto importante dell’identità personale (v., mutatis mutandis, la sentenza 22 ottobre 1981 nel caso Dudgeon contro Regno Unito, serie A n. 45, par. 41). La tensione e lo squilibrio emotivo provocati dalla divergenza tra il ruolo ricoperto nella società da un transessuale operato e la condizione imposta dal diritto che rifiuta di riconoscerne il mutamento di sesso non possono essere considerati, a giudizio della Corte, un inconveniente di secondaria importanza discendente da una formalità. Vi è conflitto tra la realtà sociale e il diritto che pone il transessuale in una situazione anomala, suscitandogli sensazioni di vulnerabilità, di umiliazione e di angoscia”. Nella medesima sentenza, la Corte ha anche evidenziato che “90. Ciò posto, la dignità e la libertà dell’uomo costituiscono il nocciolo della Convenzione. In particolare, nel contesto dell’art. 8 della Convenzione, dove la nozione di autonomia personale riflette un importante principio sotteso all’interpretazione delle garanzie di tale disposizione, la sfera personale di ciascun individuo è protetta, compreso il diritto per ciascuno di decidere i particolari della propria identità di essere umano (vedi, specialmente, la sentenza 29 aprile 2002 nel caso Pretty c. Regno Unito, ricorso n. 2346/02, par. 62). Nel XXI secolo, la facoltà per i transessuali di godere pienamente, al pari dei loro concittadini, del diritto allo sviluppo personale e all’integrità fisica e morale, non può essere considerata una questione controversa che richiede del tempo per poter comprendere più chiaramente i problemi in gioco”.
Come noto, per giurisprudenza costante, la contrarietà di una norma interna alla CEDU, dà luogo ad un incidente di costituzionalità con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. (v. Corte Cost. nn. 348 e 349 del 2007, nn. 311 e 317 del 2009, n. 93 del 2010, nn. 1, 113, 236 e 303 del 2011, e nn. 15 e 78 del 2012).
Passando quindi alla Costituzione italiana, il suo art. 2 sancisce il fondamentale principio secondo cui “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, ed eleva “a regola fondamentale dello Stato, per tutto quanto attiene ai rapporti tra la collettività e i singoli, il riconoscimento di quei diritti che formano patrimonio irretrattabile della persona umana [e che…] appartengono all’uomo inteso come essere libero” (v. sentenza della Corte Costituzionale n. 11 del 1956): diritti che, stante il loro “carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal costituente” (v. Corte Cost. n. 366 del 1991), non possono “essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali” (v. Corte Cost. n. 1146 del 1988), perché “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.
Nell’alveo dei diritti inviolabili la Corte Costituzionale ha ricondotto sia “il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità”, che gli altri membri della collettività sono tenuti a riconoscere “per dovere di solidarietà sociale” (v. Corte Cost. n. 161 del 1985); sia il diritto alla libertà sessuale, poiché, “essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto” (v. Corte Cost. n. 561 del 1987).
Ad avviso di questo Tribunale, dunque, anche l’art. 2 Cost., come il cit. art. 8 CEDU, riconosce e tutela il diritto all’identità sessuale (rectius, diritto all’identità di genere), nel senso che ogni persona ha il diritto di scegliere la propria identità sessuale, femminile o maschile, a prescindere dal dato biologico.
Il sospetto di incostituzionalità del cit. art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164, sorge in quanto, tale norma, pur riconoscendo il diritto della persona di scegliere la propria identità sessuale, femminile o maschile, subordina l’esercizio di tale diritto alla modificazione dei propri caratteri sessuali primari (da effettuarsi tramite intervento chirurgico).
Ad avviso di questo Tribunale, subordinare il diritto di scegliere la propria identità sessuale alla modificazione dei propri caratteri sessuali primari da effettuarsi tramite un doloroso e pericoloso intervento chirurgico, finisce col pregiudicare irreparabilmente l’esercizio del diritto stesso, vanificandolo integralmente.
Pare evidente il conflitto tra il diritto individuale all’identità sessuale (e la relativa autodeterminazione), e l’imposizione del requisito della modifica dei caratteri sessuali primari, necessario per ottenere la rettificazione dell’attribuzione di sesso.
La concezione per cui al fine di vedersi riconosciuto il proprio diritto all’identità sessuale, una persona debba – per forza – sottoporsi a trattamenti clinici altamente invasivi, tali da mettere in pericolo la propria salute, confligge insanabilmente sia con il cit. art. 8 CEDU, sia con l’art. 2 Cost., i quali entrambi, come visto, consentono incondizionatamente ad ogni soggetto di vedersi riconosciuta la propria identità sessuale. Detta concezione confligge anche con l’art. 32 Cost., poiché, al fine dell’esercizio di un proprio diritto fondamentale (quale il diritto all’identità sessuale), impone al soggetto di sottoporsi ad un trattamento chirurgico, del tutto non pertinente né necessario al fine del libero esercizio del diritto in esame. Imporre al soggetto di sottoporsi ad un trattamento chirurgico o sanitario doloroso e pericoloso per la propria salute, equivale a vanificare o rendere comunque eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto alla propria identità sessuale. Considerando che gli artt. 8 CEDU e art. 2 Cost. tutelano la ricongiunzione dell’individuo con il proprio genere quale risultato del procedimento di rettificazione, non può non riconoscersi che – come ha fatto da tempo anche la scienza medica – la modificazioni dei caratteri sessuali primari non sempre è necessaria e che, anzi, alla luce dei diritti “in gioco”, la persona deve avere il diritto di rifiutarla. A questo Tribunale sembra che non vi sia ragionevolezza né logicità nel condizionare il riconoscimento del diritto della personalità in esame, ad un incommensurabile prezzo per la salute della persona (artt. 3 e 32 Cost.). Questo Tribunale si rende perfettamente conto delle conseguenze pratiche che comporterebbe una declaratoria di incostituzionalità (nel senso che, allora, l’esame “esteriore” della persona, sarebbe inidoneo a rilevare il suo sesso); ma ciò, a ben osservare, non può ragionevolmente suscitare alcuna perplessità, perché in un paese civile l’identità sessuale viene accertata tramite i documenti di identità e non certo per mezzo di un’ispezione corporale. Una volta che lo Stato riconosce il diritto della persona a cambiare il proprio sesso anagrafico (ciò che indubbiamente ha fatto la cit. legge 14.04.1982, n. 164), subordinare l’esercizio di tale diritto alla sottoposizione della persona a dolorosissimi e pericolosissimi trattamenti sanitari dalla stessa non voluti, significa pretendere da lei di commettere un atto di violenza sul proprio corpo. Una volta riconosciuto che il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, costituisce un vero e proprio diritto della personalità, non sembra consentito al legislatore ordinario subordinarlo a restrizioni tali da pregiudicarne gravemente l’esercizio, fino a vanificarlo.
P Q M
Il Tribunale ordinario di Trento, sezione civile, visto |’art. 134 Cost., e gli artt. 23 e ss. della legge 11.03.1957, n. 87,
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, primo comma, della legge 14.04.1982, n. 164, nella parte in cui subordina la rettificazione di attribuzione di sesso alla intervenuta modificazioni dei caratteri sessuali della persona istante, con riferimento ai parametri costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost.
Dispone la immediata trasmissione degli atti e della presente ordinanza, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte comunicazioni e notificazioni, alla Eccellentissima Corte Costituzionale e sospende il giudizio.
Manda la cancelleria per la notificazione della presente ordinanza alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché per la sua comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Trento, 19 agosto 2014
Il presidente estensore -dott. Roberto Beghini

Depositato in cancelleria: 20 agosto 2014

One Response to Tribunale di Trento, ordinanza del 19 agosto 2014

  1. […] aggiunge l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Trento con ordinanza del 19 agosto 2014, oltre alla recentissima decisione della Corte europea dei diritti umani del 10 marzo 2015), è […]