Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza del 1° marzo 2005, n. 4290

Composta dagli Ill.mi Signori Magistrati:

Dott. Vincenzo          PROTO      –   Presidente

Dott. M. Gabriella      LUCCIOLI   –  Consigliere

Dott. Giuseppe V. A.    MAGNO      –   Cons. rel.

Dott. Massimo           BONOMO     –  Consigliere

Dott. Paolo             GIULIANI   –  Consigliere

ha pronunciato la seguente:

                              SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.M.A., elett. domicil. in Roma, via Crescenzio n.  95,  presso  Avv. Alessandro  Mazzoni,  rappresentata  e  difesa  dall’Avv.   Francesco Cannizzo per procura speciale a margine del ricorso

                                                       – ricorrente –

                               contro

D.G.S., elett. domicil. in Roma, v.le Mazzini, n.  6,  presso  l’Avv. Stefano Lupis che lo rappresenta e difende con l’Avv. Sergio Lio  per procura speciale a margine del controricorso

                                                 – controricorrente –

avverso la sentenza n. 769/2001 della  Corte  d’appello  di  Palermo, depositata il 18.8.2001.

Udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del giorno 17 gennaio 2005  dal  relatore  Cons.  Giuseppe  Vito  Antonio Magno;

Udito l’Avvocato Francesco Cannizzo, per la ricorrente, e  l’Avvocato Stefano Lupis per il controricorrente;

Udito il P.M., in persona del Sostituto  Procuratore  Generale  Dott. Raffaele Palmieri, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Con ricorso depositato il 17.1.1997 la signora M.A.G. chiese al tribunale di Palermo di pronunziare la separazione dal marito signor S.D.G. con cui aveva contratto matrimonio il 12.1.1976 e dal quale aveva avuto tre figlie – le ultime due, all’epoca, ancora minorenni -, con addebito al medesimo, da lei accusato d’innumerevoli tradimenti e, infine, di aver costituito un nucleo familiare con altra donna, dalla quale aveva avuto due figli, e di avere lasciato la casa coniugale.

Il D.G. costituitosi in giudizio, contestò quanto dedotto e richiesto dalla moglie e chiese che la separazione fosse a lei addebitata, per avere ella intrattenuto una relazione omosessuale con una ex compagna di scuola di una delle figlie.

All’udienza 2.4.1997 il presidente del tribunale, autorizzati i coniugi a vivere separati, affidò le due figlie minorenni al padre, regolando i diritti di visita della madre, ordinò dettagliate indagini sulle condizioni di vita di queste e pose a carico del D.G. l’obbligo di corrispondere mensilmente alla moglie la somma di Lire 500.000.

2.- Con sentenza depositata l’8.6.2000, il tribunale di Palermo, su difformi conclusioni del pubblico ministero, rigettò la domanda della G. e addebitò alla stessa la responsabilità della separazione, condannandola al pagamento delle spese di giudizio.

3.- Sull’impugnazione proposta dalla G. la corte d’appello di Palermo pronunziò, nel contraddittorio delle parti e su conformi richieste del pubblico ministero, la sentenza depositata il 18.8.2001, con cui rigettò il gravame, confermò integralmente la sentenza di primo grado e condannò l’appellante al pagamento delle spese di giudizio a favore dell’appellato.

4.- Per la cassazione di tale sentenza ricorre, con tre motivi illustrati da memoria, M.A.G.. Resiste, mediante controricorso, S.D.G.

MOTIVI DELLA DECISIONE

5.- Col primo mezzo la ricorrente censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’articolo 360, 1° co., n. 3, c.p.c., per violazione e falsa applicazione degli articoli 112, 189, 1° co., e 277, 1° co., stesso codice.

5.1.- Sostiene che la corte territoriale – omettendo di esaminare e valutare tutte le circostanze e le risultanze probatorie acquisite agli atti (compresa l’archiviazione della denunzia penale sporta a carico suo e della presunta amante) e ripetendo pedissequamente le motivazioni della sentenza di primo grado – avrebbe erroneamente concluso di non doversi pronunziare sui diversi motivi di gravame, giudicando, con argomentazione illogica ed insufficiente, unicamente vere ed assorbenti di ogni altra questione le dichiarazioni rilasciate dalle figlie, circa la sussistenza della relazione omosessuale – da lei negata – con una giovane donna.

5.2.- Il motivo è infondato e, sotto diverso aspetto, inammissibile.

5.2.1.- Sotto un primo profilo, la censura è infondata, dovendosi escludere che sussista la denunziata violazione di norme di legge concernenti il principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, il dovere di formulare interamente le conclusioni di merito prima della rimessione della causa al collegio e l’obbligo di questo, quando decide nel merito, di pronunziare su tutte le domande e le eccezioni proposte dalle parti: violazioni, peraltro, meramente enunciate nel ricorso e chiarite solo nella memoria illustrativa nel senso che la pretesa omissione di giudizio riguarderebbe le domande di addebito al D.G. e quella di aumento dell’assegno.

Invero i motivi d’appello concernevano principalmente la responsabilità della separazione, sulla quale è incentrata tutta la motivazione fornita dalla corte palermitana che, quindi, non ha affatto omesso di pronunziare sulla domanda dell’appellante, sotto entrambi gli aspetti, di sussistenza di elementi sufficienti a confermare la responsabilità di lei e di mancanza di valide ragioni per attribuirla al coniuge.

Le conclusioni dell’atto d’appello comprendevano, per vero, anche le richieste di aumento dell’assegno, in misura non inferiore a Lire 4.000.000, quella di assegnazione della casa coniugale e quella di condanna del D.G. al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Ma la corte di merito, dichiarando tali domande (“altre doglianze”) logicamente (“di conseguenza”) assorbite dal rigetto di quella sull’attribuzione della responsabilità al marito, ha in realtà pronunziato anche sulle medesime; né l’odierna ricorrente ha esposto specifici argomenti di censura contro tale decisione, consistente nel giudizio di assoluta dipendenza logica e giuridica delle questioni sull’assegno, sulla casa e sulle spese di primo grado dall’attribuzione di responsabilità al consorte per la separazione, limitandosi a rilevare genericamente (ult. pag. del ricorso) che la corte territoriale avrebbe errato, “per i motivi suesposti”, concernenti esclusivamente vizi di motivazione.

5.2.2.- Sotto altri profili, la censura è inammissibile.

La ricorrente infatti si è lamentata unicamente dell’omessa considerazione, da parte del giudice a quo, di risultanze testimoniali o documentali esistenti in atti; del mancato accoglimento di domande tendenti all’acquisizione di ulteriori informazioni ritenute interessanti (come quelle provenienti da un investigatore privato); e della valenza esaustiva attribuita dai giudici d’appello alle deposizioni delle figlie della coppia, a scapito di tutte le altre emergenze processuali, acquisite o acquisibili.

Censure, queste, inammissibili giacché, sub specie di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, criticano sostanzialmente, travalicando i limiti propri del giudizio di legittimità, la decisione, riservata al giudice di merito, di scegliere nel complesso delle prove vagliate o proposte dalle parti, implicitamente disattendendo le altre, le sole ritenute utili, con motivazione esente da manifesti vizi logici, a fondarne il convincimento (fra le molte, Cass. nn. 12747/2003, 16034/2002, 9662/2001, 4347/1999).

6.- Col secondo motivo la ricorrente denunzia insufficiente, erronea ed illogica motivazione della sentenza d’appello, sul punto dell’addebito a lei medesima della responsabilità per la separazione, essendo asseritamente basato tale giudizio sulle accuse – erroneamente ritenute gravi, puntuali e circostanziate – mossele dalle figlie, le cui deposizioni mancherebbero invece di tali caratteri e sarebbero anzi inattendibili, perché sospettabili di parzialità e compiacenza nei confronti del padre, che le avrebbe influenzate e strumentalizzate; e sulle deposizioni, pure asseritamente inattendibili, di altro teste (G.G.); senza tener conto – in violazione dell’articolo 115 c.p.c. – delle prove e richieste istruttorie fornite o proposte da essa appellante.

6.1.- La censura è inammissibile.

6.1.1.- Ai precedenti analoghi rilievi, formulati in ordine all’inammissibilità della domanda di riesame, in sede di legittimità, del materiale probatorio vagliato dai giudici di merito (par. 5.2.2), si deve aggiungere la mancata osservanza del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, non essendo stato in esso riprodotto il tenore esatto e complessivo delle risultanze probatorie processuali, di cui si lamenta omesso o inadeguato esame, ed essendo preclusa al giudice di legittimità qualsiasi indagine integrativa sugli atti dei giudizi di merito (fra le altre, Cass. nn. 17904/2003, 15751/2003, 10576/2003, 10128/2003, 7938/2001).

6.1.2.- Il presente motivo di ricorso per cassazione, contenente generiche lagnanze d’inattendibilità di testi e di omessa considerazione di risultanze probatorie asseritamente favorevoli alle proprie tesi difensive (par. 6), è quindi inammissibile.

Non sussiste peraltro la denunziata violazione dell’articolo 115 c.p.c., per le ragioni dette al par. 5.2.2.

7.- Col terzo motivo la sentenza d’appello è censurata, ai sensi dell’articolo 360, 1º co., n. 5, c.p.c., per insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione del giudizio di esclusione della responsabilità del marito, fondato sull’erroneo presupposto che la relazione da costui intrattenuta con tale fosse sfornita di prova e che, comunque, non fosse rilevante ai fini dell’addebito per la separazione.

7.1.- La censura è inammissibile.

7.1.1.- La ragione addotta dalla corte territoriale per respingere la domanda di addebito al D.G. consiste nella mancanza di prova che la suddetta relazione fosse stata da lui “instaurata in costanza di matrimonio [rectius, di convivenza matrimoniale: n.d.r.], sì da configurare anche a carico di quest’ultimo il venir meno ai doveri del matrimonio, apparendo la dichiarazione resa al riguardo dalla D.N. madre dell’odierna appellante, del tutto generica”.

7.1.2.- Da un lato, pertanto, si ripropongono gli stessi motivi d’inammissibilità della censura, indicati sopra (par. 5.2.2 e 6.1.2) ad altro proposito.

D’altro lato, la conclusione dei giudici d’appello, secondo cui non si può “configurare anche a carico di quest’ultimo [del marito, n.d.r.] il venir meno ai doveri del matrimonio” – giudizio chiaramente fondato sull’esame degli elementi di fatto della causa, istituzionalmente riservato al giudice del merito ed incensurabile in cassazione se sorretto da congrua motivazione (Cass. n. 9472/1999) – dipende dalla mancata prova dell’esistenza della relazione nel periodo di convivenza matrimoniale e quindi, più esattamente, dalla ritenuta infondatezza dell’assunto per cui l’infedeltà del D.G. sarebbe iscrivibile fra le cause efficienti della crisi coniugale.

7.1.3.- Sotto quest’ultimo aspetto, attinente all’esatta applicazione dell’articolo 151, 2º co., c.c. – la cui violazione non è stata però denunziata dalla ricorrente, se non nel quadro improprio del vizio di motivazione -, la conclusione impugnata (irrilevanza dell’infedeltà attribuita al D.G.) è corretta, in conformità a consolidata giurisprudenza di questa suprema corte, condivisa dal collegio, per cui una stabile relazione extra-coniugale viola gravemente l’obbligo di fedeltà e può rendere intollerabile la convivenza, giustificando l’addebito al coniuge che ne è responsabile, sol quando sia accertata l’esistenza del nesso causale fra tradimento e crisi della coppia (Cass. nn. 13747/2003, 7859/2000); nesso eziologico che la corte di merito, altrettanto ineccepibilmente, non ravvisa in questo caso, avendo giudicato sufficiente e non giustificato da quello “eventuale” del marito, quale fattore causale dissolutivo della convivenza, “il comportamento della G., che appare non solo contravvenire agli obblighi derivanti dal matrimonio ma anche gravemente lesivo dei sentimenti delle figlie”.

8.- Per le ragioni suesposte, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P. Q. M.

La Corte di Cassazione

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.100,00 (tremilacento), di cui Euro 3.000,00 (tremila) per onorari; oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della prima sezione civile, il 17 gennaio 2005.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 1 MAR. 2005