Corte d’Appello di Firenze, decreto del 6 dicembre 2006

esaminati gli atti e i documenti del processo;

premesso che il cittadino neozelandese D.W.M.C. e il cittadino italiano R.T. hanno ottenuto dallo stato della Nuova Zelanda il riconoscimento di partners de facto e che, in forza di questo provvedimento, il M.C. intende ottenere il rilascio del permesso di soggiorno in Italia per motivi familiari, ponendo a sostegno della richiesta il suo «legame familiare» con il T.;

rilevato che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari è regolato in via generale dall’articolo 28 del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 e più specificamente dal successivo articolo, che dispone che «il permesso di soggiorno per motivi familiari è rilasciato: (…) c) al familiare straniero regolarmente soggiornante, in possesso dei requisiti per il ricongiungimento con il cittadino italiano o di uno Stato membro dell’Unione europea residenti in Italia, ovvero con straniero regolarmente soggiornante in Italia»;

atteso pertanto che il nostro ordinamento subordina il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari alla qualità di «familiare» del soggetto richiedente, cioè lo straniero che intende ricongiungersi ad altra persona residente in Italia deve essere suo familiare;

preso atto che a questo fine il M.C. e il T. richiamano le disposizioni degli articoli 24 e 65 della legge 31 maggio 1995 n. 218 che dispongono testualmente che «L’esistenza ed il contenuto dei diritti della personalità sono regolati dalla legge nazionale del soggetto; tuttavia i diritti che derivano da un rapporto di famiglia sono regolati dalla legge applicabile a tale rapporto» e che «hanno effetto in Italia i provenienti stranieri relativi alla capacità delle persone nonché all’esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità quando essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della presente legge o producono effetti nell’ordinamento di quello Stato, anche se pronunciati da autorità di altro Stato, purché non siano contratti all’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa»;

visto che il M.C. e T. sostengono che il loro status di familiari di fatto è stato riconosciuto dalle autorità neozelandesi, con un provvedimento relativo ad un diritto della loro personalità, quindi direttamente efficace nel nostro ordinamento giuridico;

considerato, al riguardo, che il provvedimento dell’autorità neozelandese si è limitato a riconoscere agli odierni resistenti la qualifica di partners di fatto, cioè di conviventi, e non di familiari, e quindi non ha attribuito loro la qualifica necessaria perché possa essere attribuito al M.C. lo status di familiare, richiesto necessariamente dalle richiamata legge n. 218 del 1998 perché possa essere rilasciato il permesso di soggiorno;

che è ius receptum che la condizione di convivente di fatto, sia pure ammantata da un riconoscimento ufficiale che ne attesta la durata e la stabilità, è del tutto diversa da quella di familiare, secondo quanto inteso dal nostro ordinamento giuridico, che la riconosce esclusivamente a quei soggetti legati dal vincolo parentale e, solo in taluni casi, anche di affinità;

che, nell’esaminare una questione di legittimità costituzionale della norma che vieta l’espulsione del familiare convivente con cittadino italiano e non anche l’espulsione del convivente non familiare, la Corte costituzionale ha ribadito «l’impossibilità di estendere, attraverso un mero giudizio di equivalenza tra le due situazioni, la disciplina prevista per la famiglia legittima alla convivenza di fatto» (Corte cost., ord., 11 luglio 2000, n. 313; Corte cost., 26 gennaio 1998, n. 2; Corte cost., 6 maggio 1998, n. 166), che «questa Corte ha anche in più occasioni affermato che la convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri (…) che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima» (Corte cost., n. 127 del 1997; Corte cost., 13 novembre 1986, n. 237; Corte cost., 2 aprile 1980, n. 45 e che «la previsione del divieto di espulsione per lo straniero coniugato con un cittadino italiano e per lo straniero convivente con cittadini che siano con lo stesso in rapporto di parentela entro il quarto grado risponde all’esigenza di tutelare, da un lato l’unità della famiglia, dall’altro il vincolo parentale e riguarda persone che si trovano in una situazione di certezza di rapporti giuridici invece assente nella convivenza more uxorio» (Corte cost., ord. 11 luglio 2000, n. 313);

che, pertanto, non è possibile una lettura costituzionalmente orientata della normativa de qua, nel senso di ricomprendere anche il convivente nella nozione di familiare, perché la stessa Corte costituzionale ha più volte inequivocabilmente chiarito che la convivenza—peraltro more uxorio e non la mera condivisione dell’abitazione è un rapporto di mero fatto e sotto alcun puntodi vista può essere equiparata alla famiglia legittima;

che d’altra parte, se è vero, come è vero, che il nostro ordinamento riconduce al rapporto tra coniugi una serie di diritti e di doveri che trovano la loro fonte nel contratto di matrimonio, queste obbligazioni, salvo l’intervento ad hoc del legislatore, non possono trovare uguale riconoscimento anche da un rapporto di mero fatto, in quanto tale privo di qualsiasi certezza giuridica, ancorché protrattosi per un lungo lasso di tempo;

atteso peraltro che lo stesso articolo 65 della legge n. 218 del 1995 subordina l’efficacia dei provvedimenti stranieri relativi all’esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità alla verifica che non siano contrari all’ordine pubblico, coerentemente con il primo comma del precedente articolo 16, ove si legge che – «la legge straniera non è applicata se i suoi effetti sono contrari all’ordine pubblico»;

che nel caso di specie la legge neozelandese, che riconosce la qualità di conviventi di fatto a persone dello stesso sesso, – è certamente contraria all’ordine pubblico italiano, vieppiù se fosse interpretato come costitutiva anche della qualità di familiari, intesa come coppia assimilabile ai coniugi, ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno;

ritenuto che, pur mancando a livello europeo ed extraeuropeo una disciplina sostanziale comune e cogente delle unioni tra persone dello stesso sesso, non si può prescindere dall’esaminare la corrispondenza dei modelli normativi liberamente scelta nei vari stati agli istituti dell’ordinamento nazionale, non potendosi attuare con lo strumento invocato dai resistenti e attraverso la forzosa esportazione delle scelte operate da altre comunità nazionali riconoscimento di nuove realtà di tipo familiare che deve trovare ingresso nella sede e nelle forme istituzionali proprie (cfr. anche: App. Roma, 13 luglio 2006, in Guida al diritto 2006, n. 35, 55);

che a maggior ragione non può essere applicata l’articolo 3, comma 2, lett. b), della direttiva n. 2004/38/CE, che riconosce il diritto di soggiorno nel territorio degli stati membri al partner con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata, perché la Nuova Zelanda non fa parte dell’Unione Europea e la direttiva comunque chiarisce «ai fini della presente direttiva, la definizione di familiare dovrebbe altresì includere il partner che ha contratto un’unione registrata, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio» e che «la situazione delle persone che non rientrano nella definizione di familiari ai sensi della presente direttiva, e che pertanto non godono di un diritto automatico di ingresso e di soggiorno nello Stato membro ospitante, dovrebbe essere esaminata dallo Stato membro ospitante sulla base della propria legislazione nazionale, al fine di decidere se l’ingresso e il soggiorno possano essere concessi a tali persone»;

che questa direttiva comunitaria quindi certamente non impone di riconoscere il diritto anche alle unioni tra partners di sesso diverso, ove queste non abbiano alcun riconoscimento negli stati membri;

evidenziato inoltre che l’articolo 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, su cui si basa l’articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, specifica che «a partire dall’età minima per contrarre matrimonio, “l’uomo e la donna” hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano tale diritto»;

che la formulazione di questo diritto chiarisce che anche nella materia delle unioni di tipo coniugale il contesto sovranazionale deve tenere conto e rispettare gli ambiti di competenza dei singoli stati (in materia di età minima e di status delle persone) e compete al legislatore nazionale dare attuazione alle direttive e raccomandazioni comunitarie, nelle forme che risulteranno conformi alla volontà parlamentare, quale espressione delle istanze provenienti dalla società;

che, conseguentemente, posto che il nostro ordinamento riconosce le unioni di tipo coniugale esclusivamente alle persone di sesso diverso, è evidente che non può essere recepita la normativa di un altro stato (a maggior ragione se non comunitario) che riconosca la qualità di conviventi di fatto, con l’attribuzione di tutti i correlati diritti, a persone dello stesso sesso, poiché suoi effetti sarebbero contrari all’ordine pubblico;

considerato pertanto che il reclamo proposto dal Ministero dell’interno deve essere accolto, con la revoca del decreto n. 266 del 7 luglio 2005 del Tribunale di Firenze;

 P. Q. M.

La Corte di Appello di Firenze, definitivamente decidendo, respinge la domanda proposta da D.W.M.C. e da R.T. con ricorso depositato il 27 gennaio 2005 e revoca decreto n. 266 del 7 luglio 2005 del Tribunale di Firenze.