Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza del 16 aprile 2007 n. 16417

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. PICCININNI Carlo – rel. Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Ufficio Territoriale del Governo di Torino in persona del Prefetto, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege;

– ricorrente –

contro

F. C.;

– intimato –

avverso il decreto del Giudice di Pace di Torino emesso nel procedimento n. 259/04 in data 21.12.2004;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16.4.2007 dal Relatore Cons. Dott. Carlo Piccininni;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Golia Aurelio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

FATTO E DIRITTO

Con decreto del 21.12.2004 il Giudice di Pace di Torino accoglieva il ricorso proposto da C. F., cittadino senegalese, avverso il decreto di espulsione emesso nei suoi confronti ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 5 ter, ravvisando la sussistenza di una delle ipotesi previste dall’art. 19, detto decreto. In particolare la disposizione citata vieta l’espulsione verso stati in cui lo straniero potrebbe essere oggetto di persecuzioni, fra l’altro per motivi sessuali, e dalla documentazione acquisita sarebbe emerso sia che il F. è omosessuale, sia che l’omosessualità in Senegal è punita con la reclusione da uno a cinque anni. Avverso il detto decreto la Prefettura di Torino proponeva ricorso per cassazione affidato ad un solo motivo, cui non resisteva il F., con il quale denunciava l’erroneità della decisione sostenendo che non fosse configurabile la prospettata ipotesi della persecuzione, non potendo considerarsi tale la previsione della reclusione, che peraltro non risultava essere stata inflitta, e lamentando che comunque la semplice iscrizione a due associazioni frequentate da omosessuali, in mancanza di ulteriori dati (quali ad esempio la data di adesione) sarebbe inidonea a dimostrare l’effettiva omosessualità dell’iscritto.

La doglianza è fondata nei termini e nei limiti appresso precisati. Al riguardo va innanzitutto osservato, in via preliminare, che è del tutto condivisibile l’affermazione contenuta nel decreto impugnato, secondo la quale l’omosessualità va riconosciuta “come condizione dell’uomo degna di tutela, in conformità ai precetti costituzionali”, assunto da cui discende che la libertà sessuale va “intesa anche come libertà di vivere senza condizionamenti e restrizioni le proprie preferenze sessuali”, in quanto espressione del diritto alla realizzazione della propria personalità, tutelato dall’art. 2 Cost..

Partendo da tale corretta premessa, tuttavia, il giudice di pace è pervenuto a conclusioni che non appaiono sorrette da adeguata motivazione.

Egli ha infatti ritenuto sussistere l’ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1 (che stabilisce il divieto di espulsione dello straniero, ove potenzialmente esposto a persecuzione, fra l’altro per motivi di sesso ricorrenti nella specie) in ragione di un duplice dato, vale a dire la

configurabilità di un fatto persecutorio nella previsione della omosessualità come reato, punito con la reclusione da uno a cinque anni, nello Stato di appartenenza del soggetto espulso (Senegal), e l’accertata omosessualità del F..

Come rilievo preliminare sul primo dato sopra considerato sembra intanto utile precisare che per persecuzione si deve intendere una forma radicale e spietata di lotta contro una minoranza, che si manifesta con maltrattamenti, soprusi, coercizioni e modalità comunque contrarie alla tutela dei diritti umani.

Tale strategia di aggressione può però essere attuata non solo con vessazioni di carattere materiale, ma anche sul piano giuridico sicché, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, per integrare il concetto di persecuzione è sufficiente – in via del tutto astratta e salve le ulteriori specificazioni sul punto – la semplice previsione del comportamento che si intende contrastare come reato punibile con la reclusione (tanto più ove le modalità di attuazione del trattamento penitenziario nello stato senegalese avessero carattere vessatorio e fossero lesive della dignità umana), non essendo a tal fine necessaria anche la concreta emanazione di una condanna.

Tuttavia, oltre al fatto che non è stato accertato se l’ordinamento giuridico senegalese preveda degli istituti che consentano il differimento della esecuzione della pena o la sua attuazione al di fuori delle strutture penitenziarie (quali a titolo esemplificativo la sospensione della pena o l’affidamento al servizio sociale), il punto di decisiva rilevanza che è rimasto in ombra nella decisione impugnata è quello relativo all’identificazione dell’oggetto del precetto penale dettato nella legislazione senegalese. Ed invero, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, la statuizione relativa al divieto di espulsione non è errata perché in contrasto “con le basi del principio di autodeterminazione e sovranità dello Stato straniero inteso come sistema di norme”, e ciò in quanto la questione da affrontare non è quella concernente la possibile interferenza della decisione con l’autonomia legislativa degli altri Stati, ma piuttosto quella di soddisfare l’esigenza di evitare ingiuste sopraffazioni nei confronti di cittadini stranieri, aprioristicamente legate ad un fatto di appartenenza (razza, sesso, cittadinanza, religione, opinioni politiche, condizioni personali o sociali).

Tuttavia, fermo restando quanto sinora esposto, il semplice richiamo alla rilevanza penale attribuita all’omosessualità nello stato senegalese non vale di per sè ad integrare gli estremi del fatto persecutorio, essendo questo configurabile soltanto laddove la sanzione penale sia prevista con riferimento alla qualità dell’agente, e non necessariamente anche in relazione alla pratiche che dalla stessa eventualmente conseguano.

Ai fini dell’accertamento della ravvisabilità o meno di un fatto persecutorio occorre cioè stabilire, venendo al concreto, se la legislazione senegalese preveda come reato il fatto in sè dell’omosessualità (ipotesi che certamente varrebbe in sè ad integrarne gli estremi), ovvero soltanto l’ostentazione delle pratiche omosessuali non conformi al sentimento pubblico di quel paese atteso che, in tale ultimo caso, il divieto non si sottrarrebbe al principio di ragionevolezza.

Solo nella prima ipotesi, infatti, sarebbe ravvisabile un fatto persecutorio, alla stregua dei principi generali di libertà e dignità della persona.

L’accoglimento dell’opposizione del F., come detto, è stata determinata dall’ulteriore dato relativo alla prova che sarebbe stata raggiunta in ordine alla sua omosessualità.

In particolare è stato già rilevato che detta prova è stata ricavata dall’essersi egli “iscritto all’Arci Gay in tempi non sospetti, subito dopo il suo ingresso in Italia, e di essere socio da diversi anni di un altro club riservato agli omosessuali”. Si tratta certamente di elementi indiziari significativi, che però non risultano tali da conferire la certezza necessaria alla dichiarata omosessualità del F..

Giova innanzitutto premettere, in proposito, che la natura della fattispecie in esame richiede una rigorosa attenzione nell’esame del materiale probatorio, poiché è una ipotesi derogatoria rispetto alla disciplina generale dell’espulsione e per di più, ove diversamente considerata, potrebbe dare adito a strumentalizzazioni e ad agevoli elusioni della disciplina generale, strumentalizzazioni che non possono comunque essere escluse solo per il tempo trascorso dalla data di iscrizione ai Club (cui il giudicante ha annesso significativa rilevanza), non necessariamente riconducibile ad una genuinità di intenti.

Orbene, alla luce di quanto ora esposto è da ritenere che la semplice iscrizione (nel caso in esame duplice) ad un club di omosessuali non rappresenti una prova sufficiente a dare dimostrazione di una omosessualità dichiarata dell’iscritto, la quale pure potrebbe provarsi con il ricorso alla prova orale. Indipendentemente da quanto detto a proposito della possibile strumentante delle adesioni (che già di per sè renderebbe insufficiente la prova della omosessualità, ove non ulteriormente confortata), va infatti rilevato che dal provvedimento del giudice di pace non si evince che vi sia stato accertamento in ordine alla limitazione della iscrizione in favore di omosessuali, che al contrario dall’art. 8 dello Statuto dell’Arci Gay, quale riportato nel ricorso, si desume che l’iscrizione non soffre di limitazioni sul piano sessuale (la stessa è invero consentita a tutti coloro che si riconoscono nelle finalità dell’associazione), che non solo non vi sono ragioni di ordine logico che possano indurre a prevedere limiti di iscrizione in relazione agli orientamenti sessuali, ma sono viceversa individuabili chiare ragioni in senso opposto, non essendovi motivo di operare discriminazioni sulla base di opzioni personali sul piano sessuale (eterosessuale o omosessuale), a fronte di iniziative di sostegno in favore dell’associazione per le finalità da essa perseguite.

In conclusione il ricorso deve essere accolto, con cassazione del decreto impugnato e rinvio al giudice di pace di Torino in persona di altro giudicante, per una nuova delibazione in ordine all’opposizione del F., alla luce delle considerazioni sinora svolte. Il giudice di rinvio provvedere infine anche alla liquidazione delle spese processuali del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa il decreto impugnato e rinvia al Giudice di Pace di Torino in persona di altro giudicante, anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 16 aprile 2007.