Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, sentenza del 6 dicembre 2006

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, prima Sezione, con l’intervento dei magistrati:

Italo Franco -Presidente f. f.

Fulvio Rocco -Consigliere

Marco Buricelli -Consigliere, rel. ed est.

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso e sull’ “atto di integrazione dei motivi” rubricati al n. xxxx del xxx proposti da xxxxxxxxxx, rappresentato e difeso dagli avvocati Francesco Curato e Luigi Ravagnan ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo in Venezia, Piazzale Roma n. 468/B ;

contro

il Ministero dell’interno, in persona del legale rappresentante “pro tempore”, costituitosi in giudizio, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Venezia, domiciliataria per legge presso la sua sede in Piazza San Marco n. 63;

per l’annullamento

del decreto del 21 aprile 2006 con il quale il Capo della Polizia –Direttore generale della Pubblica Sicurezza ha destituito dal servizio il ricorrente, vice sovrintendente della Polizia di Stato, a decorrere dal 28 aprile 2006; e della presupposta deliberazione del 28 marzo 2006 con la quale il Consiglio provinciale di disciplina presso la Questura di Venezia ha proposto al Capo della Polizia di infliggere all’xxxxx la sanzione disciplinare della destituzione;

visto il ricorso, notificato il 26 maggio 2006 e depositato in segreteria il 29 maggio 2006, con i relativi allegati;

visti il controricorso dell’Avvocatura dello Stato per l’Amministrazione dell’interno e la relazione istruttoria in data 5 giugno 2006 del Dipartimento della Pubblica Sicurezza –Ufficio del Contenzioso, con i relativi allegati;

vista l’ordinanza n. xxx del xxxxxxxxxxxx con la quale la sezione ha respinto la domanda incidentale di sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato;

visto l’atto di integrazione dei motivi, notificato il 16 giugno 2006 e tempestivamente depositato in segreteria;

vista la memoria prodotta dalla parte ricorrente a sostegno della propria difesa;

visti gli atti tutti della causa;

uditi, all’udienza del 6 dicembre 2006 (relatore il consigliere Marco Buricelli), gli avvocati: Francesco Curato e Luigi Ravagnan per il ricorrente e Stefano Cerillo per l’Amministrazione dell’interno;

premesso in fatto e considerato in diritto quanto segue:

1.-per una migliore comprensione della vicenda appare utile riassumere i fatti rilevanti come segue:

-con relazione del 9 novembre 2005 (v. allegato 3 fasc. P. A.) il dirigente del Compartimento Polizia postale “Veneto” riferiva al Questore di Venezia, ai sensi dell’art. 12 del d.P.R. n. 737 del 1981, di avere appreso che il vice sovrintendente xxxxxxxxxx, in servizio presso il Compartimento, era stato visto, da due agenti in servizio presso la Squadra Mobile di Venezia, alle ore 17 circa del 28 ottobre 2005, circolare per Venezia, nella centralissima Strada Nova, nei pressi del Ponte Novo San Felice, con abbigliamento femminile, nello specifico indossando una minigonna color celeste, una canotta di colore giallo con allacciatura dietro la nuca, scarpe aperte e orecchini pendenti lunghi fino alle spalle. Il dirigente del Compartimento Polpost riferiva inoltre che una pattuglia della Squadra Volanti veneziana aveva visto l’xxxx, il 31 ottobre 2005, verso le ore 20.15, a Venezia, in Riva del Vin, nei pressi del Ponte di Rialto, con indosso una minigonna di colore celeste, un giubbino tipo “bomber” di colore beige, un paio di sandali e uno zaino. Il dirigente soggiungeva che in precedenza gli erano pervenute segnalazioni informali sulla tendenza del dipendente a travestirsi con abiti femminili e a circolare, così abbigliato, nei centri di Venezia e di Mestre (sarà chiarito più avanti –v. foglio di contestazioni di addebiti del 16 dicembre 2005 –allegato 5 fasc. P. A. e relazione del funzionario istruttore del 6 febbraio 2006 –allegato 9 fasc. P. A., che ai due “avvistamenti” del 28 e del 31 ottobre 2005 se ne era aggiunto un terzo: alle ore 20 circa del 9 (o del 10) novembre 2005 un agente in servizio alla Squadra Mobile di Venezia aveva notato l’xxx nei pressi dell’imbarcadero di Piazzale Roma della linea di navigazione Actv n. 82 vestito con abbigliamento femminile, nello specifico con una minigonna celeste, una maglietta nera corta con l’ombelico visibile e due orecchini pendenti fino alle spalle). Nella relazione il dirigente del Compartimento esponeva anche:

-di avere parlato con il dipendente il quale, pur escludendo di essere dedito alla pratica di vestirsi con abbigliamento femminile, ammetteva di avere indossato a volte capi di abbigliamento estrosi;

-che il dipendente non era nuovo a manifestazioni esibizionistiche tanto che, punito con la sanzione della pena pecuniaria con provvedimento del 13 ottobre 2004 poiché “al di fuori dell’orario di servizio assumeva atteggiamento non consono alla qualifica rivestita e puntava la pistola d’ordinanza verso soggetto estraneo all’Amministrazione per la soluzione di questioni personali, abusando così della propria qualifica –art. 4 punto 18 del d.P.R. n. 737 del 1981 –mancanza commessa l’11 giugno 2004”, nella fase istruttoria del procedimento disciplinare –cfr. relazione di servizio Squadra Volanti dell’11 giugno 2004- era emerso che l’xxxx era solito, nei periodi estivi, lavare l’autovettura in un giardino condominiale in costume da bagno e in alcuni casi denudarsi, destando le reazioni degli altri vicini;

-con foglio di addebiti del 16 dicembre 2005 l’Amministrazione ha contestato all’xxxx di essere stato notato, nelle tre occasioni sopra riferite, in centro storico a Venezia, mentre si trovava abbigliato con abiti femminili, e ha rilevato che l’xxx non è nuovo a manifestazioni esibizionistiche, che hanno provocato le reazioni dei vicini e hanno comportato un procedimento disciplinare a carico del dipendente. Nel foglio di addebiti sono state ritenute configurabili le mancanze previste dall’art. 7, numeri 1) e 6) del d.P.R. n. 737 del 1981;

-il dipendente si è giustificato, il procedimento è stato istruito e nella riunione del 28 marzo 2006 il Consiglio provinciale di disciplina, dopo avere ritenuto superabili alcune eccezioni di carattere procedurale sollevate dal difensore dell’incolpato, ha giudicato l’xxx responsabile dell’infrazione disciplinare prevista dall’art. 7, nn. 1) e 6) del decreto n. 737 del 1981, avendo ravvisato nel comportamento del dipendente atti che rivelano mancanza del senso dell’onore e del senso morale, e per persistente riprovevole condotta dopo l’avvenuta applicazione del provvedimento disciplinare della pena pecuniaria, e ha proposto al Capo della Polizia di destituire il dipendente dal servizio considerando:

-la piena ammissione, da parte dell’inquisito, dei fatti oggetto di contestazione, nonché il suo pieno convincimento di avere diritto di indossare abiti femminili (abbigliamento succinto e accessori tipici femminili) al di fuori del servizio, in quanto libera espressione della sua natura estrosa e anticonformista;

-che un siffatto convinto comportamento, palesemente in contrasto con quanto disposto dagli articoli 13 del d.P.R. 28 ottobre 1985 e 68 della l. n. 121 del 1981 non viene peraltro assolutamente condiviso dal comune sentire della collettività e quindi finisce per refluire sul decoro e sul prestigio dell’Amministrazione nonché sulla sua affidabilità nei confronti dei cittadini;

-la reiterazione di persistente riprovevole condotta nonostante altro provvedimento disciplinare della “pena pecuniaria”, provvedimento tuttora in vigore in quanto, sebbene oggetto di ricorso al Tar, non colpito da alcun provvedimento di sospensione;

-i precedenti disciplinari e di servizio;

-con il provvedimento in epigrafe è stata decretata la destituzione a decorrere dal 28 aprile 2006 considerato che il comportamento tenuto dall’xxx “è oltremodo riprovevole e assolutamente inconciliabile con le funzioni proprie di un operatore di polizia, pregiudizievole per il servizio e tale da rendere incompatibile una sua ulteriore permanenza nella Polizia di Stato; accertata la più assoluta mancanza del senso dell’onore e della morale in quanto, nella sua qualità di tutore dell’ordine, avrebbe dovuto considerare il disvalore della sua azione e astenersi dalla commissione del fatto; valutati i precedenti di servizio e le giustificazioni addotte dall’interessato, che peraltro ha ammesso i fatti, valutandoli come libera espressione della propria natura estrosa e anticonformista; considerato che nella fattispecie ricorrono gli estremi per l’applicazione della destituzione, ai sensi dell’art. 7, nn. 1 del d.P.R. n. 737/81 e ritenuto che non sussistono motivi per discostarsi dal deliberato del Consiglio di disciplina”.

Avverso e per l’annullamento del decreto di destituzione l’xxx ha formulato due gruppi di motivi: il primo gruppo, su cui si rinvia alle censure da 1) a 5), concerne l’illegittimità degli atti del procedimento disciplinare; il secondo, su cui v. le censure da 6) a 10), quest’ultima dedotta con l’ “atto di integrazione dei motivi” notificato il 16 giugno 2006, è incentrato sugli asseriti vizi del provvedimento sanzionatorio e della relativa proposta del Consiglio di disciplina.

L’Avvocatura dello Stato si è costituita, ha succintamente controdedotto e ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

2.-in diritto va premesso che la motivazione della sentenza si suddividerà in due parti. La prima parte riguarderà le censure, di carattere procedimentale, formulate “sugli atti del procedimento disciplinare”, con i motivi da 1. a 5. (v. ricorso, da pagina 6 a pagina 13), mentre la seconda parte della motivazione si incentrerà sulle censure dedotte ai numeri da 6. a 10. e relative ai “vizi del provvedimento sanzionatorio e della proposta del Consiglio di disciplina (v. le pagine da 13 a 25 del ricorso e l’atto di integrazione dei motivi).

2.1.-La censura sub 1. concerne l’asserita violazione dell’art. 12, ultimo comma, del d.P.R. n. 737 del 1981, secondo cui il rapporto del superiore che rileva l’infrazione “non deve contenere alcuna proposta relativa alla specie e all’entità della sanzione”, e dell’art. 19, comma 1, del decreto medesimo, là dove è previsto che l’istruttoria per irrogare la destituzione ha inizio con il capo dell’ufficio che, avuta notizia di un’infrazione, commessa da un dipendente, per la quale sia prevista una sanzione più grave della deplorazione, informa il Questore della provincia in cui il dipendente –trasgressore presta servizio: nella specie le violazioni suddette emergerebbero dall’esame della relazione in data 9 novembre 2005 con la quale il dirigente del Compartimento Polizia postale Veneto avrebbe finito per formulare al Questore una specifica proposta sanzionatoria, nei termini di una sospensione dal servizio o di una destituzione. Dall’invalidità del rapporto del 9 novembre 2005 discenderebbe l’illegittimità della sanzione disciplinare inflitta all’xxx.

Ad avviso del collegio la violazione delle norme sopra trascritte non sussiste poiché il dirigente del Compartimento Polpost Veneto, nel rapporto del 9 novembre 2005, non ha formulato una specifica proposta sanzionatoria ma si è limitato a riferire fatti muovendo dal presupposto, stabilito “ex lege” (cfr. art. 19 del decreto n. 737 del 1981, anche in raffronto agli articoli 17 e 18 del decreto medesimo), che il comportamento del dipendente fosse astrattamente punibile con una sanzione più grave della deplorazione.

Il capo dell’ufficio, nel decidere di riferire al Questore fatti e circostanze rilevanti al fine di procedere disciplinarmente per l’eventuale applicazione di sanzioni gravi, ha doverosamente preso le mosse dalla astratta qualificabilità dei comportamenti descritti nella relazione come infrazioni per le quali era ipotizzabile irrogare la sospensione dal servizio o la destituzione: sotto questo profilo non può disconoscersi che al capo dell’ufficio spettino margini di “apprezzamento preliminare” con riguardo a quanto prevede l’art. 19 in raffronto ai due articoli, che lo precedono, relativi ai procedimenti per l’irrogazione di sanzioni meno gravi della sospensione dal servizio. Ciò non toglie però che, dopo avere valutato se – e deciso di- fare al Questore la comunicazione ex art. 19 decreto n. 737/81, il dirigente compartimentale, con la relazione del 9 novembre 2005, si è limitato, lo si ripete, a esporre i fatti muovendo dall’assunto dell’astratta punibilità dei comportamenti indicati nel rapporto con una sanzione più grave della deplorazione.

2.2.-Con la censura sub 2. è stata rilevata l’inosservanza dei termini di cui all’art. 19 del d.P.R. n. 737 del 1981 nelle parti in cui –v. comma 4- è previsto che il funzionario istruttore provvede, entro dieci giorni, a contestare gli addebiti al trasgressore invitandolo a giustificarsi, e là dove –v. comma 5- viene stabilito che l’inchiesta deve essere conclusa entro il termine di 45 giorni , prorogabile una sola volta di 15 giorni a richiesta motivata dell’istruttore.

Nel ricorso si precisa che il dott. Della Rocca è stato nominato funzionario istruttore con provvedimento del Questore del 24 novembre 2005 ma ha contestato gli addebiti disciplinari all’xxx solo il 16 dicembre 2005 e ha concluso l’inchiesta istruttoria, pur avendo ottenuto la proroga di 15 giorni, soltanto il 6 febbraio 2006, in entrambi i casi non rispettando i termini di cui all’art. 19. Nel ricorso si sottolinea che a nulla rileverebbe il fatto che la nomina a funzionario istruttore è stata comunicata al dott. Della Rocca solamente il 9 dicembre 2005 e che rispetto a quest’ultima data i termini suindicati sono stati osservati.

Il collegio ritiene che nel formulare la censura sopra riassunta l’xxx abbia proceduto dalla premessa –erronea- secondo cui ai fini del calcolo dei 10 giorni e dei 45 giorni dovrebbe essere considerato anche il periodo di tempo anteriore alla comunicazione del provvedimento del Questore di nomina a funzionario istruttore.

I termini suddetti vanno invece fatti decorrere dal giorno in cui il funzionario istruttore ha avuto la comunicazione dell’avvenuta nomina e la censura va respinta perché la nomina a funzionario istruttore è stata comunicata al dott. Della Rocca il 9 dicembre 2005; il dott. Della Rocca ha contestato gli addebiti all’xxx il 16 dicembre 2005; lo stesso funzionario istruttore ha ottenuto dal Questore una proroga di 15 giorni, dal 24 gennaio 2006, per completare l’istruttoria e l’inchiesta è terminata il 6 febbraio 2006 (v. allegati 5, 8 e 9 fasc. P. A.) : la tempistica prevista dal citato art. 19 è stata pertanto osservata, e ciò indipendentemente dal rilievo secondo cui “ha carattere ordinatorio e non perentorio il termine di 45 giorni per la conclusione dell’inchiesta disciplinare (cfr., da ultimo, Cons. St., Ad. plen. n. 10 del 2006).

2.2.-Con la censura sub 3., concernente violazione degli articoli 120 del t. u. n. 3 del 1957 e 31 del d.P.R. n. 737 del 1981 il ricorrente, dopo avere premesso che per effetto del richiamo, di cui all’art. 31 del decreto n. 737 del 1981, alle norme di carattere generale del decreto n. 3 del 1957 sugli di impiegati civili dello Stato, deve ritenersi operante nel procedimento disciplinare anche il termine di cui all’art. 120 del citato d.P.R. n. 3 del 1957 che prevede l’estinzione automatica del procedimento quando siano decorsi 90 giorni dall’ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto, sottolinea che tra la nota di contestazione degli addebiti del 16 dicembre 2005 e il decreto di destituzione del 21 aprile 2006 sono trascorsi oltre 90 giorni –sottinteso: senza che siano stati compiuti atti ulteriori-, con la conseguenza che deve ritenersi verificata l’ipotesi dell’estinzione del procedimento ai sensi del citato art. 120.

Per respingere la censura sopra riassunta basta rilevare che, come si ricava dall’esame della documentazione prodotta in giudizio (v., in particolare, gli allegati 2, 9, 10 e 11 fasc. P. A.):

-il 6 febbraio 2006 il funzionario istruttore ha trasmesso al Questore la relazione conclusiva ex art. 19 del d.P.R. n. 737 del 1981;

-in data 20 febbraio 2006 il Questore ha trasmesso, al presidente del Consiglio provinciale di disciplina, il carteggio dell’inchiesta ai sensi dell’art. 19 del decreto n. 737/81;

-in data 21 febbraio 2006 il Consiglio di disciplina ha domandato, alle segreterie provinciali di SIULP e COISP, di designare il proprio rappresentante in seno al Consiglio di disciplina, e ciò ai sensi dell’art. 16 del d.P.R. n. 737 del 1981;

-nella riunione del 28 marzo 2006 il Consiglio di disciplina ha proposto l’irrogazione della destituzione: il compimento di numerosi atti interni del procedimento disciplinare, previsti dal decreto n. 737 del 1981, esclude quindi che possa ritenersi verificata l’ipotesi dell’estinzione del procedimento medesimo ai sensi dell’art. 120 del t. u. n. 3 del 1957.

2.4.-Con la censura sub 4. è stata ipotizzata la violazione dell’art. 19 del d.P.R. n. 737 del 1981 nella parte in cui è previsto che l’autorità competente –nel caso specifico il Questore-, una volta ricevuta la relazione conclusiva del funzionario istruttore, se ritiene che gli addebiti sussistano trasmette il carteggio dell’inchiesta al Consiglio di disciplina competente “con le opportune osservazioni”. Nel ricorso, dopo avere precisato che il ruolo assegnato al Questore “non può essere quello di un semplice passacarte dal funzionario istruttore al Consiglio di disciplina, ma quello di un organo chiamato a esprimere un giudizio decisivo ai fini dello sviluppo dell’ “iter” procedimentale, e che dall’esame della nota 8 febbraio 2006 prot. n. 8714 (v. allegato 10 fasc. P. A.) emerge che il Questore ha trasmesso, al Consiglio di disciplina, la relazione conclusiva del funzionario istruttore senza esprimere alcun giudizio sulla fondatezza, o meno, degli addebiti; nel ricorso, si diceva, si sottolinea che l’autorità competente avrebbe agito in base all’erroneo presupposto di dover necessariamente inviare la relazione istruttoria al Consiglio di disciplina, quando invece l’art 19, nei commi penultimo e ultimo, esige dal Questore una delibazione della vicenda, a garanzia soprattutto del dipendente inquisito in sede disciplinare, posto che il Questore ha anche il potere di disporre motivatamente l’archiviazione degli addebiti: dalla mancata formulazione delle osservazioni discenderebbe dunque l’illegittimità del procedimento disciplinare e del provvedimento finale.

Anche la censura su esposta è infondata e va respinta: diversamente da quanto sembra ipotizzare il ricorrente, il Questore ha compiuto una valutazione preventiva ben precisa, scegliendo di non archiviare il procedimento e di non trasmettere gli atti all’organo competente a infliggere una sanzione minore. Nell’optare per l’invio degli atti al Consiglio di disciplina senza, peraltro, formulare autonome osservazioni il Questore ha –sia pure solo implicitamente, ma non per ciò meno attendibilmente- ritenuto condivisibili le risultanze e le considerazioni finali del funzionario istruttore ricavabili dalla relazione conclusiva, recependole. Più in generale, appare coerente con le norme di cui all’art. 19 del decreto n. 737 del 1981 e conforme a ragionevolezza interpretare il su citato art. 19 nel senso che alla nota di trasmissione del carteggio dell’inchiesta vanno aggiunte le osservazioni del Questore soltanto se quest’ultima autorità ritiene di dover formulare osservazioni particolari; e nel senso che la mancanza di osservazioni autonome non vizia il procedimento disciplinare e il provvedimento finale ma, costituendo una violazione minima, si concreta tutt’al più in una mera irregolarità formale, non invalidante.

2.5.- Con la censura sub 5. il ricorrente rileva la violazione dell’art. 16, comma 4, del d.P.R. n. 737 del 1981 -il quale rimette alla competenza del Questore la nomina del Consiglio provinciale di disciplina, stabilendone la obbligatoria composizione e prevedendo che i componenti durano in carica un anno- evidenziando che dalla lettura della nota 21 febbraio 2006 del Vice Segretario del Consiglio provinciale di disciplina di Venezia emergerebbe che il Consiglio stesso non sarebbe stato precostituito una volta per tutte prima della sottoposizione della vicenda del ricorrente al suo esame ma, per quanto attiene ai due componenti di designazione sindacale, sarebbe stato costituito solo dopo la trasmissione degli atti da parte del Questore: ciò che concreterebbe la violazione del principio della precostituzione del giudice disciplinare e del principio di imparzialità dell’azione amministrativa al quale si ispira il citato art. 16.

Anche la quinta censura va respinta poiché l’art. 16, comma 8, del decreto n. 737 del 1981 si limita a prevedere che con decreto del questore è costituito, in ogni provincia, il consiglio di disciplina composto, tra gli altri –v. lettera c) – da due appartenenti ai ruoli della Polizia di Stato di qualifica superiore a quella dell’incolpato, designati di volta in volta dai sindacati di polizia più rappresentativi sul piano provinciale…i membri di cui alla lettera b) durano in carica un anno: nella specie la richiesta di designazione, designazione e la nomina sono avvenute in conformità a quanto prevede il citato art. 16 comma 8.

2.6.- Con la censura sub 6. il ricorrente muove dal presupposto secondo cui il Consiglio di disciplina avrebbe proposto la destituzione ritenendo sussistenti le violazioni riconducibili all’art. 7, comma 2, n. 1) –atti che rivelino mancanza del senso dell’onore o del senso morale, e n. 6) –reiterazione delle infrazioni per le quali è prevista la sospensione dal servizio o per persistente riprovevole condotta dopo che siano stati adottati altri provvedimenti disciplinari; con riguardo a quest’ultima fattispecie considera esistente la reiterazione con riferimento al procedimento disciplinare del 2004 che si è concluso con l’applicazione della pena pecuniaria. Ciò premesso nel ricorso si sottolinea che mentre la contestazione di addebiti 16 dicembre 2005 nel riferirsi, tra l’altro, al fatto che l’xxxx non è nuovo a comportamenti “esibizionistici” che avrebbero provocato in passato la reazione dei vicini, utilizza il richiamo ai comportamenti suddetti per ritenere configurabile anche la mancanza di cui all’art. 7 n. 6), in realtà il comportamento del ricorrente accertato, valutato e sanzionato nel 2004 era circoscritto all’utilizzo improprio della pistola d’ordinanza e a null’altro. In altre parole, come emerge sia dalla contestazione di addebito del 28 luglio 2004 sia dal provvedimento di applicazione della pena pecuniaria del 13 ottobre 2004, nella precedente sede disciplinare mai era stato valorizzato e neppure sanzionato alcun atteggiamento esibizionistico del ricorrente. In questa prospettiva, conclude il ricorrente, appare erroneo il richiamo, da parte del Consiglio di disciplina, a una “persistente riprovevole condotta” riferita a un comportamento –esibizionistico- tenuto dal ricorrente in passato e sanzionato con la pena pecuniaria ma “completamente estraneo alla fattispecie di illecito disciplinare”.

La censura è infondata e va respinta.

Nel ricorso si procede dalla premessa secondo cui la “persistente riprovevole condotta dopo che siano stati adottati altri provvedimenti disciplinari” presupporrebbe che i precedenti disciplinari rilevanti ai fini dell’applicazione dell’art. 7, n. 6), seconda parte, dovrebbero riguardare condotte identiche o, quantomeno, analoghe rispetto a quella della cui asserita persistenza si fa questione. Nel ricorso si muove inoltre dall’assunto che la pena pecuniaria sarebbe stata inflitta esclusivamente in relazione all’episodio del puntamento della pistola d’ordinanza contro il vicino e non anche per avere l’xxxx assunto atteggiamenti esibizionistici.

Il primo presupposto argomentativo dal quale prende le mosse il ricorrente appare tuttavia erroneo, e ciò inficia le conclusioni alle quali il ricorrente giunge al termine del suo ragionamento.

Esclusa la rilevanza del riferimento alla “reiterazione di infrazioni per le quali è prevista la sospensione dal servizio”, di cui al n. 6), prima parte, poiché gli atti impugnati citano la diversa ipotesi della persistente riprovevole condotta (e non poteva essere diversamente dato che nel 2004 l’Amministrazione aveva inflitto all’xxx una pena pecuniaria e non una sospensione dal servizio); ed esclusa la pertinenza al caso “de quo” del precedente giurisprudenziale Cons. St. n. 3306 del 2006 citato dal ricorrente, dato che si tratta di una vicenda che riguardava la reiterazione di infrazioni per le quali era stata inflitta la sospensione dal servizio, con conseguente ricaduta nella fattispecie di cui al n. 6) -prima parte; il collegio ritiene che il n. 6) –seconda parte –“persistente riprovevole condotta…” non esiga identità o perlomeno analogia di condotte fra le trasgressioni del passato e l’infrazione punibile con la destituzione. Il n. 6) –seconda parte trova applicazione cioè anche se le condotte sanzionate in passato sono prive di caratteri comuni rispetto al comportamento sanzionabile con la destituzione.

L’applicazione del n. 6) –seconda parte presuppone l’adozione di “altri provvedimenti disciplinari” senza specificazioni ulteriori: specificazioni che, credibilmente, sarebbero state inserite se si fosse voluto circoscrivere l’applicazione del n. 6) –seconda parte a condotte tra loro identiche o, perlomeno, analoghe.

In definitiva, il giudizio negativo idoneo a giustificare la destituzione dal servizio può essere collegato anche al perseverare di per sé del dipendente in contegni sanzionati sul piano disciplinare, anche se per infrazioni diverse da quella per la quale si sta procedendo.

Considerata la infondatezza della censura il collegio può esimersi dal verificare la correttezza del secondo assunto dal quale ha preso le mosse il ricorrente, quello cioè secondo il quale il comportamento sanzionato nel 2004 con la pena pecuniaria “era circoscritto”, “verteva esclusivamente” sull’utilizzo improprio della pistola d’ordinanza (e non anche sul comportamento esibizionistico consistito nell’avere lavato l’auto in costume da bagno nel giardino condominiale).

2.7.- Se la censura sub 6) appare infondata e va respinta, la censura sub 10), connessa alla sesta censura, oltre a essere stata proposta tempestivamente, appare fondata e merita di essere accolta.

In via preliminare va precisato che il decimo motivo è stato proposto con un “atto di integrazione dei motivi” notificato all’Amministrazione il 16 giugno 2006. Poiché il provvedimento di destituzione è datato 21 aprile 2006, il motivo risulta essere stato formulato nei termini. A questo proposito la giurisprudenza (Cons. St. nn. 1224 del 2006, 1068 del 2006 e 3717 del 2002) ha affermato che “qualora il ricorrente, dopo la notifica del ricorso, ma entro il termine per la proposizione del medesimo, accerti l’esistenza di altri elementi sui quali fondare le proprie censure di illegittimità, in aggiunta a quelli posti a base del ricorso introduttivo, ha la possibilità di prospettare al giudice nuovi motivi entro il termine per la proposizione del ricorso originario; sicché … deve ritenersi ammissibile, pur dopo la notificazione del ricorso, la proposizione di nuovi motivi a integrazione delle censure originarie, purché proposti entro il termine di impugnazione dell’atto amministrativo… i motivi nuovi costituiscono semplicemente un’ulteriore manifestazione del potere di ricorso originario e sono, quindi, deducibili solo entro il termine decadenziale originario … mentre i motivi aggiunti sono quelli presentati dopo la scadenza del termine ordinario di impugnazione…” (così Cons. St. n. 1224/06 cit.). .

Nel merito va condivisa la posizione esposta dal ricorrente “per la denegata ipotesi” in cui il Tar interpreti il presupposto della “persistente riprovevole condotta” “anche in relazione a condotte precedenti diverse da quelle da ultimo contestate e sanzionate”.

Correttamente infatti la difesa dell’xxx sostiene che la premessa della “persistente riprovevole condotta dopo che siano stati adottati altri provvedimenti disciplinari” nella specie non sussiste –va soggiunto: tenuto conto che la motivazione del decreto impugnato, circa il n. 6) dell’art. 7, fa richiamo, così come formulata, esclusivamente alla pena pecuniaria inflitta nel 2004- giacché la norma di cui al n. 6) –seconda parte può essere interpretata nel senso che il persistere di una condotta riprovevole giustifica la destituzione non prima che siano state adottate molteplici (vale a dire più d’una) sanzioni meno gravi della sospensione.

In primo luogo, sul piano letterale, il riferimento, contenuto nella norma “de qua”, sia al necessario carattere di persistenza della condotta, sia alla previa adozione non di un altro provvedimento disciplinare ma di “altri provvedimenti disciplinari” induce plausibilmente a ritenere che il protrarsi di una condotta riprovevole sia in grado di determinare la sanzione della destituzione non prima della applicazione di più di una sanzione meno grave della sospensione (non importa se riferita a una infrazione diversa o analoga a quella punibile con la destituzione).

Se si fosse voluto subordinare la sanzione espulsiva alla previa adozione di un solo provvedimento disciplinare il d.P.R. n. 737 del 1981 avrebbe potuto, anzi dovuto usare espressioni quali ad esempio “ripetuta o reiterata” riprovevole condotta anziché “persistente” e inoltre “dopo che sia stato adottato altro provvedimento disciplinare” anziché “dopo che siano stati adottati altri provvedimenti disciplinari”, anche se rimane un margine di dubbio sul fatto se l’espressione “altri provvedimenti disciplinari” possa riferirsi, a ben guardare, a “uno qualsiasi degli altri provvedimenti disciplinari menzionati nel decreto n. 737”, vale a dire a una qualsiasi delle trasgressioni punite con la censura, la pena pecuniaria, la deplorazione etc… .

Sul piano logico giustamente si osserva nel ricorso che, avendo il n. 6) posto sullo stesso piano la reiterazione di infrazioni passibili di sospensione e la persistente riprovevole condotta a seguito di precedenti disciplinari sanzionati con misure anche meno gravi della sospensione dal servizio, la norma appare pienamente conforme ai principi di proporzionalità e di ragionevolezza solo se viene intesa nel senso che la destituzione ex n. 6 presuppone un unico precedente punito con la sospensione dal servizio oppure più di un precedente anche se sanzionato in misura più lieve della sospensione (nel caso di specie con la pena pecuniaria).

Ritenendo diversamente –vale a dire se bastasse, per giustificare la destituzione, la reiterazione di un’unica infrazione punita, indifferentemente, con la sospensione o con la deplorazione o con la pena pecuniaria- verrebbero equiparate illogicamente situazioni disomogenee sul piano della gravità (un precedente per il quale era prevista la sospensione e un precedente punito soltanto con la pena pecuniaria), il che appare inaccettabile alla luce dei principi sopra ricordati.

L’accoglimento della decima censura comporta la caducazione esclusivamente del capo di motivazione della delibera del Consiglio di disciplina – e del decreto di destituzione- relativamente alla ritenuta violazione dell’art. 7, n. 6), del decreto n. 737 del 1981, dal momento che negli atti impugnati viene richiamata, come si è già detto e come si dirà, solamente la sanzione della pena pecuniaria inflitta nel 2004.

Ciò però non è sufficiente per accogliere il ricorso: in primo luogo, il collegio ritiene che sia la deliberazione del Consiglio di disciplina –in maniera evidente- sia il decreto di destituzione –in modo meno sicuro ma comunque tutt’altro che implausibile- si basino sulla riconducibilittà dei comportamenti dell’xxxx sia alla fattispecie di cui all’art. 7, n. 1), sia alla fattispecie di cui al n. 6).

Per quanto riguarda la decisione del Consiglio di disciplina, la conclusione suddetta risulta pienamente comprovata sia dall’analisi del testo della delibera sia dalla lettura del verbale della trattazione orale del 28 marzo 2006.

Nella premessa della delibera si evidenzia che la contestazione degli addebiti ha riguardato le infrazioni disciplinari di cui all’art. 7, numeri 1) e 6), del decreto n. 737. Nel “constatato” si sottolinea che nella trattazione orale si è fatto riferimento ai “fatti di cui alle contestazioni”. Nel “considerato” si motiva la proposta di infliggere la destituzione richiamando sia la circostanza che i comportamenti tenuti dall’xxx –palesemente in contrasto con quanto dispongono gli articoli 13 del d.P.R. n. 782 del 1985 e 68 della l. n. 121 del 1981- non sono assolutamente condivisi dal comune sentire della collettività e quindi finiscono per ricadere negativamente sul decoro e sul prestigio dell’Amministrazione e sulla sua affidabilità nei confronti dei cittadini; sia “la reiterazione di persistente riprovevole condotta nonostante altro provvedimento disciplinare della pena pecuniaria” tuttora efficace.

Dalla lettura del verbale di trattazione orale emerge che le considerazioni svolte dal relatore e dal presidente, oltre che da altri componenti, si concentrano soprattutto sul “contrasto assoluto tra il comportamento dell’xxx con il comune senso dell’onore inteso come insieme di principi della nostra collettività. La pubblica stima –prosegue il relatore- non accetta allo stato persone di sesso maschile indossanti abiti femminili, nella fattispecie minigonna, canottiera e orecchini a pendaglio lunghi fino alle spalle. Sia dagli atti che dalle dichiarazioni è anche emersa la radicata convinzione dell’xxx di essere nel giusto in quanto suo diritto poter manifestare, come cittadino prima che come poliziotto, il suo modo di essere e di sentire, sebbene fuori dal servizio. Il comportamento dell’xxxx è in contrasto non solo, come detto, con l’idem sentire della collettività, ma è in contrasto con il decoro e prestigio e senso di affidabilità che il pubblico ufficiale deve nutrire presso la collettività, in particolare se poliziotto”. Nel verbale si legge inoltre che il presidente ha valutato i fatti “manifestamente gravi e tali da indurre l’Amministrazione a considerarli incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro. Le ragioni della determinazione espulsiva sono da individuarsi non solo e non tanto negli episodi reiterati dell’indossare abiti femminili quanto nel complessivo comportamento e nella radicata convinzione dell’inquisito nonché nel giudizio di irreparabile disvalore dedotto dalla mancanza di senso di lealtà e del rispetto per sé stesso. Tale senso non già riferito al suo particolare orientamento ma per senso di lealtà si intende quello che avrebbe contraddistinto il suo comportamento in quanto tutore dell’ordine e per tale qualifica avrebbe dovuto considerare il disvalore della sua azione nella commissione dei fatti. Il comune sentire, e lo dimostrano le testimonianze rese dalle persone peraltro citate dall’xxxx, nonché quelle dei presenti, non accetta che l’uomo si vesta da donna men che meno se si tratti di un poliziotto il cui comportamento è rilevante anche all’esterno nel rapporto di lavoro. Come noto infatti il poliziotto, a differenza di altri pubblici dipendenti, può essere chiamato ad intervenire anche fuori dal servizio. Il comportamento tenuto dall’xxxx inevitabilmente finisce per refluire sul decoro della P. A. che rappresenta nonché sull’affidabilità dello stesso interessato. Per tali motivi si ritiene di dovere aderire alle contestazioni formulate dal funzionario istruttore nonché a quelle espresse in questo consesso dai colleghi che hanno avuto in precedenza la parola”.

Va soggiunto però che il verbale contiene anche sintetiche valutazioni, in particolare del relatore e del presidente, sulla reiterazione di una condotta riprovevole sanzionata con la pena pecuniaria: “inoltre tali condotte riprovevoli si presentano reiterate anche per la pregressa sanzione disciplinare (pena pecuniaria) ricevuta…pienamente vigente” (dichiarazione del relatore); “anche l’art. 7 n. 6) citato dal funzionario istruttore trova sicura applicazione perché sulla precedente sanzione disciplinare impugnata dall’inquisito il Tribunale non si è espresso con sospensiva e quindi il provvedimento dell’Amministrazione è da ritenere pienamente valido e vigente” (v. l’intervento del presidente). Inoltre nella parte finale del verbale, nell’ultima pagina, quart’ultima riga, viene fatto un esplicito richiamo ai numeri 1) e 6) dell’art. 7.

Quanto al decreto di destituzione, il collegio giudica plausibile ritenere che la decisione espulsiva del Capo della Polizia si sia basata non solo sulla fattispecie di cui all’art. 7, n. 1), ma anche sull’ipotesi di cui al n. 6). Se è vero infatti che nel “considerato” del decreto l’autorità emanante richiama soltanto l’art. 7 n. 1) del decreto n. 737 del 1981 e la riprovevolezza del comportamento (l’essere stato notato in più occasioni mentre girava per la strada abbigliato con abiti femminili come contegno “assolutamente inconciliabile con le funzioni proprie di un operatore di polizia, pregiudizievole per il servizio e tale da rendere incompatibile una sua ulteriore permanenza nella Polizia di Stato; v. poi l’inciso sulla “più assoluta mancanza di senso dell’onore e della morale in quanto (xxxx), nella sua qualità di tutore dell’ordine, avrebbe dovuto considerare il disvalore della sua azione e astenersi dalla commissione del fatto”); è vero anche che:

-l’autorità emanante richiama la delibera del Consiglio di disciplina nella sua globalità e, nell’ultima premessa, ritiene che “non sussistano motivi per discostarsi” dalla delibera stessa;

-la stessa Amministrazione, nella nota di chiarimenti del 5 giugno 2006, ha fatto presente in via preliminare che, per mero errore materiale, nel decreto era stata indicata solamente la fattispecie sanzionatoria di cui all’art. 7 n. 1) : l’ipotesi dell’errore materiale appare del resto avvalorata dal fatto che nella penultima premessa del decreto si fa riferimento all’art. 7 “nn. 1” anziché al “n. 1” come sarebbe dovuto essere se la destituzione si fosse basata solo sulla fattispecie di cui al n. 1) : l’omessa indicazione, nel decreto impugnato, del n. 6) costituisce insomma un errore materiale.

Chiarito che i provvedimenti impugnati si reggono su due diversi capi di motivazione va sottolineato:

-in primo luogo che i capi di motivazione sopra riassunti sono autonomi e disgiunti l’uno rispetto all’altro e che ciascuno di essi è in grado di sorreggere da solo il provvedimento disciplinare; e

-in secondo luogo che è principio talmente consolidato in giurisprudenza da esimere da citazioni specifiche quello secondo cui nel caso di una pluralità di motivi autonomi posti a base di un atto amministrativo, ai fini della legittimità dell’atto basta che uno solo dei motivi sia riconosciuto idoneo a sorreggere l’atto medesimo. In altre parole, l’atto amministrativo adottato in base a motivi tra loro autonomi seguita a produrre i suoi effetti anche se uno solo di essi resiste al controllo giudiziale di legittimità.

Poiché l’accoglimento della censura sub 10. non è sufficiente per annullare il decreto impugnato occorre esaminare anche i motivi dedotti ai punti 7., 8. e 9. .

2.8.- La censura sub 7. si riferisce al capo di motivazione relativo alla mancanza dell’onore e del senso morale e si incentra sulla violazione dei principi di specialità e di proporzione.

In primo luogo si sostiene che l’Amministrazione avrebbe dovuto valutare preliminarmente la riconducibilità del comportamento dell’xx a una delle fattispecie –meno gravi, poiché sanzionate con la pena pecuniaria o con la sospensione dal servizio, ma tutte ugualmente attinenti alla mancanza di senso morale o di decoro- di cui all’art. 4, n. 18) -fattispecie di chiusura punita con la pena pecuniaria e concernente comportamenti, anche fuori dal servizio, comunque non conformi al decoro delle funzioni; o di cui all’art. 6, n. 1) o n. 6).

Per altro verso si sostiene che il principio di proporzionalità esige che comportamenti come quello tenuto dall’xxx non meritano di essere sanzionati con la sanzione massima rispetto ad altre infrazioni astrattamente più gravi –e attinenti anch’esse alla mancanza del senso morale- sanzionate però solamente con la sospensione dal servizio (si tratta delle ipotesi di cui all’art. 6, n. 7) –assidua frequenza, senza necessità di servizio e in maniera da suscitare pubblico scandalo, di persone dedite ad attività immorale o contro il buon costume ovvero di pregiudicati; o all’art. 6, n. 2) –condanna, con sentenza passata in giudicato, per delitto non colposo; o all’art. 6, n. 8) –uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope risultante da referto medico –legale).

La censura è infondata e va respinta.

Va premesso che in base alla consolidata giurisprudenza del giudice amministrativo, che il collegio condivide (Cons. St., sez. IV, nn. 6218 del 2006, 2705 e 705 del 2005, 6404 del 2004, 2624 del 2003 e 636 del 1998; Tar Veneto, I, n. 826 del 2006), in materia disciplinare la qualificazione della condotta dell’incolpato e la rilevanza della stessa ai fini disciplinari sono insindacabili in sede di giudizio di legittimità, salvo i casi di travisamento di fatti, di carenza di motivazione e di irrazionalità manifesta o di palese illogicità, attenendo tali questioni al merito della azione amministrativa. In altre parole, la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che la valutazione circa la gravità dei fatti commessi dal pubblico dipendente in violazione dei doveri di servizio, effettuata dall’amministrazione di appartenenza agli effetti della commisurazione della sanzione disciplinare da applicare, costituisca espressione di discrezionalità amministrativa e sia sindacabile dal giudice amministrativo solamente sotto il profilo dell’eccesso di potere nelle sue diverse figure sintomatiche sopra indicate. In particolare per Cons. St., Ad. plen. n. 10 del 2006 “spetta in via esclusiva all’Amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base a un apprezzamento di larga discrezionalità…l’Amministrazione dispone infatti di un ampio potere discrezionale nell’apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari con una valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo” (Ad. plen. sent. cit.).

Non spetta insomma al TAR sostituire la propria valutazione a quella dell’organo di disciplina per decidere se la sanzione della destituzione può essere considerata comunque congrua con riferimento –nel caso in esame- all’addebito –fatto a un agente di Polizia- di essere stato notato in tre occasioni a Venezia, in centro storico, mentre camminava, fuori dal servizio, vestito con abbigliamento femminile succinto e con accessori tipici femminili.

L’odierno giudizio è infatti di legittimità e di impugnazione.

Non compete dunque al collegio la funzione di “giudice disciplinare di revisione”: la sezione non può intrudersi nel merito della azione disciplinare attribuita alla pubblica autorità poiché, come si è già detto,la qualificazione della condotta e la rilevanza della stessa ai fini disciplinari sono insindacabili in sede di giudizio di legittimità -salvo i casi di travisamento dei fatti, di carenza di motivazione e di irrazionalità manifesta-, dato che tali questioni attengono, appunto, al merito della azione amministrativa.

Alla luce dei principi generali sopra ricordati nella specie non sussiste l’ipotizzata violazione del principio di specialità, né si ravvisa una sproporzione significativa tra comportamenti addebitati e sanzione inflitta.

Prima di tutto, i fatti idonei a dare luogo a responsabilità disciplinari non sono definiti da norme di legge o da regolamenti, non applicandosi ad essi il principio della tassatività delle ipotesi di reato, proprio del diritto penale, per cui le indicazioni al riguardo contenute nelle norme relative al procedimento disciplinare sono necessariamente comprensive di diverse ipotesi: pertanto, come detto, è la stessa amministrazione che, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilisce il rapporto tra l’infrazione (concernente nella specie atti idonei a rivelare mancanza di senso dell’onore e del senso morale -cfr. art. 7, n. 1) del d.P.R. n. 737 del 1981) e il fatto commesso, il quale necessariamente assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità, nella specie non irrazionalmente esercitato. Nel caso in esame tutt’altro che implausibilmente l’Amministrazione ha fatto rientrare i comportamenti contestati all’xx nell’àmbito applicativo della “fattispecie aperta” di cui all’art. 7, n. 1) del decreto n. 737/81.

Quanto alla dedotta violazione del principio di proporzionalità, premesso che il sindacato del giudice amministrativo, per essere esercitato correttamente, dev’essere limitato ai soli casi in cui emerga una sproporzione evidente tra i fatti accertati e contestati e la sanzione inflitta, il collegio ritiene che l’Amministrazione della pubblica sicurezza abbia compiuto una valutazione legittima anche sotto il profilo della non sproporzione tra comportamenti accertati e sanzione inflitta. Nel caso in esame l’Amministrazione, al termine di un’istruttoria assai approfondita (si vedano la relazione 6 febbraio 2006 del funzionario istruttore prodotta sub allegato 9 fasc. P. A. e il verbale di trattazione orale del Consiglio di disciplina 28 marzo 2006 sub allegato 16 fasc. P. A. ), e dopo avere adeguatamente valutato la rilevanza dei fatti contestati al dipendente, avvalendosi dell’ampia discrezionalità riconosciutale dall’ordinamento ha –legittimamente- ritenuto di potere infliggere la sanzione della destituzione. Nel fare ciò ha tenuto conto del peso delle contestazioni e della reiterazione dei comportamenti contestati (a quest’ultimo proposito va osservato che l’xx non ha negato la verità dei fatti addebitatigli ma si è limitato a rivendicare il diritto di esprimere liberamente la propria personalità vestendosi in modo estroso e anticonformista) in relazione alle norme di cui all’art. 13 del d.P.R. n. 782 del 1985, secondo la quale l’appartenente alla Polizia di Stato deve mantenere, fuori servizio, una condotta conforme alla dignità delle funzioni, e di cui all’art. 68 della l. n. 121 del 1981 – doveri fuori servizio per gli appartenenti all’Amministrazione della pubblica sicurezza, per la quale “gli appartenenti ai ruoli dell’Amministrazione della pubblica sicurezza sono comunque tenuti, anche fuori dal servizio, ad osservare i doveri inerenti alla loro funzione”.

E negli atti impugnati –cfr. il verbale di trattazione orale 28 marzo 2006 e in particolare le frasi estrapolate dal verbale medesimo e sopra riassunte al p. 2.7., al quale si rinvia; ma v. anche le “conclusioni” della relazione 6 febbraio 2006 del funzionario istruttore- l’Amministrazione ha correttamente messo in risalto l’appartenenza del dipendente alla Polizia di Stato, con gli obblighi del tutto particolari che da ciò derivano, e ha condivisibilmente evidenziato che i comportamenti dell’xxx sono idonei a influire negativamente sul decoro dell’Amministrazione della pubblica sicurezza e sull’affidabilità della stessa nei confronti dei cittadini in misura tale da rendere incompatibile un’ulteriore permanenza del dipendente nei ruoli della Polizia di Stato.

In conclusione il collegio, dopo matura ponderazione, ritiene di dover correggere la differente valutazione sul “fumus boni juris” formulata al p. 7. dell’ordinanza cautelare n. 480 del 2006. Del resto, nel momento cautelare il contenuto del giudizio riguarda “periculum in mora” e “fumus boni juris”, e quest’ultimo si concreta in un semplice giudizio di verosimiglianza, in una valutazione probabilistica sulle buone ragioni del ricorrente, valutazione che non anticipa la decisione del merito (sulle diversità tra l’oggetto del procedimento cautelare e l’oggetto del giudizio di merito si rinvia a Corte costituzionale, nn. 359 del 1998 e 326 del 1997).

2.9.-Anche il motivo sub 8., concernente violazione dell’art. 13 del decreto n. 737 del 1981 ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione circa i precedenti disciplinari e di servizio del trasgressore, le circostanze attenuanti, il carattere, l’età, la qualifica e

l’anzianità di servizio del dipendente, può essere respinto. E’ vero infatti che la delibera del Consiglio di disciplina richiama in maniera generica i

precedenti disciplinari e di servizio dell’xxx e che il decreto impugnato richiama altrettanto genericamente i precedenti di servizio; ma è vero anche:

-che i provvedimenti impugnati, nel loro complesso, risultano ampiamente motivati e sorretti da un’istruttoria più che adeguata dagli atti della quale si ricava, tra l’altro, che il 22 giugno 1995 era stata inflitta all’xxx un’ulteriore sanzione disciplinare (pena pecuniaria nella misura di 1/30) e che quindi i precedenti disciplinari risultano non buoni;

– che l’esistenza di elementi di giudizio positivi ricavabili dal rapporto informativo del 2004 non preclude l’applicazione della sanzione della destituzione ove ne ricorrano i presupposti, né esige, perlomeno nella specie, che la motivazione della decisione espulsiva sia ancora più approfondita di quella che emerge dagli atti del procedimento, tanto più in presenza di un precedente giurisprudenziale (Cons. St. n. 938 del 1996) in base al quale la destituzione adottata per mancanza dell’onore e del senso morale non richiede una motivazione specifica essendo la stessa gravità dei fatti a giustificare il provvedimento adottato;

-e che le decisioni del Consiglio di Stato nn. 1656 del 1995 e 45 del 1994, menzionate dal ricorrente a sostegno dell’esigenza di “valutare anche il comportamento successivo del ricorrente sino ad Aprile 2006” non sono pertinenti al caso in esame dato che fanno riferimento a procedimenti disciplinari promossi nei confronti di dipendenti pubblici condannati in sede penale.

2.10.-L’ampiezza della motivazione degli atti impugnati consente di superare anche le considerazioni svolte a sostegno della censura sub 9., relative alla incompatibilità tra la condotta dell’xxx e la permanenza in servizio del medesimo.In conclusione, il ricorso va respinto. Considerata l’esistenza di elementi di incertezza per quanto riguarda le censure formulate sub 10. e 7. (v. “supra” i punti 2.7. e 2.8.), concorrono giusti motivi per compensare per metà le spese e gli onorari della controversia.

Per la restante metà spese e onorari seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P. Q. M.

il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione prima, definitivamente decidendo sul ricorso in premessa, lo rigetta.

Spese compensate per metà.

Per la restante metà condanna il ricorrente a rimborsare spese ed onorari a favore dell’Amministrazione dell’interno nella misura complessiva di euro 600.

La presente sentenza verrà eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Venezia, nella camera di consiglio del 6 dicembre 2006.

  Il Presidente f.f. L’Estensore

Il Segretario

SENTENZA DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il……………..…n.………

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Direttore della Prima Sezione