Tribunale della funzione pubblica dell’Unione europea, seconda sezione, decisione del 14 ottobre 2010

composto dal sig. H. Tagaras (relatore), presidente, dal sig. S. Van Raepenbusch e dalla sig.ra M.I. Rofes i Pujol, giudici,

cancelliere: sig. R. Schiano, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 15 aprile 2010,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        Con atto introduttivo pervenuto alla cancelleria del Tribunale tramite telefax il 21 ottobre 2009 (ove il deposito dell’originale è intervenuto il giorno seguente), W chiede l’annullamento delle decisioni della Commissione delle Comunità europee 5 marzo 2009 e 17 luglio 2009, recanti diniego del beneficio dell’assegno di famiglia previsto dall’art. 1 dell’allegato VII dello Statuto dei funzionari dell’Unione europea (in prosieguo: lo «Statuto»).

 Contesto normativo

2        L’art. 13, n. 1, CE dispone quanto segue:

«Fatte salve le altre disposizioni del presente trattato e nell’ambito delle competenze da esso conferite alla Comunità, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali».

3        L’art. 21, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta dei diritti fondamentali»), intitolato «Non discriminazione», così recita:

«È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».

4        Ai sensi dell’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali, intitolato «Rispetto della vita privata e della vita familiare»:

«Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni».

5        L’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), prevede quanto segue:

«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».

6        Secondo gli artt. 21 e 92 del Regime applicabile agli altri agenti dell’Unione europea, le disposizioni dell’art. 1 dell’allegato VII dello Statuto relative alle condizioni di attribuzione degli assegni familiari si applicano per analogia agli agenti contrattuali.

7        L’art. 1, n. 2, dell’allegato VII dello Statuto così dispone:

«Ha diritto all’assegno di famiglia:

(…)

c)      il funzionario registrato come membro stabile di un’unione di fatto, a condizione che:

i)      la coppia fornisca un documento ufficiale riconosciuto come tale da uno Stato membro dell’Unione europea o da un’autorità competente di uno Stato membro, attestante la condizione di membri di un’unione di fatto;

ii)      nessuno dei due partner sia sposato né sia impegnato in un’altra unione di fatto;

iii)      i partner non siano legati da uno dei seguenti vincoli di parentela: genitori e figli, nonni e nipoti, fratelli e sorelle, zie/zii e nipoti, generi e nuore;

iv)      la coppia non abbia accesso al matrimonio civile in uno Stato membro; si considera che una coppia ha accesso al matrimonio civile ai fini del presente punto unicamente nel caso in cui i due partner soddisfino l’insieme delle condizioni fissate dalla legislazione di uno Stato membro che autorizza il matrimonio di tale coppia;

d)      per decisione speciale e motivata dell’autorità che ha il potere di nomina, presa sulla base di documenti probanti, il funzionario che, pur non trovandosi nelle condizioni di cui alle lettere a), b) e c), assuma tuttavia realmente oneri di famiglia».

8        Secondo i ‘considerando’ del regolamento (CE, Euratom) del Consiglio 22 marzo 2004, n. 723, che ha introdotto la versione attuale dello Statuto:

«(7) È importante vegliare al rispetto del principio della non discriminazione sancito dal trattato CE e, di conseguenza, proseguire l’ulteriore sviluppo della politica del personale nel senso della garanzia di pari opportunità per tutti, indipendentemente da sesso, abilità fisica, età, identità razziale o etnica, orientamento sessuale e stato civile.

(8) I funzionari che vivono in unioni di fatto riconosciute da uno Stato membro come unioni stabili e che non hanno accesso giuridico al matrimonio devono beneficiare degli stessi vantaggi delle unioni matrimoniali».

9        Secondo l’art. 489 del codice penale del Regno del Marocco (in prosieguo: l’«art. 489 CPM»):

«Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, chiunque commetta un atto impudico o contro natura con un individuo dello stesso sesso è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con l’ammenda da 200 a 1 000 dirham».

10      L’art. 46 della legge 16 luglio 2004, recante il codice di diritto internazionale privato del Regno del Belgio (in prosieguo: l’«art. 46 CDIP»), intitolato «Diritto applicabile alla formazione del matrimonio», prevede quanto segue:

«Fatto salvo l’art. 47 [che riguarda le formalità relative alla celebrazione del matrimonio], le condizioni di validità del matrimonio sono stabilite, per ciascuno dei coniugi, dal diritto dello Stato di cui questi ha la cittadinanza al momento della celebrazione del matrimonio.

L’applicazione di una disposizione del diritto individuato a norma del primo comma è esclusa se tale disposizione vieta il matrimonio di persone dello stesso sesso, qualora una di esse abbia la cittadinanza di uno Stato o risieda stabilmente sul territorio di uno Stato il cui diritto consente tale matrimonio».

 Fatti all’origine della controversia

11      Il ricorrente, agente contrattuale della Commissione dal 1° marzo 2009, ha la doppia cittadinanza belga e marocchina.

12      Il 10 ottobre 2008 il ricorrente e il suo partner di fatto dello stesso sesso e di nazionalità spagnola effettuavano una «dichiarazione di convivenza legale» dinanzi all’ufficiale di stato civile della città di Bruxelles (Belgio). Tale dichiarazione veniva iscritta lo stesso giorno nel registro nazionale.

13      In occasione della fissazione dei diritti individuali del ricorrente, a questi veniva negato, con decisione dell’ufficio «Gestione e liquidazione dei diritti individuali» (PMO) 5 marzo 2009, il beneficio dell’assegno di famiglia, con la motivazione, espressa oralmente, che la coppia non soddisfaceva la condizione stabilita dall’art. 1, n. 2, lett. c), sub iv), dell’allegato VII dello Statuto, dato che aveva accesso al matrimonio civile in Belgio.

14      Il 9 marzo 2009 il ricorrente chiedeva che la sua convivenza legale fosse riconosciuta dal PMO per far beneficiare il suo partner del regime di assicurazione malattia della Commissione. Con lettera del 6 aprile 2009 il PMO accoglieva tale domanda e informava il ricorrente che il suo partner, privo di reddito professionale, poteva beneficiare della copertura primaria del ricorrente a norma dell’art. 72, n. 1, secondo comma, dello Statuto.

15      Con messaggio di posta elettronica del 2 aprile 2009 il ricorrente proponeva un reclamo, in forza dell’art. 90, n. 2, dello Statuto, contro la decisione del PMO 5 marzo 2009, facendo valere sostanzialmente che, poiché il diritto marocchino incrimina gli atti omosessuali, la sua cittadinanza marocchina e i suoi legami giuridici e affettivi con il Marocco «gli impediscono di sposar[si]» con una persona dello stesso sesso.

16      Con decisione 17 luglio 2009 l’autorità che ha il potere di nomina (in prosieguo: l’«APN») respingeva il reclamo del ricorrente, rilevando che la normativa marocchina che reprime i comportamenti omosessuali non costituisce un elemento ostativo al matrimonio del ricorrente in Belgio.

 Conclusioni delle parti e procedimento

17      Il ricorrente chiede che il Tribunale voglia:

–        annullare la decisione del PMO 5 marzo 2009, con cui gli viene negato il beneficio dell’assegno di famiglia;

–        annullare la decisione dell’APN 17 luglio 2009, recante rigetto del suo reclamo;

–        condannare la convenuta alle spese.

18      La Commissione chiede che il Tribunale voglia:

–        respingere il ricorso in quanto infondato;

–        condannare il ricorrente alle spese.

19      Con lettera pervenuta alla cancelleria il 21 ottobre 2009, il ricorrente ha presentato una richiesta di anonimato, che il Tribunale ha deciso di accogliere. Tale decisione è stata notificata alle parti con lettera della cancelleria del 19 novembre 2009.

20      Il Tribunale, allo scopo di garantire nelle migliori condizioni l’istruzione e lo svolgimento del procedimento, ha adottato alcune misure di organizzazione dello stesso previste dagli artt. 55 e 56 del regolamento di procedura. A tal fine, nella relazione preparatoria d’udienza il ricorrente è stato invitato a rispondere ad alcuni quesiti riguardanti in particolare i suoi legami con il Marocco.

21      Con lettera pervenuta alla cancelleria del Tribunale il 19 marzo 2010, il ricorrente ha ottemperato alla richiesta del Tribunale. Da tale lettera e dai documenti allegati risulta che il ricorrente è nato il 23 ottobre 1975 in Belgio e che, marocchino di nascita, ha ottenuto la cittadinanza belga all’età di quattordici anni, automaticamente, in seguito all’acquisto della cittadinanza belga da parte del padre. Risulta inoltre che il ricorrente ha sempre vissuto in Belgio, a parte un soggiorno di sette anni in Spagna, e che egli si recava in Marocco solo per le vacanze. Il ricorrente ha indicato tuttavia di parlare berbero e arabo e di avere frequentato, essendo di religione musulmana, la scuola araba, una volta alla settimana, fino all’età di tredici anni. Inoltre, egli ha affermato che dal 2003, anno in cui il padre è stato collocato a riposo, i suoi genitori risiedono principalmente in Marocco, dove hanno acquistato proprietà immobiliari. Infine, egli rileva di essere in trattative con un agente immobiliare in vista dell’acquisto nell’immediato futuro di un bene immobile in Marocco, atto che richiederebbe l’indicazione del suo stato civile.

22      Inoltre, sempre nella relazione preparatoria d’udienza, le parti sono state invitate a trasmettere al Tribunale prove intese a dimostrare l’applicazione effettiva dell’art. 489 CPM.

23      Con lettere pervenute alla cancelleria del Tribunale il 31 marzo 2010 e il 2 aprile 2010, la Commissione e il ricorrente hanno entrambi prodotto informazioni sull’applicazione effettiva dell’art. 489 CPM, provenienti in particolare dalla stampa internazionale e da organizzazioni non governative, dalle quali emerge almeno un caso di applicazione effettiva dell’art. 489 CPM nel dicembre 2007.

24      In udienza il ricorrente ha depositato un messaggio di posta elettronica, da lui inviato il 16 settembre 2009 al PMO per segnalargli che il suo partner era entrato in servizio presso la Commissione a partire da tale data.

 Sull’oggetto della controversia

25      Il ricorrente chiede l’annullamento, da un lato, della decisione del PMO 5 marzo 2009, con cui gli è stata negata la concessione dell’assegno di famiglia in occasione della fissazione dei suoi diritti individuali e, dall’altro, della decisione dell’APN 17 luglio 2009, recante rigetto del suo reclamo diretto contro la decisione 5 marzo 2009.

26      Secondo una costante giurisprudenza, la domanda di annullamento della decisione con cui viene esplicitamente o implicitamente respinto un reclamo, è priva, in quanto tale, di contenuto autonomo e si confonde in realtà con la domanda di annullamento dell’atto recante pregiudizio contro cui è stato proposto il reclamo (sentenza del Tribunale 23 febbraio 2010, causa F‑7/09, Faria/UAMI, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 30, e giurisprudenza ivi citata).

27      Infatti, una decisione di rigetto, espressa o tacita, che non abbia altro scopo che quello di confermare l’azione o l’omissione criticata dal dipendente interessato, non costituisce, di per sé, un atto impugnabile (sentenza della Corte 28 maggio 1980, cause riunite 33/79 e 75/79, Kuhner/Commissione, Racc. pag. 1677, punto 9; ordinanza della Corte 16 giugno 1988, causa 371/87, Progoulis/Commissione, Racc. pag. 3081, punto 17; sentenze del Tribunale di primo grado 12 dicembre 2002, cause riunite T‑338/00 e T‑376/00, Morello/Commissione, Racc. PI pagg. I‑A‑301 e II‑1457, punto 34, e 2 marzo 2004, causa T‑14/03, Di Marzio/Commissione, Racc. PI pagg. I‑A‑43 e II‑167, punto 54).

28      La qualificazione di atto che arreca pregiudizio non può essere riconosciuta a un atto puramente confermativo, come nel caso di un atto che non contiene alcun elemento nuovo rispetto a un atto lesivo precedente e che non si è quindi sostituito a quest’ultimo (v., in tal senso, sentenza della Corte 10 dicembre 1980, causa 23/80, Grasselli/Commissione, Racc. pag. 3709, punto 18; ordinanza del Tribunale di primo grado 27 giugno 2000, causa T‑608/97, Plug/Commissione, Racc. PI pagg. I‑A‑125 e II‑569, punto 23; sentenza Di Marzio/Commissione, cit., punto 54).

29      Tuttavia, è stato dichiarato più volte che una decisione esplicita di rigetto del reclamo può non avere, tenuto conto del suo contenuto, carattere confermativo dell’atto contestato dal ricorrente. Tale ipotesi ricorre quando la decisione di rigetto del reclamo contiene un riesame della posizione del ricorrente sulla scorta di elementi, di fatto o di diritto, nuovi, oppure modifica o integra la decisione iniziale. In questi casi il rigetto del reclamo costituisce un atto soggetto al controllo del giudice, che ne tiene conto nella valutazione della legittimità dell’atto contestato (sentenze del Tribunale di primo grado 10 giugno 2004, causa T‑258/01, Eveillard/Commissione, Racc. PI pagg. I‑A‑167 e II‑747, punto 31, e 7 giugno 2005, causa T‑375/02, Cavallaro/Commissione, Racc. PI pagg. I‑A‑151 e II‑673, punti 63‑66; sentenza del Tribunale 9 settembre 2008, causa F‑18/08, Ritto/Commissione, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 17), o lo considera un atto lesivo che si sostituisce ad esso (v., in tal senso, sentenza Kuhner/Commissione, cit., punto 9; sentenze Morello/Commissione, cit., punto 35, e del Tribunale di primo grado 14 ottobre 2004, causa T‑389/02, Sandini/Corte di giustizia, Racc. PI pagg. I‑A‑295 e II‑1339, punto 49).

30      Nella specie si deve rilevare che la decisione 5 marzo 2009 si limitava a negare al ricorrente il beneficio dell’assegno di famiglia, con il sostegno di una motivazione verbale. Orbene, in seguito a tale diniego, con il suo reclamo il ricorrente ha sottoposto alla Commissione elementi di diritto e di fatto relativi alla normativa marocchina che reprime gli atti omosessuali, normativa che sarebbe applicabile nei suoi confronti in ragione della sua nazionalità. Ne consegue che, sebbene la decisione 17 luglio 2009 confermi il rifiuto della Commissione di concedere l’assegno di famiglia al ricorrente, respingendone gli argomenti e integrandone la motivazione orale, resta il fatto che essa è intervenuta a seguito di un riesame della situazione del ricorrente.

31      In tali circostanze, la decisione 17 luglio 2009 non costituisce un atto confermativo della stessa e deve essere presa in considerazione nel controllo della legittimità che il Tribunale è chiamato a svolgere.

32      Pertanto, si deve ritenere che il ricorso sottoponga al Tribunale una domanda diretta all’annullamento sia della decisione 5 marzo 2009 che della decisione 17 luglio 2009 (in prosieguo: le «decisioni impugnate»).

 Sulla domanda di annullamento delle decisioni impugnate

33      A sostegno della sua domanda di annullamento delle decisioni impugnate, il ricorrente deduce un unico motivo concernente la violazione dell’art. 1, n. 2, lett. c), sub iv) (in prosieguo: la «prima disposizione controversa»), e lett. d) (in prosieguo: la «seconda disposizione controversa») dell’allegato VII dello Statuto.

 Argomenti delle parti

34      Nell’ambito del suo motivo unico, il ricorrente solleva sostanzialmente tre censure contro le decisioni impugnate.

35      In primo luogo, il ricorrente fa valere che, considerata una delle sue due cittadinanze, vale a dire la cittadinanza marocchina, alla quale gli sarebbe vietato rinunciare, il procedimento penale cui verrebbe sottoposto in Marocco in virtù dell’art. 489 CPM, qualora contraesse matrimonio in Belgio con il suo partner, rende tale matrimonio impossibile. Secondo il ricorrente, la sua omosessualità verrebbe immediatamente rivelata ed egli verrebbe quindi sottoposto ad un procedimento penale avviato esclusivamente in ragione del cambiamento di stato civile derivante dal matrimonio. Ne conseguirebbe che, in qualsiasi procedura amministrativa in cui dovesse indicare il suo stato civile (ad esempio, per il rinnovo del passaporto, per la compravendita di beni immobiliari o in relazione ad un’eredità), egli correrebbe un rischio reale di incorrere in sanzioni penali.

36      In secondo luogo, il ricorrente sostiene che, in ogni caso e a prescindere dall’applicabilità della prima disposizione controversa, sussiste, in ragione del dovere di sollecitudine dell’amministrazione nei confronti del funzionario, la possibilità di ottenere l’assegno di famiglia attraverso la seconda disposizione controversa, qualora il funzionario non soddisfi, secondo la Commissione, le condizioni stabilite dalla prima disposizione controversa, ma assuma realmente oneri di famiglia.

37    In terzo luogo, la violazione delle due disposizioni controverse comporterebbe una discriminazione n  ei confronti del ricorrente rispetto ai funzionari per i quali la scelta di sposarsi non leda alcun principio di diritto pubblico del paese di cui hanno la cittadinanza.

38      La Commissione chiede il rigetto del motivo unico sollevato dal ricorrente, confutando le tre censure sopra menzionate.

39      In primo luogo, la Commissione fa valere che l’art. 489 CPM non punisce il matrimonio di persone dello stesso sesso, bensì gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso. Orbene, a prescindere dal suo stato civile, sul ricorrente penderebbe comunque il rischio teorico di subire un procedimento penale, dato che le autorità marocchine potrebbe apprendere della sua omosessualità per altre vie e in particolare venendo a conoscenza della sua convivenza legale con un partner dello stesso sesso già registrata. Inoltre, poiché l’eventuale matrimonio del ricorrente con il suo partner in Belgio non avrebbe alcun effetto in Marocco, il ricorrente non dovrebbe essere tenuto a rivelarne l’esistenza alle autorità marocchine, a maggior ragione in quanto la sua carta d’identità marocchina gli sarebbe sufficiente per qualsiasi procedura amministrativa in tale paese. Inoltre, la Commissione afferma di non pretendere affatto che il ricorrente rinunci alla sua cittadinanza marocchina per beneficiare dell’assegno di famiglia, dato che nella specie il diritto belga consente il matrimonio del ricorrente nonostante la sua cittadinanza marocchina. Inoltre, non spetterebbe ai giudici dell’Unione interpretare tale disposizione, dal momento che essa contiene un espresso rinvio alle normative degli Stati membri, sicché la questione se una coppia abbia accesso al matrimonio civile in uno Stato membro dipenderebbe da una decisione di esclusiva competenza di tale Stato, nella fattispecie il Belgio.

40      In secondo luogo, per quanto riguarda l’applicabilità della seconda disposizione controversa, la Commissione ritiene che la censura sia, da un lato, irricevibile, in quanto il ricorrente, non avendo presentato alcuna domanda in tal senso, né un reclamo contro l’asserito rifiuto tacito della Commissione di applicare la disposizione in parola, non avrebbe rispettato la procedura precontenziosa. Dall’altro, il ricorrente non avrebbe prodotto documenti probatori che attestino l’esistenza dei suoi oneri familiari. In ogni caso, la Commissione disporrebbe di un ampio potere discrezionale per l’applicazione della seconda disposizione controversa, la quale, anche ammettendo che il ricorrente ne soddisfi le condizioni, non stabilirebbe un diritto assoluto all’assegno di famiglia.

41      In terzo luogo, la Commissione ritiene che, secondo la giurisprudenza, una disparità di trattamento fondata sullo stato civile non costituisca una discriminazione. Poiché la prima disposizione controversa sottopone i funzionari membri di un’unione di fatto ad un regime diverso da quello previsto per i funzionari sposati, il ricorrente avrebbe dovuto sollevare un’eccezione di illegittimità contro tale disposizione. Egli, però, non l’avrebbe fatto.

 Giudizio del Tribunale

42      Si deve rilevare, anzitutto, che l’estensione del diritto all’assegno di famiglia ai funzionari registrati come membri stabili di un’unione di fatto, anche con persone dello stesso sesso, risponde, secondo il settimo ‘considerando’ del regolamento n. 723/2004, alla preoccupazione del legislatore di vegliare al rispetto del principio della non discriminazione sancito dall’art. 13, n. 1, CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 19, n. 1, TFUE) e, di conseguenza, proseguire l’ulteriore sviluppo della politica del personale nel senso della garanzia di pari opportunità per tutti, indipendentemente dall’orientamento sessuale e dallo stato civile dell’interessato, il che corrisponde inoltre al divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale previsto dall’art. 21, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali. Inoltre, l’estensione del diritto all’assegno di famiglia ai funzionari registrati come membri stabili di un’unione di fatto, anche con persone dello stesso sesso, rispecchia l’esigenza di tutelare i funzionari contro l’ingerenza dell’amministrazione nell’esercizio del loro diritto al rispetto della vita privata e familiare, quale riconosciuto dall’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali e dall’art. 8 della CEDU.

43      Al pari della tutela dei diritti garantiti dalla CEDU, le norme dello Statuto che estendono il diritto all’assegno di famiglia ai funzionari registrati come membri stabili di un’unione di fatto, anche con persone dello stesso sesso, devono essere interpretate in modo da garantire a tali norme una maggiore effettività, di modo che il diritto in questione non rimanga teorico o illusorio, ma risulti concreto ed effettivo (v., in tal senso, Corte eur. D. U., sentenze Airey c. Irlanda del 9 ottobre 1979, serie A n. 32, § 24; Partito comunista unificato di Turchia e a. c. Turchia del 30 gennaio 1998, Recueil des arrêts et décisions, 1998‑I, § 33; Kreuz c. Polonia del 19 giugno 2001, Recueil des arrêts et décisions, 2001‑VI, § 57, e Scoppola c. Italia (N. 2) [GC] del 17 settembre 2009, Recueil des arrêts et décisions, 2009 ‑, § 104).

44      Orbene, per i funzionari registrati come membri stabili di un’unione di fatto, anche con una persona dello stesso sesso, il diritto all’assegno di famiglia, quale sancito dalla prima disposizione controversa, rischierebbe di rivelarsi teorico ed illusorio se la nozione di «accesso al matrimonio civile in uno Stato membro», la cui assenza costituisce una delle condizioni cui è subordinata la possibilità per il funzionario di beneficiare dell’assegno di famiglia, fosse intesa in senso unicamente formale, facendo dipendere l’applicazione della prima disposizione controversa dalla questione se la coppia soddisfi le condizioni stabilite dalla normativa nazionale applicabile, senza verificare il carattere concreto ed effettivo dell’accesso al matrimonio ai sensi della citata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

45      Ne consegue che, per stabilire se una coppia di persone dello stesso sesso abbia accesso al matrimonio civile conformemente alla normativa di uno Stato membro, l’amministrazione non può prescindere dalle disposizioni della legge di un altro Stato con cui la situazione in esame presenta uno stretto collegamento in ragione della cittadinanza degli interessati, se tale legge, ancorché non applicabile alle questioni relative alla formazione del matrimonio, rischia di rendere teorico ed illusorio l’accesso al matrimonio e quindi il diritto all’assegno di famiglia. Tale ipotesi ricorre in particolare nel caso di una legge nazionale che incrimini gli atti omosessuali senza neppure distinguere in funzione del luogo in cui l’atto omosessuale viene compiuto, come ad esempio l’art. 489 CPM.

46      Tale conclusione non può essere rimessa in discussione dalla formulazione della seconda frase della prima disposizione controversa. Infatti, tale frase si limita ad indicare che, affinché sussista un «accesso al matrimonio civile», ai sensi della prima frase della prima disposizione controversa, i membri della coppia interessata devono soddisfare «l’insieme» delle condizioni stabilite dalla normativa applicabile. Tale frase, pertanto, non fa altro che chiarire la regola già stabilita dalla prima frase della stessa disposizione, chiarimento del tutto estraneo al problema esaminato ai punti 43‑45 della presente sentenza e che non osta agli orientamenti ivi elaborati nell’ambito della problematica in questione. Interpretare questa seconda frase nel senso che, in materia di applicazione dell’art. 1, n. 2, dell’allegato VII dello Statuto, devono essere prese in considerazione solo le disposizioni vigenti nell’ordinamento dello Stato membro interessato significherebbe ignorare l’esigenza di un’interpretazione dinamica che tenga conto, secondo una costante giurisprudenza, non solo del tenore della disposizione di cui trattasi, ma anche degli obiettivi perseguiti dal legislatore (v., in tal senso, sentenza del Tribunale 29 settembre 2009, cause riunite F‑69/07 e F‑60/08, O/Commissione, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 114, e giurisprudenza ivi citata).

47      Nella specie, il Tribunale constata che il ricorrente è un agente contrattuale registrato in Belgio come membro stabile di un’unione di fatto. Di conseguenza, la coppia in questione avrebbe potuto, in linea di principio, contrarre un matrimonio civile in Belgio, dato che l’art. 46, secondo comma, CDIP esclude il divieto del matrimonio tra persone dello stesso sesso eventualmente contenuto nella normativa nazionale dell’uno o dell’altro membro della coppia, dimostrando così che siffatto divieto è in contrasto con le concezioni sociali e giuridiche prevalenti in Belgio.

48      Tuttavia, il ricorrente ha eccepito, senza essere contraddetto dalla Commissione, che l’art. 489 CPM fa ancora parte del diritto vigente in Marocco, paese al quale egli è strettamente legato in ragione di una delle sue due nazionalità.

49      Inoltre, basandosi su un’abbondante documentazione, dalla quale emerge che in Marocco attualmente gli omosessuali sono ancora perseguiti, il ricorrente ha sostenuto che l’art. 489 CPM viene effettivamente applicato in detto paese e che qualsiasi cittadino marocchino che intenda contrarre matrimonio con una persona dello stesso sesso può incorrere in gravi rischi e restrizioni. Si deve constatare che, alla luce della menzionata documentazione, tali rischi e restrizioni non appaiono ipotetici, bensì reali.

50      La Commissione ha trasmesso al Tribunale, con lettera del 31 marzo 2010, una serie di documenti sullo stesso argomento. Tale documentazione, parzialmente identica a quella del ricorrente, non consente di mettere seriamente in dubbio le affermazioni di quest’ultimo riportate al punto precedente.

51      Infatti, dalla documentazione prodotta dalla Commissione risulta anzitutto che, per effetto dell’art. 489 CPM, le autorità consolari francesi in Marocco non sono autorizzate a registrare le unioni tra persone dello stesso sesso. Inoltre, da tale documentazione emerge che, in primo luogo, «l’omosessualità in Marocco è tollerata in clandestinità, ma (….) viene repressa se manifestata pubblicamente», in secondo luogo, che «nel giugno del 2004, 43 gay che si erano riuniti per celebrare in un locale pubblico la festa di uno di loro sono stati arrestati e sottoposti a carcerazione», in terzo luogo, che il 10 dicembre 2007, il Tribunale di Ksar El Kébir (Marocco) ha condannato sei uomini per violazione dell’art. 489 CPM, decisione che sarebbe stata confermata dalla Corte d’appello di Tangeri (Marocco), in quarto luogo, che, «a partire dalla proclamazione dell’indipendenza del Marocco nel 1956, oltre 5 000 omosessuali [sono stati] processati» in applicazione dell’art. 489 CPM.

52      Certamente, la Commissione ha dichiarato in udienza che, qualora il ricorrente avesse dimostrato il minimo rischio di porsi in una situazione giuridicamente delicata con riguardo all’art. 489 CPM in ragione del suo eventuale matrimonio, essa avrebbe dato prova di sollecitudine e di benevolenza nei suoi confronti esaminando la possibilità di applicargli la seconda disposizione controversa. Tuttavia, essa ha negato l’esistenza di tale rischio.

53      Orbene, per natura e contenuto, una disposizione quale l’art. 489 CPM che reprime gli atti omosessuali, atti che un matrimonio tra persone dello stesso sesso implica per definizione, può ragionevolmente far nascere timori di persecuzione contro il ricorrente e giustifica giustamente la sua reticenza, così come quella di tutti i cittadini marocchini normalmente accorti e prudenti, a contrarre matrimonio con una persona dello stesso sesso. Nessun elemento del fascicolo consente di considerare tali timori illogici o esagerati; al contrario, alla luce della documentazione prodotta dalle parti, non si può negare la realtà dei rischi e delle restrizioni in cui possono incorrere i cittadini marocchini che intendano contrarre matrimonio con una persona dello stesso sesso (v. punti 49 e 50 della presente sentenza).

54      Inoltre, anche ammettendo che l’art. 489 CPM sia caduto in desuetudine, tale circostanza, oltre al fatto che non farebbe venir meno nel ricorrente i sentimenti di paura, sofferenza e angoscia dovuti all’esistenza stessa del suddetto articolo, non escluderebbe affatto il rischio di una cambiamento di politica da parte delle autorità competenti fintantoché la disposizione rimane in vigore (v., in tal senso, Corte eur. D. U., sentenze Dudgeon c. Regno Unito del 22 ottobre 1981, serie A n. 45, §§ 40 e 41, e Norris c. Irlanda del 26 ottobre 1988, serie A n. 142, § 33). Inoltre, non si può escludere, allo stato attuale delle cose, che, al momento dell’adozione in Marocco di un atto giuridico o amministrativo per il quale il ricorrente sia tenuto ad indicare il proprio stato civile, quest’ultimo, qualora si sia sposato in Belgio con una persona dello stesso sesso, venga sottoposto in Marocco ad indagini di polizia relative al suo comportamento privato, né che privati cittadini possano tentare di avviare azioni persecutorie di carattere personale contro di lui in Marocco (v., in tal senso, Corte eur. D. U., sentenza Modinos c. Cipro del 22 aprile 1993, serie A n. 259, § 23).

55      Ne consegue che, alla luce degli atti, l’accesso del ricorrente al matrimonio in Belgio non può essere considerato concreto ed effettivo, ai sensi della giurisprudenza citata al punto 43 della presente sentenza.

56      Non può inoltre essere accolto l’argomento della Commissione secondo cui sul ricorrente penderebbe in ogni caso la minaccia teorica di procedimenti penali, dato che le autorità marocchine potrebbero apprendere della sua omosessualità in ragione della sua convivenza legale già registrata con un partner dello stesso sesso. Infatti, è sufficiente rilevare, a tal riguardo, che in Belgio soltanto il matrimonio comporta il cambiamento dello stato civile; i partner impegnati in una convivenza legale, introdotta con la legge 23 novembre 1998 (Moniteur Belge del 12 gennaio 1999, pag. 786), risultano ancora celibi sui documenti amministrativi belgi. Oltre a ciò, l’art. 15 del Codice della famiglia del Regno del Marocco prevede che i marocchini che hanno contratto matrimonio conformemente alle leggi locali del paese di residenza devono depositare una copia dell’atto di matrimonio, entro tre mesi dalla data della celebrazione, presso i servizi consolari marocchini del luogo in cui è stato celebrato l’atto, in vista della sua trasmissione all’ufficiale di stato civile del luogo di nascita dei coniugi in Marocco. Ne consegue che, contrariamente a quanto affermato dalla Commissione (v. punto 39 della presente sentenza), l’eventuale matrimonio del ricorrente con il suo partner dello stesso sesso dovrebbe essere portato a conoscenza delle autorità marocchine, con conseguente rischio di applicazione dell’art. 489 CPM, in quanto ogni matrimonio implica, per definizione, rapporti sessuali tra i partner. Per questo stesso motivo, deve inoltre essere respinto l’argomento della Commissione secondo cui l’art. 489 CPM non punisce il matrimonio tra persone dello stesso sesso, bensì gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso.

57      Ne consegue che la domanda di annullamento deve essere accolta sul fondamento della prima censura formulata nell’ambito del motivo unico del ricorrente, senza che occorra statuire sulle altre censure del medesimo motivo.

58      Alla luce di quanto sopra esposto, occorre annullare le decisioni impugnate.

 Sulle spese

59      Ai sensi dell’art. 87, n. 1, del regolamento di procedura, fatte salve le altre disposizioni del capo VIII del titolo II di tale regolamento, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. In forza del n. 2 dello stesso articolo, per ragioni di equità, il Tribunale può decidere che una parte soccombente sia condannata solo parzialmente alle spese, o addirittura che non debba essere condannata a tale titolo.

60      Dalla suesposta motivazione risulta che la Commissione è soccombente. Inoltre il ricorrente, nelle sue conclusioni, ha espressamente chiesto la condanna della convenuta alle spese. Atteso che le circostanze del caso di specie non giustificano l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 87, n. 2, del regolamento di procedura, la Commissione deve essere condannata alle spese.

Per questi motivi,

IL TRIBUNALE DELLA FUNZIONE PUBBLICA
(Seconda Sezione)

dichiara e statuisce:

1)      Le decisioni della Commissione 5 marzo 2009 e 17 luglio 2009, con le quali viene negato al sig. W il beneficio dell’assegno di famiglia di cui all’art. 1 dell’allegato VII dello Statuto dei funzionari dell’Unione europea, sono annullate.

2)      La Commissione europea sopporterà la totalità delle spese.