Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza del 17 marzo 2009, n. 6441

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. SALMÈ Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

 SENTENZA

sul ricorso proposto da:

M.D.W., T.R., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA CICERONE 44, presso l’avvocato ROTELLI ANTONIO, rappresentati e difesi dall’avvocato CONSOLI DANIELA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

QUESTURA DI LIVORNO, MINISTERO DELL’INTERNO;

– intimati –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 06/12/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 30/09/2008 dal Consigliere Dott. SALMÈ Giuseppe;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato CONSOLI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto dei motivi uno, due e quattro, assorbiti gli altri motivi.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il cittadino neozelandese M.D.W., avendo già

ottenuto visto d’ingresso e permesso di soggiorno per motivi di studio per la durata di un anno, facendo valere il riconoscimento della qualità di “partner de facto” del cittadino italiano T.R. da parte delle competenti autorità neozelandesi, ha chiesto al questore di Livorno la conversione del titolo di soggiorno in permesso per motivi familiari ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1, lett. c) in relazione alla L. n. 218 del 1995, artt. 24 e 65.

Il provvedimento del 15 ottobre 2004 del questore, che ha dichiarato irricevibile l’istanza, è stato dichiarato illegittimo dal tribunale di Firenze con decreto del 4 luglio 2000, ma la Corte d’appello di Firenze, con decreto del 6 dicembre 2006, in riforma della decisione di primo grado, ha respinto la domanda del M. affermando che:

a) la condizione di partner de facto, attestata dalle autorità neozelandesi, secondo il nostro ordinamento giuridico è diversa da quella di “familiare”, che può essere riconosciuta soltanto a soggetti legati da vincoli parentali e, solo in alcuni casi, anche di affinità;

b) non è possibile una lettura costituzionalmente orientata di tale disciplina che consenta di pervenire a interpretazioni estensive, perché la Corte costituzionale ha costantemente affermato la legittimità costituzionale delle norme che non consentono di estendere alle convivenze di fatto la disciplina della famiglia legittima (sentenze nn. 313/2000, 2 e 166 del 1998, 127/1997, 237/1986, 45/1980), anche con specifico riferimento alla normativa in materia d’immigrazione e in particolare con riferimento alla norma che limita il divieto di espulsione allo straniero coniugato o parente entro il quarto grado di cittadino, escludendo lo straniero convivente more uxorio (sentenza n. 313/2000);

c) la legge neozelandese che riconosce la qualità di conviventi di fatto a persone dello stesso sesso, tanto più se dovesse intendersi anche come costitutiva dello status di “familiare”, è contraria all’ordine pubblico italiano;

d) l’art. 3, comma 2, lett. b) della direttiva n. 2004/38/CE, che riconosce il diritto di soggiorno nel territorio degli stati membri ai partner stranieri che abbiano una relazione stabile debitamente attestata, non è applicabile nella specie perché il M. non è cittadino di uno stato dell’Unione Europea e perché, comunque, l’equiparazione dell’unione registrata al matrimonio, al fine del riconoscimento della qualità di “familiare” e quindi del diritto di ingresso e di soggiorno, deve essere prevista dalla legislazione nazionale dello Stato membro ospitante;

e) l’art. 12 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo e l’art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea riservano alle legislazioni nazionali la competenza a disciplinare il diritto ad instaurare rapporti coniugali o unioni familiari di tipo diverso, e poiché il nostro ordinamento riconosce le unioni di tipo coniugale solo nelle ipotesi di convivenze tra persone di sesso diverso, il recepimento di una normativa di altro Stato (tra l’altro non comunitario) che riconosca la qualità di convivente di fatto a persone dello stesso sesso produrrebbe effetti contrari all’ordine pubblico.

Avverso il decreto della corte d’appello di Firenze il M. e il T. hanno proposto ricorso per Cassazione articolato in cinque motivi, illustrati con memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la Corte territoriale avrebbe ritenuto che la domanda proposta davanti al tribunale di Firenze fosse diretta a ottenere il recepimento nel nostro ordinamento della normativa neozelandese che riconosce la qualità di conviventi di fatto a persone dello stesso sesso, mentre la domanda stessa aveva ad oggetto soltanto il riconoscimento, ai sensi della L. n. 218 del 1995, di uno status già acquisito dallo straniero nell’ordinamento giuridico di appartenenza.

Il motivo non è fondato.

La Corte territoriale ha correttamente individuato ed esaminato la domanda proposta dagli attuali ricorrenti, come diretta a contestare la legittimità del provvedimento di rigetto (per “irricevibilità”) della richiesta di permesso di soggiorno per motivi familiari ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1, lett. c). Nell’iter argomentativo diretto a individuare l’esatta portata della nozione di “familiare” (di cui alla citata disposizione normativa, la Corte territoriale ha anche affrontato il problema della possibile rilevanza della qualità del T. di “partner de facto” del cittadino neozelandese, attestata dalle autorità dello stato di appartenenza di questo, negandola per la ritenuta contrarietà all’ordine pubblico della norma straniera sulla base della quale sarebbe stata rilasciata l’attestazione. Tuttavia il decisum del provvedimento impugnato è limitato alla questione relativa all’applicazione della disciplina dell’immigrazione e non investe, principaliter, il riconoscimento di status o, comunque, di qualità personali, come gli stessi ricorrenti ammettono nell’articolazione del terzo motivo di ricorso, e pertanto la censura appare inconferente.

2. Con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 24 e 65 in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 28, comma 2, e artt. 30 e 31, i ricorrenti sostengono che, ai fini dell’applicazione dell’art. 30 cit. il giudice nazionale non doveva valutare se lo status di convivente di fatto sia equiparabile a quello di familiare alla stregua delle norme nazionali, ma accertare se, secondo la disciplina neozelandese applicabile in virtù della L. n. 218 del 1995, art. 24, il M. debba considerarsi “familiare” del cittadino italiano. Nè il limite dell’ordine pubblico può derivare dalla sola mancanza di una disciplina legislativa interna in materia di rapporti di tipo familiare tra persone dello stesso sesso, che, peraltro, trovano tutela nell’art. 2 Cost. che prende in considerazione tutte le formazioni sociali nelle quali, secondo il sentire sociale che riconosce diverse tipologie di rapporti familiari, si realizzano i valori della persona. D’altra parte, anche nel diritto interno (D.P.R. n. 54 del 2002, art. 3, comma 3 e il D.Lgs. n. 72 del 2007) la nozione di familiare è più ampia di quella di persona legata da rapporto di coniugio e si estende al partner.

Anche con il terzo motivo i ricorrenti, deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 24 e 65 in relazione all’art. 16 della stessa legge e vizio di omessa e contraddittoria motivazione, censurano, sotto ulteriori profili, l’affermazione della contrarietà all’ordine pubblico del riconoscimento della qualità di familiare al partner dello stesso sesso, osservando che a tale conclusione può pervenirsi soltanto sulla base di un contrasto con principi che trovino espressione nella Costituzione e abbiano, per le loro caratteristiche economiche, sociali, morali e politiche, importanza fondamentale. Inoltre sul punto è necessaria una analitica motivazione che invece la Corte territoriale non avrebbe fornito. Peraltro, ribadiscono i ricorrenti, la domanda del M. non è diretta a ottenere il riconoscimento di uno status o l’equiparazione del rapporto di convivenza con quello di coniugio, ma, sulla base della presa d’atto di una qualità riconosciutagli dal proprio ordinamento di appartenenza, mira a ottenere la produzione di un effetto sostanziale nel nostro ordinamento consistente nel rilascio di un titolo di soggiorno per motivi familiari, effetto che non può considerarsi inaccettabile per l’ordinamento interno, nell’ambito del quale la convivenza esprime valori di solidarietà in sintonia con il costume sociale.

Può infine essere congiuntamente esaminato, essendo strettamente connesso, anche il quinto motivo con il quale si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 8 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e vizio di motivazione perché il rifiuto di rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari costituirebbe illegittima interferenza nella vita privata e familiare, intendendosi con quest’ultima espressione, in conformità con la giurisprudenza di Strasburgo, il riferimento anche a relazioni diverse da quelle fondate sul matrimonio.

3. I motivi non sono fondati.

Come si è già rilevato nell’esame del primo motivo, la Corte territoriale non è stata chiamata ad accertare e dichiarare lo status o un diritto della personalità del M., accertamento in relazione al quale avrebbe dovuto farsi riferimento alla sua legge nazionale, ai sensi della L. n. 218 del 1995, art. 24, ma a verificare la sussistenza del requisito soggettivo richiesto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, comma 1, lett. c).

Tale essendo l’oggetto del presente giudizio, il giudice del merito correttamente ha limitato il suo esame alla disciplina di diritto interno relativa all’immigrazione, sia pure alla luce delle norme sovranazionali e, in particolare, di quelle di provenienza comunitaria, competenti secondo il sistema delle fonti delineato dalla carta costituzionale.

Vero è che il provvedimento impugnato non si è limitato alla predetta verifica, che, essendosi conclusa nel senso dell’impossibilità di intendere la nozione di “familiare” di cui all’art. 30 cit. come comprensiva anche di quella di partner de facto del cittadino neozelandese debitamente attestata dalle autorità dello Stato straniero, sarebbe stata sufficiente a sorreggere la decisione, ma, con ratio decidendi del tutto autonoma, ha anche affermato, “peraltro”, che, se al fine di decidere, e quindi dell’applicazione della disciplina dell’immigrazione, fosse stato necessario fare applicazione della legge neozelandese che riconosce le convivenze di fatto tra soggetti dello stesso sesso, tale applicazione sarebbe stata in contrasto con l’ordine pubblico italiano.

Entrambe le rationes decidendi sono oggetto di censura, ma è evidente che, in ordine logico deve essere esaminata prioritariamente la questione relativa alla corretta interpretazione della nozione legislativa di “familiare” utilizzata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30, perché in caso di infondatezza delle censure mosse nei confronti della soluzione raggiunta sul punto dalla corte territoriale rimarrebbe assorbita la problematica relativa alla correttezza dell’utilizzazione del limite dell’ordine pubblico. 4. La normativa contenuta nel titolo quarto del D.Lgs. n. 286 del 1998 (diritto all’unità familiare e tutela dei minori), e in particolare quella di cui all’art. 30 cit., avente ad oggetto il permesso di soggiorno per motivi familiari, presuppone la nozione di “familiare”, che il legislatore ha delineato in via autonoma, agli specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio. Come risulta dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29, comma 1, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dapprima con la L. n. 189 del 2002, art. 23, comma 1, e successivamente con il D.Lgs. n. 5 del 2007, art. 2, comma 1, lett. e) richiamato dall’art. 30, la nozione di “familiare” comprende:

a) il coniuge;

b) i figli minori;

c) i figli maggiorenni non autosufficienti per ragioni di salute;

d) i genitori a carico che non dispongano di adeguato sostegno familiare nel paese di origine o di provenienza.

A fronte della lettera delle indicate disposizioni si pone tuttavia il problema di verificare se l’esclusione dal novero dei “familiari” aventi diritto al permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 30 dei soggetti, dello stesso o di diverso sesso, conviventi e legati da una stabile relazione affettiva, oggetto di registrazione o di semplice attestazione, si ponga in contrasto con norme costituzionali, in particolare con gli artt. 2, 3 e 2 9 Cost. in modo da imporre, in prima battuta, l’adozione del canone ermeneutico secondo cui il principio di supremazia costituzionale impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che rende la disposizione conforme a Costituzione, e, in caso di esito negativo di tale percorso interpretativo, di sollevare questione di legittimità costituzionale. Chiamata a verificare la compatibilità della nozione di “familiare” individuata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 29 (in particolare dal comma 1, let. e) come modificato dalla L. n. 189 del 2002) con le indicate norme costituzionali, la Corte costituzionale ha avuto modo di escludere il contrasto (ord. n. 368/2006, n. 464/2005 e sent. n. 224/2005) sulla base del rilievo che “l’inviolabilità del diritto all’unità familiare…deve ricevere la più ampia tutela con riferimento alla famiglia nucleare, eventualmente in formazione, e quindi in relazione al ricongiungimento dello straniero con il coniuge e i figli minori” mentre negli altri casi il legislatore, che in materia gode di un’ampia discrezionalità limitata solo dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli, può bilanciare il diritto dello Stato a regolamentare l’ingresso in Italia e il diritto degli stranieri all’unità familiare, che rispetto al primo assume pari dignità e rango (così espressamente ord. 464/2005 cit.). Più specificamente la Corte Costituzionale ha esaminato e risolto l’ulteriore problema della possibilità di estendere per analogia la nozione di “familiare” a situazioni diverse da quelle espressamente previste.

A tal fine, mentre si è ritenuto (sent. n. 198/2003) che debba essere riconosciuta ai minori già sottoposti a tutela ai sensi dell’art. 343 c.c. al compimento della maggiore età, la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno, così come è previsto per i minori in affidamento (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 32, comma 1), stante l’identità di presupposti e di caratteristiche del rapporto di tutela con il rapporto di affidamento, viceversa in materia di divieto di espulsione previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, lett. e), la giurisprudenza della Corte Costituzionale (ord. n. 313/2000, 192 e 444/2006, richiamate anche dalla più recente ord. n. 118/2008) è costante nel negare la possibilità di estendere, attraverso un mero giudizio di equivalenza tra le due situazioni, la disciplina prevista per la famiglia legittima alla convivenza di fatto, richiamando l’affermazione secondo la quale “la convivenza more uxorio è un rapporto di fatto, privo dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività dei diritti e dei doveri (…) che nascono soltanto dal matrimonio e sono propri della famiglia legittima (sentenze n. 45 del 1980, n. 237 del 1986, n. 127 del 1997)”.

Ne deriva che l’interpretazione estensiva della nozione di “familiare” delineata nella legislazione sull’immigrazione invocata dai ricorrenti non può ritenersi imposta da alcuna norma costituzionale.

5. Nè la nozione di “familiare” risultante dal combinato disposto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 29 e 30 può essere ampliata, al fine di ricomprendervi anche i soggetti legati da una stabile relazione affettiva realizzata attraverso una convivenza di tipo non matrimoniale, registrata o attestata, per effetto dell’art. 12 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (le cui norme costituiscono fonte integratrice del parametro di costituzionalità introdotto dall’art. 117 Cost., comma 1: sentenze nn. 348 e 349/2007) o alla luce dell’art. 9 della Carta di Nizza, parte integrante del trattato di Lisbona ratificato dall’Italia l’8 agosto 2008, ma non ancora efficace in attesa delle ulteriori necessarie ratifiche da parte degli altri Stati dell’Unione, anche se, per il suo valore ricognitivo delle tradizioni costituzionali comuni in materia di diritti fondamentali, costituisce uno strumento interpretativo privilegiato al quale i giudici sovranazionali (Corte Giust., Grande Sezione, 3 settembre 2008, cause C – 402/05 P e C – 415/05 P, Kadi; Corte giust. 11 luglio 2008, causa C – 195/08 PPU, Inga Rinau; Corte giust.(Grande sezione) 29 gennaio 2008, causa C275/06, Productores de Musica de Espana (Promusicae);

Corte giust. 27.6.2006, causa C540/03,Parlamento c. Consiglio; Corte giust. 13 marzo 2007, causa C432/05, Unijbet; Corte giust. 18 dicembre 2007, causa C – 341/05), Lavai; Corte giust., 11 dicembre 2007, causa C – 438/05, ViJcing; Corte giust. 3 maggio 2007, causa C – 303/05, Advocaten voor de Wereld; Corte giust. 14 febbraio 2008, causa c – 244/06, Dynamic medien vertiebs gmbH; Corte giust.,14 febbraio 2008, causa C – 450/06, Varec) e quelli degli Stati membri ricorrono sempre più spesso (per quanto riguarda la Cassazione, si veda ad esempio n. 15822/2002, 21748/2007, 10651/2008, 23934/2008;

Cass. pen. 7 luglio 2008, Barbetta). Se è vero che la formulazione del citato art. 9 da un lato conferma l’apertura verso forme di relazioni affettive di tipo familiare diverse da quelle fondate sul matrimonio e, dall’altro, non richiede più come requisito necessario per invocare la garanzia dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del rapporto, resta fermo che anche tale disposizione, così come l’art. 12 CEDU, rinvia alle leggi nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del diritto, con ciò escludendo sia il riconoscimento automatico di unioni di tipo familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti interni che l’obbligo degli stati membri di adeguarsi al pluralismo delle relazioni familiari, non necessariamente eterosessuali. Quanto infine all’ipotizzato contrasto della disciplina interna in esame con gli artt. 8 e 14 della CEDU, per l’arbitraria ingerenza nelle scelte del modello familiare, avente anche portata discriminatoria sulla base degli orientamenti sessuali, escluso questo secondo profilo, in quanto la mancata equiparazione al coniuge è prevista in relazione a qualsiasi tipo di convivenza non matrimoniale2, e non soltanto per quelle tra persone dello stesso sesso, deve rilevarsi che l’art. 8 CEDU, comma 2, consente l’ingerenza dell’autorità pubblica agli specifici fini previsti, tra i quali devono ritenersi compresi anche quelli perseguiti dalla disciplina del fenomeno migratorio3.

6. Alle stesse conclusioni ora raggiunte si deve pervenire anche tenendo conto della più recente disciplina comunitaria, avente ad oggetto i ricongiungimenti familiari.

Infatti sia la direttiva del consiglio europeo del 22 settembre 2003 n. 20 03/86/CE, che ha stabilito regole comuni per il diritto al ricongiungimento familiare per i cittadini di paesi terzi legittimamente residenti nell’Unione, attuata con D.Lgs. n. 5 del 2007, che la direttiva del parlamento e del consiglio europeo del 29 aprile 2004 n. 2004/38/Ce, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nei territorio degli Stati membri, attuata con D.Lgs. n. 30 del 2007, non sono applicabili nella specie. Non la prima, perché, come risulta espressamente dall’art. 3, comma 3 di tale direttiva, la stessa, non si applica ai familiari di cittadini dell’Unione, ma a quelli dei “soggiornanti” (art. 2, lett. c), e cioè ai familiari di cittadini di paesi terzi legalmente soggiornanti nello Stato membro, ma neppure la seconda, per l’assorbente ragione che la direttiva n. 38/2004 ha ad oggetto (art. 1) la situazione del cittadino dell’Unione che abbia esercitato il diritto di libera circolazione e di soggiorno nel territorio di uno Stato diverso da quello di appartenenza, mentre nella specie si discute del diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino italiano dimorante e residente in Italia.

Con tale rilievo resta quindi superata anche l’affermazione della corte territoriale secondo la quale, comunque, l’estensione della nozione di familiare non potrebbe avvenire sulla base della direttiva n. 38/2004, sia perché difetterebbero i presupposti indicati nell’art. 2, comma 1, lett. b), n. 2 (equiparazione delle unioni registrate al matrimonio secondo la legislazione dello Stato membro ospitante, peraltro, nella specie neppure invocata dalle parti) e del nel D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, comma 2, lett. b) (attestazione della relazione stabile con cittadino dell’Unione da parte dello Stato al quale lo stesso appartiene). D’altra parte, più in generale, tale direttiva, come la precedente n. 86/2003, al di fuori di alcune ristrette ipotesi di automatico riconoscimento del diritto all’ingresso e al soggiorno (ad esempio nel caso previsto dall’art. 4, comma 1 della direttiva n. 86, che lo limita al coniuge e ai figli minori) appare ispirata al rispetto delle legislazioni interne dei singoli Stati membri per quanto riguarda l’inclusione o l’esclusione della rilevanza di unioni diverse dal matrimonio eterosessuale. 7. Il rigetto delle censure dirette nei confronti

dell’interpretazione della nozione di “familiare” recepita dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 30 rende ultroneo l’esame delle critiche rivolte alla diversa ratio decidendi basata sull’invocazione del limite dell’ordine pubblico.

8. Con il quarto motivo si deduce la violazione della L. n. 62 del 2005, art. 2, e dell’art. 12 del trattato istitutivo dell’Unione europea, sostenendo che l’applicazione del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 30, producendo una disparità di trattamento nei confronti del cittadino italiano rispetto al cittadino di un Stato dell’Unione (c.d. discriminazione a rovescio), violerebbe la L. n. 62 del 2005, art. 2, lett. h) (“i decreti legislativi assicurano che sia garantita una effettiva parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto a quelli degli altri Stati membri dell’Unione europea, facendo in modo di assicurare il massimo livello di armonizzazione possibile tra le legislazioni interne dei vari Stati membri ed evitando l’insorgere di situazioni discriminatorie a danno dei cittadini italiani nel momento in cui gli stessi sono tenuti a rispettare, con particolare riferimento ai requisiti richiesti per l’esercizio di attività commerciali e professionali, una disciplina più restrittiva di quella applicata ai cittadini degli altri Stati membri”.) e l’art. 12 del Trattato, che vietano discriminazioni dei cittadini dell’Unione sulla base della nazionalità. In via subordinata, i ricorrenti sollecitano la rimessione alla Corte costituzionale della questione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 30 del 2007, art. 3, con riferimento all’art. 3 Cost., in quanto impedirebbe al cittadino italiano, a differenza degli altri cittadini di Stati dell’Unione, il soggiorno e il ricongiungimento con partner extracomunitario con il quale abbia una relazione stabile attestata dallo Stato del cittadino comunitario.

Il motivo non è fondato.

Da quanto rilevato nel precedente paragrafo deriva che la diversità di trattamento denunciata non deriva dall’applicazione del diritto comunitario che disciplina fattispecie del tutto diverse da quella di cui si tratta, avente ad oggetto la pretesa di un cittadino extracomunitario al ricongiungimento con cittadino italiano dimorante e residente in Italia, mentre, come ha precisato la Corte costituzionale con la sentenza n. 443 del 1997, il fenomeno delle cosiddette “discriminazioni a rovescio”, rilevante esclusivamente sul piano interno, consiste in situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto comunitario. Inoltre la diversità di trattamento non è legata alla nazionalità, ma alla circostanza che sia stato o non esercitato il diritto di circolazione e di soggiorno in uno Stato dell’Unione diverso da quello di appartenenza. Nè, infine appare rilevante la questione di costituzionalità, così come prospettata in termini generali, in quanto il cittadino italiano potrebbe ottenere il riconoscimento del diritto al ricongiungimento con un partner di un unione registrata o attestata nel paese che riconosca alla prima gli stessi effetti del matrimonio o non richieda che l’attestazione debba provenire necessariamente da parte dello stato di appartenenza (come previsto dall’art. 3, comma 2, lett. b) della direttiva n. 38/2004), mentre la restrizione del suo diritto discende soltanto dal fatto oggettivo del mancato esercizio del diritto di circolazione o soggiorno in altro Stato dell’Unione, che il diritto comunitario considera come requisito per l’applicazione della disciplina più favorevole. Ciò senza considerare che, per le ragioni indicate nel paragrafo n. 3, la mancata equiparazione al coniuge del partner di unione registrata o attestata, ai fini della disciplina dell’immigrazione, non appare in contrasto con alcun principio costituzionale. In conclusione il ricorso deve essere respinto.

Nulla sulle spese in quanto gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 30 settembre 2008.