Tribunale di Trieste, sentenza dell’8 agosto 2009

In composizione monocratica, in persona del giudice designato dott. Roberta Bardelle, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel procedimento camerale di Volontaria Giurisdizione iscritto al n. 1012/2009 promosso con ricorso depositato da (…) elettivamente domiciliato in Trieste (…) presso lo studio dell’avv.to Deborah Berton, che lo rappresenta e difende con l’avv.to Livio Cancelliere per delega apposta a margine del ricorso; ricorrente

avente per oggetto: impugnazione della decisione di rigetto della Commissione Territoriale di Gorizia per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria ai sensi della normativa di cui al d. lgs. N. 251/2007 e alle d. lgs. N. 25/2008, così come modificato dal d. lgs. N. 159/08;

CONCLUSIONI

per il ricorrente: “accertare e dichiarare il diritto del ricorrente (…) all’asilo nel territorio del Repubblica Italiana, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 3 della Costituzione, dichiarando altresì incidenter tantum che allo stesso è impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche nel suo paese

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Il ricorrente ha impugnato la decisione di rigetto della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Gorizia – mentre gli è stata riconosciuta la protezione internazionale sussidiaria – esponendo, fra l’altro, che: aveva dovuto lasciare il proprio paese, il Benin, a causa della relazione omosessuale instaurata con (…) la quale gli aveva causato discriminazioni di ogni sorta; aveva quindi deciso di riparare in Italia ove però, diversamente da quanto accaduto al proprio compagno, non era stata accolta la propria domanda di riconoscimento dello status di rifugiato ma solamente concessa la protezione internazionale sussidiaria. Ha chiesto quindi che sia dichiarata l’illegittimità di tale decisione per carente e contraddittoria motivazione, sussistendo gli estremi del rilascio del provvedimento richiesto.

All’udienza svoltasi in camera di consiglio è apparso il ricorrente, che è stato sentito in lingua italiana; depositata documentazione a supporto e chiesta ogni informazione utile, il procedimento è stato trattenuto in riserva per la decisione.

La domanda del ricorrente merita di trovare accoglimento per i motivi/ed entro i limiti che seguono.

Va preliminarmente evidenziato che ai sensi dell’art. 2 D. Lgs. n. 251/2007 per “rifugiato” deve intendersi il “cittadino straniero il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova fuori dal territorio del Paese di cui ha la cittadinanza e non può o, causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di tale Paese (…) ferme le cause di esclusione di cui all’articolo 10″, mentre per “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” deve considerarsi il “cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese”.

La valutazione circa la fondatezza della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ai sensi dell’art. 3 del medesimo corpo normativo, deve essere effettuata su base individuale tenendo in considerazione, fra l’altro, oltre alla dichiarazione e alla documentazione presentata dal richiedente, tutti i fatti pertinenti che riguardano il Paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda al fine di valutare se gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave.

Desta particolare importanza la disposizione di cui all’art. 7 ove si è predisposta la qualificazione degli atti di persecuzione – riconducibili a motivi di razza, religione, appartenenza a determinato gruppo sociale, opinione politica – che danno luogo all’accoglimento della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato: essi debbono “(a) essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo due, della Convenzione sui diritti dell’Uomo; b) costituire la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a); essi possono assumere la forma di atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale; provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatorie per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; c) azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie; d) rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria; e) azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di quell’articolo 10, comma 2; f) atti specificamente diretti contro il genere sessuale o contro l’infanzia“.

Più attenuati e meno rigorosi, ma altrettanto puntuali, paiono essere ex art. 14 del medesimo d.lgs.vo, i requisiti prestabiliti ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria: sono, invero, a tal fine considerati danni gravi (a) la condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte, (b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, (c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno internazionale.

In tema di prova del “fondato timore di persecuzione personale diretta” si osserva che di recente le Sezioni Unite della Suprema Corte (sentenza n. 27310 del 2008) hanno avuto modo di precisare i confini dell’onere probatorio gravante in capo al ricorrente espressamente qualificandolo, sulla scia dei precedenti orientamenti giurisprudenziali, come “limitato o attenuato” il ragione del ridotto grado di disponibilità obiettiva delle prove; tuttavia, si è ivi chiarito espressamente che tale attenuazione probatoria non vale a configurare un beneficio del dubbio in favore del ricorrente, né un obbligo in capo all’Amministrazione di smentire quanto ex adverso dedotto, né può indurre a ritenere sufficienti l’attestazione di soggetti estranei al giudizio o i richiami al notorio quanto alla situazione problematica del Paese d’origine o in merito a persecuzioni delle rispettive etnie di appartenenza, dovendo viceversa il ricorrente provare, “quanto meno in via presuntiva, il concreto pericolo cui andrebbe incontro con il rimpatrio, con preciso riferimento all’effettività ed all’attualità del rischio“, previo positivo superamento del giudizio di credibilità del proprio racconto. Le S.U. hanno evidenziato, inoltre, che la normativa comunitaria ha delineato una forte valorizzazione dei poteri istruttori del giudice quanto ad acquisizione d’ufficio d’informazioni necessarie a conoscere l’ordinamento giuridico e la situazione politica dei paesi di provenienza degli istanti.

Il ricorrente, pertanto, deve fornire quantomeno la prova di elementi gravi precisi e concordanti relativi alla propria storia personale, sulla base dei quali il giudice potrà, con l’aiuto di informazioni sulla situazione generale del Paese acquisite d’ufficio, fondare argomentazioni presuntive quanto alla pregressa sussistenza di atti di persecuzione o di gravi danni alla persona e di pericolo concreto, effettivo ed attuale, di ulteriore perpetrazione degli stessi in caso di rimpatrio del ricorrente.

Ciò premesso, nel caso di specie si osserva che il ricorrente ha riferito di aver subito atti astrattamente qualificabili come “atti di persecuzione” ai sensi dell’art. 7 lett. a), b) e f) del dlgs 251/2007 (intimidazioni, perdita del lavoro, umiliazioni, lesioni personali), realizzatisi nel proprio paese d’origine, il Benin, per ragioni legate alla scelta di intrattenere una relazione omosessuale, pratica punita dall’art. 88 del cp del Benin.

Preliminarmente va esaminata la situazione politica attuale del Paese d’origine del ricorrente onde verificare la sussistenza oggettiva di una situazione di pericolo tuttora in essere in caso di ritorno. Orbene, il ricorrente ha documentato (cfr. all. 11) che in Benin il mero compimento di atti omosessuali è punito con la reclusione da 1 a 3 anni. Il teste escusso, (…), ha confermato di essere il compagno del ricorrente. “Siamo omosessuali, ci siamo conosciuti in Benin e abbiamo vissuto insieme; non appena la nostra storia è stata appresa dalla sua famiglia i membri della stessa gli hanno creato un sacco di problemi, ha perso il lavoro due volte; all’inizio lavorava in una compagnia dell’aeronautica civile, per il tramite di suo cugino che era presidente dell’ordine dei notai del Benin, il ricorrente lavorava all’ufficio commerciale; il secondo lavoro era presso una ditta privata che l’ha licenziato dopo aver saputo la nostra storia. Poi un altro giorno in città è stato aggredito mentre scendeva da un taxi; non si sa chi sia stato; non poteva fare denuncia perché in Benin l’omosessualità è un reato penale punito con la pena da uno a tre anni e una multa da 100.000 a 500.000 franchi. Io allora ho deciso di lasciare il Benin nel 2005 perché io ho avuto un po’ gli stessi problemi eccetto in ambito famigliare, il ricorrente è venuto nel 2007 su mia chiamata; io ho ottenuto lo status di rifugiato dalla Commissione territoriale di Milano“.

La complessiva valutazione delle dichiarazioni del ricorrente unitamente a quanto riferito dal teste appare dirimente al fine di concedere l’invocata protezione internazionale sotto forma di status di rifugiato.

Ed invero, innanzitutto appare incongruo la diversa protezione offerta dalle Commissioni di Milano, che al teste (…) ha conferito lo status di rifugiato, e da quella di Gorizia che al ricorrente ha concesso la protezione sussidiaria. In secondo luogo appaiono integrati i requisiti previsti dall’art. 7 lett. a), b), e f) del dlgs 251/2007 in quanto gli atti subiti e di cui si è raggiunta la prova sono qualificabili alla stregua di violazioni dei diritti umani fondamentali, quale è la libera scelta del proprio orientamento sessuale; si è trattato di violenze fisiche e psichiche e, infine, l’ordinamento del Benin prevede un’azione giudiziaria con una pena detentiva contro il genere degli omosessuali “praticanti”.

In conclusione, attesa l’indimostrata contraddittorietà delle dichiarazioni, valutate invece come coerenti e credibili, compiuto da parte del ricorrente ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda fornendo tutti gli elementi pertinenti in suo possesso, e ritenuta la fondatezza del timore di essere perseguitato per motivi legati alla manifestazione di un orientamento sessuale, essendo stato assolto l’onere probatorio quanto a pericolo concreto ed attuale di poter subire in caso di ritorno atti astrattamente qualificabili alla stregua delle persecuzioni così come definite dall’art. 7 lett. a), b), e f) del dlgs 251/2007, al ricorrente va riconosciuto lo status di rifugiato.

P.Q.M.

Ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, il Tribunale in composizione monocratica definitivamente pronunciando:

–        accoglie il ricorso presentato da (…) ed annulla la decisione assunta nei confronti del medesimo dalla Commissione Territoriale di Gorizia il 2.2.08, riconoscendo lo status di rifugiato ai sensi e per gli effetti di cui al d. lgs. N. 251/07.

Così deciso in Trieste, il 8 agosto 2009

il Giudice

(dott. Roberta Bardelle)