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Ancora sulla controversa rilevanza penale della surrogazione all’estero. Il codice penale tra tutela della stirpe e modernità

2012-10-24 08.19.56Nella controversa nozione di identità dell’individuo tra status e contratto, anche il diritto penale nazionale è legato a norme severe ed antiche; la sentenza del Gup del Tribunale di Milano dell’8 aprile 2014 si muove nel solco di quell’indirizzo giurisprudenziale che riconosce la liceità, secondo la lex loci extranazionale (nella specie indiana), della fecondazione assistita eterologa e della certificazione anagrafica che indica la discendenza del nuovo nato dalla madre surrogata, ai fini della insussistenza del delitto di alterazione di stato civile. Sebbene gli effetti costitutivi dello status del nuovo nato debbano essere riferiti all’atto anagrafico estero, tuttavia il fatto conserva crismi di illiceità di rilievo penale, e secondo la pronuncia va sussunto nel delitto di falsa attestazione a pubblico ufficiale, resa con la richiesta in Italia di trascrizione anagrafica, dagli effetti meramente dichiarativi. Il divieto di fecondazione eterologa, posto dalla L. 40 del 2004, ha accentuato l’inadeguatezza dei datati presidi penali, riferiti alle nozioni giuridiche di stirpe e di discendenza naturalistica, intese quali beni sovrindividuali, di fronte alla moderna esigenza di riconoscimento della genitorialità sociale, di tutela dei diritti personali e di disciplina dei “contratti sullo status”.

di Domenico Pasquariello*

In attesa di conoscere le motivazioni della pronuncia della Corte Costituzionale sul divieto di fecondazione eterologa posta dalla L. 40 del 2004, torniamo ancora sull’ultima delle sentenze penali che sono intervenute sulla surrogazione di maternità all’estero e delitto di alterazione di stato (567 cp).
Il caso
La vicenda è nota, e ricalca il copione di espatrio procreativo che numerose (sono stimate in oltre 1.500) coppie italiane, etero ed omogenitoriali, si sono determinate a seguire dopo il niet della legge 40 alla fecondazione assistita eterologa: due coniugi lombardi hanno contratto all’estero un accordo per la surrogazione di maternità, la nascita è stata registrata localmente, secondo la normativa straniera, con la sola indicazione dei genitori italiani, e la richiesta all’autorità consolare italiana, e per il tramite di questa all’ufficiale di stato civile del comune di residenza, di annotazione anagrafica è stata poi incriminata in Italia come delitto di alterazione di stato.
Si era trattato di una surrogazione cosiddetta totale; l’ovocita, fecondato in vitro con lo sperma del genitore italiano, era stato donato da una donna straniera, poi impiantato nell’utero di un’altra terza donna, che aveva condotto la gestazione e partorito.
Nel caso in giudizio si era in India, dove le norme locali permettono (o meglio non vietano, ma non rileva approfondire in parte qua la normativa straniera, per il che si rimanda alla completa disamina svolta nella sentenza in commento), sia il contratto di surrogazione, con rinuncia delle madri donatrici ai diritti genitoriali, sia la non menzione di queste nelle certificazioni di nascita.
I due genitori italiani avevano così chiesto al Consolato di Mumbai la registrazione, con la trasmissione all’ufficio anagrafico del Comune di residenza del certificato di nascita rilasciato in India, e che li riconosceva come tali, senz’altre menzioni; giorni dopo, in Italia, il padre aveva chiesto la registrazione all’anagrafe del certificato “apostillato” dal Consolato, indicante quale madre del bambino la donna italiana.
Questa la condotta sussunta in tesi d’accusa d’aver violato l’art. 567 del codice penale.
La sentenza
Il Gup del Tribunale di Milano ha ritenuto che il momento “falsificante” l’indicazione di maternità, rilevante ai fini posti dall’art. 567 cp, debba essere riferito alla presentazione del certificato di nascita indiano al consolato italiano all’estero: questo era da considerarsi l’atto originario, costitutivo e produttivo di effetti sullo status dell’individuo; la successiva richiesta di trascrizione all’Ufficiale di Stato Civile in Italia aveva valenza meramente dichiarativa di pubblicità di effetti giuridici già creati.
Così precisato il momento ed il luogo della condotta incriminabile, si doveva prendere atto che l’atto di nascita indiano era stato formato nel rispetto della lex loci, all’esito di una procreazione assistita e di una gestazione concordata lecite secondo l’ordinamento locale; altrettanto lecita era stata la presentazione dell’atto, localmente valido e legittimo, al Consolato, per l’apostille prevista dalla Convenzione dell’Aja del 5\10\1961, ai fini della trascrizione nei registri dello stato civile italiano.
Tuttavia, rilevava il giudice, il momento dichiarativo all’ufficiale di stato civile in Italia integrava, nella parte dello status ex latere matris, una autonoma falsa dichiarazione rilevante ex art. 495 codice penale.
Così qualificati i fatti contestati come alterazione di stato, i coniugi pertanto sono stati condannati per tale “minore” reato, che ha pena edittale sensibilmente inferiore a quella dell’alterazione di stato e non prevede pene accessorie incidenti sulla potestà genitoriale.
Altro passaggio di interesse della decisione è nel diniego della attenuante dell’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale (art. 62, comma 1 n. 1), codice penale): in sentenza è stato escluso di poter apprezzare positivamente la circostanza che il desiderio di genitorialità, ovvero il movente della condotta, fosse stato perseguito “ad ogni costo”, contro le regole nazionali sulla procreazione assistita, nel caso specifico anche in condizioni di genitorialità problematica (per età e condizioni di salute della madre) ed a probabile discapito del nascituro.
Sullo sfondo infatti della decisione penale –né il Gup poteva ovviamente formalmente dar peso giuridico alle conseguenze extrapenali- ma in primo piano nella vicenda, si pongono i diritti ed il destino del nascituro, per il quale l’accertamento di rilevanza penale delle attestazioni di filiazione è possibile presupposto di fatto della dichiarazione dello stato di adottabilità da parte del Tribunale per i Minorenni.
I precedenti
Già in precedenza il Tribunale di Milano, con sentenza ordinaria dibattimentale , si era pronunciato su vicenda analoga (con riferimento alla lex loci dell’Ucraina), giungendo alle conclusioni della insussistenza dell’elemento oggettivo del delitto di alterazione di stato e di qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 495 codice penale.
Passaggio centrale della decisione penale, nella motivazione ricca di richiami ai temi bioetici connessi alla filiazione eterologa, erano sempre la formazione dell’atto di nascita e l’attribuzione dell’ascendenza nell’osservanza della lex loci.
Tuttavia in quel caso il Tribunale, ricordato che, secondo l’art. 15 DPR 396\2000 (Regolamento dello Stato civile), le dichiarazioni di nascita dei cittadini italiani all’estero “devono farsi secondo le norme stabilite dalla legge del luogo alle autorità competenti”, ed analogamente richiamato il rilievo esclusivo sullo status della prima dichiarazione estera di nascita, aveva opinato per la consumazione all’estero (e non all’ufficiale di stato civile del comune italiano di residenza) delle dichiarazioni mendaci sulla maternità, con conseguente improcedibilità del delitto di false dichiarazioni sull’identità per mancanza della richiesta di punizione da parte del Ministero della Giustizia, necessaria ex art. 9 codice penale.
Al contrario identica fattispecie di fecondazione eterologa assistita e surrogazione di maternità (sempre in Ucraina) è stata ritenuta integrare il delitto di alterazione di stato dal Tribunale di Brescia, che ha condannato alla pena di cinque anni ed un mese di reclusione i coniugi italiani, uno genitore biologico e l’altra madre surrogata.
Premessa una differente valutazione di liceità della condotta secondo la lex loci, il Tribunale aveva sottolineato l’effetto attributivo (ai neonati, chè si trattava di gemelli) di uno stato civile diverso da quello spettante “secondo natura”; i bambini potevano –si tratta di reato a consumazione anticipata rispetto all’evento, con rilievo della sola falsa certificazione non recepita dal pubblico ufficiale- risultare all’anagrafe figli di una donna che non li aveva partoriti, e tanto bastava per violare il disposto dell’art. 567 codice penale, posto a presidiare la conformità dello stato di famiglia alla “effettiva discendenza”. Alla condanna è seguita la pena accessoria, prevista dall’art. 569 codice penale della perdita della potestà genitoriale, sebbene applicata alla sola imputata, e non anche al coimputato padre biologico, come statuito dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 31 del 23\2\12.
Le questioni irrisolte
Dietro il fragile paravento penalistico si pongono con pressante esigenza di soluzione le questioni della nozione giuridica di maternità, di genitorialità e di famiglia, e l’esatta collocazione, rispetto a queste, dei diritti del nascituro.
Le possibilità mediche di fecondazione extrauterina scindono in tre direzioni la tradizionale unica possibilità di maternità naturalistica (mater semper certa). Si fronteggiano, o almeno entrano in considerazione, le nozioni di maternità genetica (la donatrice dell’ovulo), di maternità biologica della donna gestante, e maternità progettuale, da intento familiare e di accudimento; la maternità sociale è riflesso della nozione di genitorialità sociale.
La complessità della questione bioetica è negata -ma non per questo risolta, anzi- dalla normativa italiana, che con la L. 40 del 2004 ha, come noto, vietato qualsiasi forma di fecondazione assistita eterologa.
La norma penale di riferimento aggrava le conseguenze della “non soluzione”.
Per il delitto di alterazione di stato è prevista una sanzione severissima (da 5 a 15 anni di reclusione) per l’alterazione di identità (secondo comma art. 567 codice penale: a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità), accompagnata dall’automatismo della pena accessoria della perdita della potestà di genitore (art. 569 codice penale).
La previsione incriminatrice è contenuta nel Libro secondo, Titolo XI “Dei delitti contro la famiglia”, del codice, e già la collocazione sistematica, rimasta quella del codice Rocco del 1931, rivela la datazione socioculturale e la fragilità dell’impianto di tutela: il reato è concepito (si perdoni il gioco di parole) a tutela non di un diritto personalissimo, quale il diritto alla “propria” identità, ma come un delitto contro lo stato civile, a protezione di un interesse pubblicistico, dietro al quale si nascondono la arcaica tutela della stirpe, ovvero della “genuinità” della trasmissione del cognome, e la concezione della famiglia costruita sul vincolo unificante della consanguineità.
Non dissimile conclusione pone la riqualificazione del fatto nel reato, previsto dall’art. 495 codice penale, di false dichiarazioni al pubblico ufficiale; ancora scende in campo a regolare e punire una norma posta a tutela della “fede pubblica” o meglio, dopo la riforma introdotta dalla L. 215\08, a tutela degli interessi della pubblica amministrazione. Ovvero, nel caso, a presidio del corretto accertamento della identità personale, e cioè: non è l’individuo ad avere diritto di sapere “chi è” (anche) geneticamente, ma è lo Stato che esige di saperlo con precisione (solo) naturalistica.
Non si vuole disconoscere, ovviamente, il rilievo che interessi pubblicistici hanno sulla filiazione e sulla nascita, ma è palese che la totale non considerazione dei diritti soggettivi individuali, personalissimi e primari, del nuovo nato e degli individui genitori per invincibile dato di realtà sociale, rispetto alla sola protezione della “stirpe” (e comunque qual è, ora, dato che ex latere matris riproduzione biologica e genetica non coincidono?), quale bene sovrindividuale, esige con drammatica attualità di essere rivista anche nella materia penalistica.
La recente vicenda romana dello “scambio degli ovuli”, per un banale errore materiale, pone analoghi stringenti interrogativi, solo molto parzialmente risolvibili in base all’art. 9 della L. 40\2004.
In siffatto contesto normativo, cieco alla realtà, si devono muovere ufficiali di stato civile, magistrati inquirenti e giudicanti penali, e si deve muovere il Tribunale per i Minorenni nelle decisioni per lo stato di adottabilità dei nati sull’elusione all’estero del divieto posto dalla L. 40.
Al momento la nozione giuridica di maternità che essi devono considerare è solo quella tradizionale, naturalistica, da gestazione e parto, tramandata dal diritto romano al nostro codice civile all’art 269: è madre colei che ha partorito.
Da notizie del web le pronunce penali di primo grado (la sentenza bresciana è in appello) intervenute in tema di surrogazione di maternità all’estero ed alterazione di stato sono una ventina, 28 di assoluzione (con qualificazione o meno del fatto nel delitto meno grave previsto dall’art. 495 codice penale (e condanna o meno per questo reato) e 2 di condanna, in relazione a vicende accadute per la gran parte in Ucraina e, per quanto si sa, in due casi in India.
Le ragioni degli altri
I sostenitori del divieto normativo della surrogazione di maternità, definita con palese avversità come affitto dell’utero, portano gli argomenti dello sfruttamento economico delle donne “affittate” e della inadeguatezza genitoriale dei “committenti” la maternità.
Non a caso, si dice, queste vicende accadono in zone povere del mondo, approfittando della disponibilità dettata dall’indigenza della madre gestante, che a pagamento si presta non solo a concedere l’uso del proprio corpo, ma a rinunciare irrevocabilmente –secondo quanto consentito dalla legge locale- ad ogni diritto genitoriale sul nascituro, anch’egli così deprivato del diritto alla conoscenza dell’identità genetica e biologica.
Non a caso, inoltre, ricorrono alla “compravendita degli ovociti” ed a questi contratti d’affitto corporeo coppie “inadeguate”, che tali sarebbero considerate nelle procedure legali d’adozione, o perché –così si sostiene- omogenitoriali, o per età o condizione di salute impossibilitati a riprodursi secondo natura; nel caso della sentenza in commento, ad esempio, la madre committente era persona ultracinquantenne e paziente oncologica.
Il progetto di genitorialità che induce alla surrogazione di maternità, in altri termini, sarebbe un progetto “illegale”.
Queste obiezioni, ad eccezione ovviamente di quella relativa alla omogenitorialità ed alla nozione di famiglia sottesa –ragione fondante di questa rivista-, hanno un innegabile fondamento fattuale, che tuttavia non porta, ad una riflessione avveduta, argomenti a sostegno della opportunità del divieto.
Anzi, è proprio il divieto assoluto normativo (le vicende sull’aborto insegnano) a fronte dei progetti di genitorialità, che possono essere consapevoli ed adeguati, oppure meno, la premessa della realizzazione elusiva, all’estero, di entrambi.
E’ solo con una legislazione avanzata, attenta, con forme di controllo pubblicistico come per l’adozione –e non con i divieti tanto assoluti quanto fragili rispetto alla forza primaria del desiderio riproduttivo e delle aspettative individuali di genitorialità- che queste ultime, unitamente ai diritti del nascituro alla crescita in famiglia adeguata, possono essere assecondate evitando abiette negoziazioni, contratti di sfruttamento della donna, o progetti genitoriali improbabili.
Con lo sguardo verso chi, già da tempo, ha saputo fissare i principi in coerenza con l’evoluzione della società, rimane per ora la fiduciosa aspettativa che la Corte Costituzionale, nella motivazione della sentenza del 9 aprile scorso, ponga una ennesima e cruciale tappa del percorso decennale di interventi giurisprudenziali che hanno oramai travolto l’impianto ideologico della legge 40.

* Giudice presso la Corte d’Appello di Bologna

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