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La vita non si ferma: l’unione civile, la famiglia, i diritti dei bambini

di Angelo Schillaci

Pubblichiamo, con un breve commento, le due sentenze con le quali il Tribunale per i minorenni di Bologna ha disposto l’adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44, lett. d) della legge n. 184/1983 a favore di due minori, nei confronti del partner omosessuale del genitore genetico. 

A poco più di un anno dall’entrata in vigore della legge 20 maggio 2016, n. 76 e dalla pronuncia con la quale la prima sezione civile della Suprema Corte di Cassazione ha confermato l’innovativo orientamento inaugurato dal Tribunale per i minorenni di Roma nel 2014, continua a farsi strada, nel nostro ordinamento, la tutela dei figli e delle figlie nati, accolti e cresciuti in famiglie omogenitoriali attraverso l’istituto dell’adozione in casi particolari, pure a seguito dello stralcio della disposizione che, nell’originario testo del disegno di legge sulle unioni civili, mirava a novellare l’art. 44, lett. b) della legge n. 184/1983, estendendo alle parti dell’unione civile l’istituto dell’adozione del figlio del coniuge, ivi disciplinato. Dopo le pronunce della Corte d’Appello di Torino e di Milano, e la recentissima decisione del Tribunale per i minorenni di Venezia, arriva anche da Bologna una ulteriore conferma della possibilità di applicare l’art. 44, lett. d) della legge n. 184/1983 nel caso di adozione del figlio del partner omosessuale.

Le due pronunce si caratterizzano, peraltro, per la particolare chiarezza degli argomenti. In primo luogo, il Tribunale bolognese riprende e conferma l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione, a mente del quale – come noto – l’impossibilità di affidamento preadottivo che giustifica l’adozione in casi particolari ex art. 44 d) della legge n. 184/1983, va intesa anche (e soprattutto, in quanto fattispecie residuale) come impossibilità giuridica, quale si dà nel caso in cui il minore abbia già un genitore legale; assai significativamente, peraltro, i giudici bolognesi collegano espressamente tale interpretazione della disposizione in esame alla pronuncia n. 383/1999 della Corte costituzionale,secondo cui la ratio dell’effettiva realizzazione degli interessi del minore consente l’adozione per “constatata impossibilità di affidamento preadottivo” anche quando i minori “non sono stati o non possono essere formalmente dichiarati adottabili”.

Ma soprattutto, le due pronunce in esame si segnalano per la peculiare considerazione degli effetti prodotti, nella materia de qua, dall’introduzione nel nostro ordinamento dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Se già la Corte d’appello di Milano, con la pronuncia dello scorso 9 febbraio, aveva fatto ampio riferimento alla legge n. 76/2016, ed in particolare alla corretta interpretazione del terzo periodo del comma 20, il Tribunale per i minorenni di Bologna si spinge ancora oltre, chiarendo oltre ogni ragionevole dubbio che – per effetto (“a tacer d’altro”, si afferma significativamente nelle pronunce) dell’espresso riferimento alla “vita familiare” contenuto nel comma 12 dell’articolo unico – le unioni civili devono essere considerate alla stregua di vere e proprie famiglie, “così offrendo all’adozione in casi particolari, un substrato relazionale solido, sicuro, giuridicamente tutelato”.

Si tratta di una affermazione di sicuro rilievo, che fa giustizia di ogni residua perplessità in relazione alla portata della qualificazione dell’unione civile, al comma 1 dell’articolo unico, nei termini di “specifica formazione sociale“: sebbene infatti il nuovo istituto configuri una forma di unione distinta dal matrimonio (ma su questo modellata secondo canoni di ragionevolezza, nei limiti severi desumibili dall’art. 3 Cost.), ed in questo senso rientri nel più ampio genus delle formazioni sociali protette dall’art. 2 della Costituzione, non per questo è esclusa la sua natura familiare, desumibile chiaramente – come confermano le decisioni in commento – dal complesso della disciplina dettata dal legislatore. E d’altro canto, già nel corso dei lavori dell’Assemblea costituente, apparve chiaro che la speciale protezione della famiglia “fondata sul matrimonio” (che sarebbe poi confluita nell’art. 29 Cost.) non precludeva affatto la configurabilità di unioni familiari aventi diverso fondamento giuridico (o fattuale); così, nell’intervento del 5 novembre 1946, Aldo Moro significativamente poteva affermare (benché, all’epoca, con riferimento al matrimonio civile, e tuttavia con accenti la cui eco risuona anche nel contesto odierno) che “pur essendo molto caro ai democristiani il concetto del vincolo sacramentale nella famiglia, questo non impedisce di raffigurare una famiglia, comunque costituita, come una società che, presentando determinati caratteri di stabilità e funzionalità, possa inserirsi nella vita sociale” (Prima sottocommissione, 5 novembre 1946, AC , 1SC, pp. 339-340). Unione civile e non matrimonio, dunque, almeno per ora: ma famiglia, senza alcun dubbio e senza che il riferimento alla “specifica formazione sociale”, meramente tautologico (ché specifica formazione sociale è anche il matrimonio) possa in alcun modo inficiare la correttezza di tale affermazione, dal punto di vista giuridico e costituzionale. Va ribadito allora, seguendo le chiare argomentazioni dei giudici bolognesi, “che la relazione affettiva tra due persone dello stesso sesso, che si riconoscano come parti di un medesimo progetto di vita, con le aspirazioni, i desideri e i sogni comuni per il futuro, la condivisione insieme dei frammenti di vita quotidiana, costituisce a tutti gli effetti una ‘famiglia’, luogo in cui è possibile la crescita di un minore, senza che il mero fattore ‘omoaffettività’ possa costituire ostacolo formale”.

Ad integrazione di quanto sin qui osservato, pare altrettanto significativo, dal punto di vista dell’inquadramento sistematico del rapporto tra unione civile e adozione in casi particolari, il riferimento del Tribunale per i minorenni di Bologna al disposto dell’art. 1, comma 20 della legge n. 76/2016 (che riprende almeno in parte, come già sottolineato, l’analogo argomento contenuto nella decisione della Corte d’Appello di Milano del 9 febbraio 2017). Già nell’imminenza dell’approvazione della legge – e vieppiù a seguito della sentenza della Corte di cassazione del maggio del 2016 – era risultato infatti chiaro che l’impossibilità di applicare la clausola di equivalenza tra unioni civili e matrimonio, di cui al primo periodo del comma 20, alla legge n. 184/1983 (per espressa previsione del secondo periodo del medesimo comma) non dovesse intendersi come preclusiva rispetto all’applicabilità (almeno) di alcune disposizioni di tale legge – e segnatamente, quelle non riferite al matrimonio o non contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o espressioni equivalenti – alle parti dell’unione civile. Tanto doveva ritenersi escluso – come confermano le pronunce in commento – alla luce della clausola di salvaguardia di cui al terzo periodo del medesimo comma 20, a mente del quale “resta fermo quanto previsto e consentito in materia di adozione dalla norme vigenti”. La ratio di tale previsione – affermano i giudici bolognesi, riprendendo l’analoga posizione della Corte d’Appello di Milano – non può che essere quella, appunto, di salvaguardare gli orientamenti della giurisprudenza, chiarendo che nulla a ciò si oppone, ai sensi della legge n. 76/2016, ivi compreso il secondo periodo dello stesso comma 20. “La sua funzione”, come ben chiarisce il Tribunale per i minorenni di Bologna, “è quella di chiarire all’interprete che la mancata previsione legislativa dell’accesso all’adozione coparentale non deve essere letta come un segnale di arresto o di contrarietà rispetto all’orientamento consolidatosi negli ultimi anni in giurisprudenza in favore dell’adozione coparentale ai sensi della lettera d)”. A ciò si aggiunga che la natura di clausola di salvaguardia del terzo periodo del comma 20 della legge n. 76/2016 si iscrive armonicamente nella ratio complessiva della disposizione in esame, che è quella di garantire, nell’ambito di una legge che – lo si ricordi – si muove in una logica di trattamento differenziato delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, l’operatività di fondamentali anticorpi in chiave antidiscriminatoria, ad evitare – cioè – che dalla premessa del trattamento differenziato possano discendere ulteriori e non giustificate discriminazioni ai danni delle coppie omosessuali unite civilmente, così garantendo, in definitiva, la tenuta (pur non esente da persistenti ambiguità) del principio di eguaglianza.

In definitiva, laddove il processo politico parlamentare non è riuscito ad arrivare, si è lasciata aperta ai giudici la possibilità di procedere, nel caso concreto, a realizzare l’istanza di riconoscimento dell’omogenitorialità e, soprattutto, a tutelare la posizione dei soggetti più deboli, i bambini, attraverso istituti già presenti nel nostro ordinamento, come appunto l’adozione in casi particolari ex art. 44 d), o il riconoscimento di rapporti genitoriali sorti in ordinamenti stranieri, attraverso la trascrizione dei relativi atti di nascita (aspetto sul quale, come si ricorderà, la stessa Corte di Cassazione non ha tardato ad intervenire, seguita da importanti pronunce di merito) o dei provvedimenti di adozione.

Nonostante l’insufficiente capacità integrativa mostrata dal processo politico, il cammino verso il pieno riconoscimento dell’omogenitoralità – e dell’eguaglianza tra tutti i bambini – prosegue grazie ad una costellazione sempre più ricca di pronunce giurisdizionali, che – pur non potendo garantire un grado di certezza giuridica paragonabile a quello che deriverebbe da una previsione legislativa – si iscrivono tuttavia in un più ampio processo culturale che vede il concorso delle famiglie, delle associazioni, della dottrina e degli operatori del diritto e che, come la vita, non può fermarsi.

 

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