Figli alla nascita: dal tribunale di Torino una prima conferma per la “primavera dei comuni”
1 luglio, 2018 | Filled under discriminazione, genitorialità, italia, NEWS, OPINIONI, orientamento sessuale |
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1. Con due decreti depositati in data 21 maggio e 11 giugno 2018 il Tribunale di Torino ha disposto che due bambini, che il sindaco Chiara Appendino ha riconosciuto nelle scorse settimane come figli di due mamme (annotando entrambe le donne nel loro atto di nascita), prendano il doppio cognome.
Non si tratta, per esplicita segnalazione del tribunale, di decisioni che si occupano in via diretta della questione della bigenitorialità per i cd. bambini arcobaleno, e tuttavia le due decisioni gemelle presentano aspetti assai interessanti che vanno evidenziati e segnano, per quanto si dirà, il primo implicito avallo giudiziario della tesi sostenuta dagli ormai numerosissimi sindaci, di diverse coloriture politiche, che hanno contribuito in questi mesi al fenomeno della cd “primavera dei comuni” con l’iscrizione dei nominativi delle due mamme o due papà nel certificato di nascita di questi bambini (l’elenco é in continuo aggiornamento: Torino, Milano, Catania, Bologna, Firenze, Palermo, Napoli, Empoli, Gabicce, Grosseto, Serradifalco, Casalecchio di Reno…).
2. Come detto, il tribunale di Torino correttamente sottolinea come esuli dall’oggetto della domanda e dunque della decisione (inerente il cognome dei bambini), una valutazione complessiva della legittimità dei provvedimenti dell’ufficiale dello stato civile, per cui il tribunale “prende atto dell’operato dell’Ufficiale di stato civile, non essendo questa la sede processuale per valutare né la veridicità del riconoscimento né la legittimità dell’atto dell’Ufficiale dello stato civile, trattandosi di atti soggetti a specifiche impugnative previste dalla legge”, ex artt. 263 ss. c.c. ed ex artt. 95 ss. DPR 396/2000). Il tribunale nondimeno significativamente rileva come gli stessi non appaiano contrari alla legge e, anzi, appaiano motivati dalla necessità di proteggere il superiore interesse del minore: “non emergono, tuttavia, profili di manifesta e radicale illiceità o abnormità, in quanto la registrazione del riconoscimento da parte dell’Ufficiale di stato civile appare coerente con la tutela dell’interesse del minore, principale parametro di riferimento della prevalente giurisprudenza, anche di legittimità, su questioni affini”.
Con buona pace, dunque, di quanti nelle scorse settimane avevano gridato allo scandalo, parlando di atti illecitamente posti in essere dai sindaci ed invocando, addirittura, l’intervento delle procure (per pretesi reati di falso o di alterazione di stato). Con queste due decisioni torinesi pare definitivamente sbarrata la strada ad ogni avventurosa via penale contro i sindaci, salvo ritenere che siano adesso da indagare pure questi giudici, che al pari di altri stanno interpretando la legge vigente in modo attento e consapevole.
Riceve dunque una prima conferma giurisdizionale che non vi sia nella specie alcuna “forzatura giuridica”, ma una interpretazione della legge basata sul tenore letterale della norma di cui all’art. 8 della legge n. 40 del 2004, per cui i bambini nati da pma sono figli della “coppia” che ha espresso il consenso alla detta tecnica (senza alcun restringimento alla sola “coppia” eterosessuale)[1]. Nè appare dirimente che l’accesso alla PMA sia precluso a queste coppie in Italia, atteso che il meccanismo di protezione del minore è stato previsto dal legislatore del 2004 proprio per l’evenienza di bambini nati all’estero in seguito a pratiche vietate nel nostro ordinamento (quale la fecondazione eterologa, sino alla dichiarazione di illegittimità del divieto da parte della Consulta con sentenza 162/2014).
La lettera della norma di cui all’art. 8, legge 40 è infatti univoca, sicché per distaccarsi dal senso letterale delle sue parole sarebbe necessario un peculiare sforzo interpretativo, curiosamente finalizzato a privare questi bambini di una protezione prevista dalla legge per ogni bambino.
3. Il secondo aspetto che merita interesse riguarda più propriamente il cognome.
Il tribunale di Torino dispone il doppio cognome applicando l’art. 262 c.c in materia di cognome del figlio nato fuori dal matrimonio. In mancanza di una espressa equiparazione fra unione civile e matrimonio sotto il profilo della filiazione, questi bambini, infatti, sono tecnicamente “figli nati fuori dal matrimonio” (i quali comunque godono, al di là delle modalità di riconoscimento giuridico della genitorialitá, dell’unicitá dello status di figlio, il quale prescinde del tutto dallo stato di coniugio dei genitori).
L’art. 262 c.c. stabilisce al suo primo comma che “Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre” e al suo secondo comma che “Se la filiazione nei confronti del padre è stata accertata, o riconosciuta successivamente al riconoscimento da parte della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre”.
Nella specie le due madri avevano chiesto, in entrambi i casi, l’aggiunta del cognome della seconda madre “ai sensi e per gli effetti dell’art. 262 c.c.”.
Il tribunale non esplicita se la fattispecie sia stata inquadrata nel primo comma (riconoscimento contestuale), come sarebbe più corretto, o nel secondo comma (riconoscimento successivo), ma certamente il tribunale ha espressamente sancito che non ha alcun carattere preclusivo che il codice civile si riferisca al “padre”, rilevando che “deve trovare applicazione l’art. 262 c.c. anche al caso di specie, ancorché il riconoscimento successivo sia stato effettuato non dal padre, in conformità alla littera legis, bensì dall’altra genitrice di sesso femminile”. Ladisposizione, dunque, deve essere applicata in via analogica alla “seconda madre”.
Il dato è significativo, soprattutto a fronte di un diverso indirizzo giurisprudenziale tendente a desumere dalle norme del codice che fanno riferimento al padre o alla madre un preteso «carattere non gender-neutral del diritto italiano» con l’affermazione che «il diritto italiano, in materia di famiglia, non è affatto gender-neutral», sino alla perentoria affermazione che «dal punto di vista del diritto interno appare allo stato escluso che genitori di un figlio possano essere due persone dello stesso sesso»[2]. Posto che il legislatore non ha inteso equiparare del tutto i figli nati dentro e fuori dal matrimonio (e quindi anche dentro l’unione civile) atteso il mancato richiamo alla presunzione di concepimento (così attestando un perdurante privilegio per il matrimonio, scarsamente giustificabile a fronte di una unione avente pari stabilità giuridica attestata nello stato civile delle parti), il medesimo non ha escluso affatto figli comuni alla coppia unita civilmente, com’è attestato da numerosi indizi[3]. In ogni caso, con riguardo ai figli nati fuori dal matrimonio, non pare conferente che a norma dell’art. 250 c.c. possa «essere riconosciuto, nei modi previsti dall’articolo 254, dalla madre e dal padre» o che l’articolo 269 contempli la dichiarazione giudiziale della «paternità e maternità», atteso che la circostanza che vi siano due mamme non interferisce certamente con l’individuazione, ai sensi di tali norme, di ognuna di loro quale “madre” e della loro relazione col minore quale “maternità” e dunque nulla dice in ordine all’ammissibilità o meno di coppie omogenitoriali.
Non emergono dunque indici del preteso carattere “non gender netural” (?) del diritto italiano, non potendosi trarre divieti da un codice che, semplicemente ignorando nel 1942 le possibilità che sarebbero state offerte dalla scienza decenni più tardi, e fenomeni sociali, quali l’omoparentalitá, che sarebbero emersi molto dopo, semplicemente non poteva vietarli.
Correttamente il tribunale torinese ha ritenuto che ove una norma codicistica in materia di filiazione faccia espresso riferimento alla eterosessualità dei genitori, la stessa non abbia alcun effetto preclusivo, ma meriti semplicemente d’essere applicata in via analogica, o estensiva, alla nuova fattispecie, senza che sia peraltro necessario alcun ricorso alla Consulta, potendo sovvenire, appunto, una interpretazione evolutiva, funzionale alla protezione del superiore interesse del minore.
Nel caso di figlio di minore età, infine, a norma dell’ultimo capoverso dell’art. 262 c.c. il giudice deve decidere circa l’assunzione del cognome del genitore, ed in tale veste il tribunale piemontese, preso atto della concorde volontà dei due genitori, ha fatto implicita applicazione (per la prima volta a quanto è dato sapere), dei principi stabiliti dalla Corte costituzionale nella notissima sent. n. 286/2016, che ha dichiarato l’illegittimitá costituzionale della norma desumibile dal combinato disposto di più disposizioni di legge, nella parte in cui non consentiva ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno, dichiarando in via consequenziale (ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87) l’illegittimitá costituzionale anche dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, “di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno”.
Come avevamo sottolineato in un primo commento, tale decisione della Consulta pone un principio (quello della libera scelta, costituzionalmente garantita, di dare al figlio i due cognomi dei due genitori) che all’occorrenza si sarebbe prestato ad una estensione ai genitori dello stesso sesso[4].
Non si può non notare che, ovviamente, l’estensione di tale principio presuppone che a monte i due membri della “coppia che ha espresso il consenso” siano stati considerati dal tribunale torinese “genitori” del minore nell’accezione che questo termine ha nel codice civile, in particolare nel più volte menzionato art. 262 c.c, che regola il cognome del figlio (nato fuori del matrimonio).
4. Si tratta, come si vede, non di due mere decisioni in materia di cognome asetticamente conseguenti ai provvedimenti della sindaca di Torino (la prima, va detto, che ha indicato la via, poi seguita dai sindaci di praticamente tutte le maggiori città italiane, capitale esclusa), di cui il tribunale si limiterebbe a prendere atto, ma, ad un più attento esame, di deliberazioni, che pur nella loro condivisibile concisione, presuppongono una complessa e approfondita valutazione, e soluzione, di importanti questioni in tema di omoparentalità.
Il tribunale piemontese giunge a queste decisioni inforcando giustamente l’unica lente ammessa per il giudice, non quella delle proprie ideologie personali o di valutazioni metagiuridiche, ma quella del principio di uguaglianza formale di cui all’art. 3 della Costituzione, ricordando che diversamente “ opinando, infatti, si opererebbe una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti del figlio minore, il quale si vedrebbe preclusa (rispetto al figlio nato da genitori di sesso diverso o adottato da partner dello stesso sesso) la possibilità di acquisire il cognome di entrambi i soggetti che risultano, sulla base dei registri dello stato civile, suoi genitori”.
Il ricorso, pertanto deve “essere accolto, risultando l’apposizione di entrambi i cognomi rispondente al prevalente interesse del minore”.
[1]Sul punto sia consentito di rinviare a Gattuso,Comune di Torino sulla iscrizione di due mamme o papà negli atti di nascita: non è una forzatura giuridica (https://www.articolo29.it/2018/comune-torino-sulla-iscrizione-due-mamme-papa-negli-atti-nascita-non-forzatura-giuridica/)
[2]Tribunale di Pisa, ordinanza del 15 marzo 2018 , in ARTICOLO29 con nota di Schillaci, L’omogenitorialità a Palazzo della Consulta: osservazioni a prima lettura dell’ordinanza del Tribunale di Pisa del 15 marzo 2018.
[3] Si rinvia sul punto, a Gattuso,Un bambino e le sue mamme: dall’invisibilità al riconoscimento ex art. 8 legge 40 inQuestione Giustizia, 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/un-bambino-e-le-sue-mamme_dall-invisibilita-al-riconoscimento-ex-art_8-legge-40_16-01-2018.php
[4]Si consenta il rinvio a Gattuso,Il problema del riconoscimento ab origine della genitorialità omosessuale, in G. Buffone, M. Gattuso, M. M. Winkler,Unione civile e convivenza, Giuffrè, 2017, p. 266.