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Comune di Torino sulla iscrizione di due mamme o papà negli atti di nascita: non è una forzatura giuridica

di Marco Gattuso

La sindaca di Torino ha annunciato ieri la volontà di iscrivere all’anagrafe i figli nati da coppie di due mamme o due papà.
La decisione è scaturita dal caso (riportato dalla stampa nei giorni scorsi ) di due mamme che avevano chiesto – non la trascrizione di un certificato estero ma – di iscrivere un certificato di nascita con due mamme per un bambino che è nato qui in Italia.
La questione delle trascrizioni di atti di nascita esteri é stata già affrontata e risolta positivamente da altri Comuni in casi ormai numerosi, in particolare grazie a due importanti pronunce della Corte di Cassazione (vedi qui e qui).
Il Comune di Torino si allinea a tale indirizzo e annuncia tuttavia oggi anche una scelta nuova, poiché qui non si tratta di ammettere un atto già formato all’estero (che come noto può essere trascritto sempre, anche se non conforme alle nostre leggi, purché non sia contrario all’ordine pubblico internazionale), ma di formare un atto di nascita con due mamme o due papà, in quanto lo si assume conforme alla nostra legge nazionale.
Si tratta di una scelta importante, perché segna il passaggio al riconoscimento che i bambini nati dalle “famiglie arcobaleno” possono godere di una tutela piena già secondo le leggi vigenti. Ben oltre la cd. stepchild adoption che lascia questi bambini privi di un genitore per anni, che dipende da una successiva scelta dei genitori, che deve essere sottoposta a un nuovo vaglio dei tribunali (spesso lungo, incerto e costoso) e che secondo alcuni non dà neppure effetti pieni.
Nel comunicato della sindaca di Torino si legge che vi è la sua “ferma volontà di dare pieno riconoscimento alle famiglie di mamme e di papà con le loro bambine e i loro bambini” per cui “da mesi stiamo cercando una soluzione compatibile con la normativa vigente” e che “la nostra volontà è chiara e procederemo anche forzando la mano, con l’auspicio di aprire un dibattito nel Paese in tema di diritti quanto mai urgente”.
Nel comunicato, la sindaca sottolinea dunque come questa svolta sia diretta, innanzitutto, a riaprire il dibattito politico sulla questione dell’omogenitorialità.
Non è questa evidentemente la sede per discutere le implicazioni e gli effetti politici di questa scelta, mentre può essere utile riflettere sulle sue implicazioni strettamente giuridiche e, soprattutto, sul fondamento giuridico di questa decisione.

La sindaca, dunque, afferma che procederà senz’altro alla formazione degli atti di nascita, che il suo ufficio sta “cercando una soluzione compatibile con la normativa vigente” e che comunque non è neppure esclusa la eventualità di “forzare la mano”.
È ovvio che il sindaco, quando agisce quale ufficiale di stato civile, debba tenere i registri dello stato civile in conformità alla legge vigente, così come è noto che in qualche caso, anche recente, sindaci italiani e, soprattutto, di altri paesi, abbiano compiuto coraggiosi gesti di rottura al fine di gettare un sasso nello stagno di regole giuridiche ritenute ormai antiquate e lesive di diritti fondamentali (si pensi, ad es., al primo matrimonio tra due uomini celebrato in Francia da un coraggioso sindaco oltre venti anni fa, che ebbe il merito di aprire il dibattito sulla discriminazione matrimoniale).
Non ci pare tuttavia che questo sia oggi il caso per quanto riguarda i “bambini arcobaleno”. Non si tratta infatti di un gesto di rottura, di una forzatura giuridica, ma di una applicazione corretta delle norme già presenti nel nostro ordinamento.
Non è infatti corretto sostenere, da un punto di vista giuridico, che con le leggi attuali non sia possibile assicurare già oggi una piena tutela ai bambini nati da coppie omoparentali. Una lettura letterale delle norme porta, anzi, ad affermare che la protezione sin dalla nascita di questi bambini – di tutti i bambini – sia perfettamente coerente con le norme che regolano la specifica questione dei bambini nati da pma nell’attuale sistema giuridico, sicché la compilazione di atti di nascita con due mamme o con due papà per i bambini concepiti con pma è addirittura imposta dal sistema.
Vediamo perché.
La legge italiana oggi consente alle coppie dello stesso sesso di formare una famiglia legalmente riconosciuta, attraverso la celebrazione di una unione civile, che ha effetti pressoché equivalenti ad un matrimonio, o attraverso una famiglia di fatto fondata su una “relazione affettiva di coppia”, anch’essa tutelata, con effetti minori, dalla legge. Questi principi sono stati introdotti dalla legge n. 76/2016 (legge Cirinnà, prima e seconda parte) e conducono a ritenere che l’ordinamento accolga oggi una concezione plurale della famiglia, come riconosciuto pressoché unanimemente dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
Nonostante qualche incertezza per via dell’aspro dibattito che accompagnò due anni fa l’approvazione della legge Cirinnà, si deve pure sottolineare come la stessa legge Cirinnà preveda che nell’ambito dell’unione civile le coppie dello stesso sesso possano avere figli comuni. La legge Cirinnà richiama infatti numerosi articoli che si occupano propriamente dei figli di entrambi i membri della coppia unita civilmente (in materia di sequestro dei beni, di divorzio e di pensione di reversibilità). Dunque, la legge ha riconosciuto espressamente che si possano avere due mamme o due papà, uniti civilmente.
È vero che la legge Cirinnà non ha equiparato l’unione civile al matrimonio per quanto riguarda i figli, non avendo ammesso la coppia unita civilmente all’adozione congiunta di bimbi abbandonati e non prevedendo la presunzione di paternità per i figli nati in costanza di unione. Ed è anche vero che le coppie dello stesso sesso per avere bambini non possono chiedere assistenza alle cliniche italiane che fanno la pma.
Ma la legge non vieta affatto alle coppie dello stesso sesso di avere bambini in ogni altro modo possibile, compreso il ricorso alla pma o alla gpa in altri paesi occidentali dove le coppie dello stesso sesso sono ammesse alle pratiche di fecondazione assistita.
Dopo il 2004 migliaia di coppie eterosessuali italiane si sono recate all’estero nei lunghi, terribili, dieci anni in cui la fecondazione eterologa medicalmente assistita era vietata nelle cliniche del nostro paese (sino a che  nel 2014 la Consulta ha chiarito l’incostituzionalità del divieto), vedendo comunque riconosciuti i figli come loro figli anche dalla legge italiana.
La legge italiana difatti impone di riconoscere che i figli nati con pma (anche fatta all’estero) siano riconosciuti in Italia come “figli della coppia che ha prestato il consenso” a tale pratica, manifestando la consapevole volontà di assumere la responsabilità genitoriale. L’art. 8 della legge 40/2004 è chiaro e univoco nel dire che chi nasce con pma è figlio della “coppia” che lo ha messo al mondo.
Per la legge italiana, dunque, chi ha messo al mondo un bambino con pma deve esserne genitore. Il genitore che abbia voluto mettere al mondo un bambino con pma non può pentirsene e lo status del bambino è irrevocabile.
Non si tratta di un diritto a divenire genitore, ma di un dovere. Il dovere di essere genitori. È il bambino ad avere il pieno diritto ad essere cresciuto, educato, mantenuto dalla “coppia” che lo ha messo al mondo. Chi ha contribuito alla sua nascita non può tirarsi indietro: è genitore di quel bambino e lo status di genitore (e di figlio) è indisponibile.
Oggi, tantissime coppie omosessuali continuano ad andare all’estero, permanendo per loro tuttora un divieto analogo a quello che in passato colpiva anche le coppie eterosessuali. Come accadeva in quel caso, anche i bimbi nati da queste coppie meritano tuttavia la protezione assicurata dalle nostre leggi.
Infatti, quando nell’ordinamento giuridico italiano una norma utilizza la parola “coppia”, la stessa fa necessariamente riferimento tanto alle coppie di sesso diverso che dello stesso sesso.
La legge n. 76/2016, cd. Legge Cirinnà, riconosce infatti espressamente che i rapporti affettivi di “coppia” giuridicamente rilevanti riguardano tanto le coppie di diverso che dello stesso sesso (art. 1, comma 36). Il dato è certo ed univoco.
Ritenere, dopo l’approvazione della legge Cirinnà, che la “coppia” cui fa riferimento la legge debba essere necessariamente di sesso diverso non è più sostenibile. Una interpretazione restrittiva dell’art. 8 della legge 40/2004 implicherebbe oggi un’evidente forzatura del tenore letterale della norma, operata in tutta evidenza per un mero pregiudizio ideologico.
È vero che le coppie unite civilmente non hanno alcune delle prerogrative che la legge riconosce alle coppie sposate (presunzione di paternità, adozione congiunta e lo stesso accesso alla pma in Italia), ma la protezione che il nostro ordinamento assicura ai bambini comunque nati con pma effettuata all’estero prescinde totalmente dal matrimonio. La regola della responsabilità genitoriale di cui alla legge 40 (“status del nascituro”) si applica ogniqualvolta un bambino nasca con pma, sia che i genitori siano sposati sia che non lo siano.
L’applicazione della regola dell’art. 8 della legge 40 anche ai bambini arcobaleno è il frutto di una precisa evoluzione del sistema, avvenuta in passato soprattutto grazie alla nostra giurisprudenza e a quella della corte europea dei diritti umani, ed oggi sancita dalla legge Cirinnà. La legge 76/2016 ha prodotto invero un radicale mutamento del quadro giuridico, della cui portata lentamente stiamo prendendo atto (e di cui ci si può rendere conto facilmente, se solo si scorre il numero di sentenze emesse in materia di omogenitorialità nei due anni trascorsi dalla sua promulgazione).
La strada aperta dalla sindaca di Torino è dunque perfettamente in linea con la lettera della nostra legge nazionale (in particolare alla luce del combinato disposto delle leggi 40/2004 e 76/2016) che, come detto, impone di considerare i figli nati con pma eterologa (o con gpa) figli della coppia, anche dello stesso sesso, che lo ha messo al mondo.
La scelta, aggiungiamo, è in linea non solo con la lettera della nostra legge, ma anche con i principi derivanti dai trattati internazionali, che ci impongono di non discriminare le coppie sulla base dell’orientamento sessuale (art. 14 Cedu; art. 21 Carta dei diritti della Unione europea; art. 3 Costituzione) ma, soprattutto, di trattare tutti i bambini allo stesso modo a prescindere da come sono venuti al mondo, nel pieno rispetto del loro superiore interesse e, quel che più conta, della loro stessa identità: come ricorda una recente e bella decisione del tribunale di Perugia (che revoca l’atto del sindaco di quella città che aveva vietato la trascrizione di un atto di nascita con due mamme ) poche cose al mondo incidono in modo più profondo sulla nostra identità che essere figli di quei due genitori.
Che questi principi vengano affermati oggi dal primo cittadino di una delle più grandi città italiane (peraltro esponente del partito di maggioranza relativa) è un segno incontrovertibile che la questione è ormai matura.

Per un approfondimento della questione dell’iscrizione di due mamme nell’atto di nascita vedi l’articolo sulla rivista di magistratura democratica Questione Giustizia
Sulla applicazione di analoghi principi in caso di gpa, vedi il contributo sulla rivista dell’associazione donne magistrato Giudicedonna